Le elezioni generali della settimana scorsa in Pakistan si sono risolte con il successo relativamente annunciato del leader populista e nazionalista Imran Khan, il cui Movimento per la Giustizia (Pakistan Tehreek-e-Insaf, PTI) ha estromesso dal potere i due partiti a carattere sostanzialmente dinastico e clientelare che, militari a parte, hanno dominato gran parte della storia politica del paese dell’Asia meridionale.

 

Il successo del PTI potrebbe anche essere, secondo molti osservatori, una tappa importante nel processo in corso a livello internazionale verso il multipolarismo. Tradizionale alleato, per non dire fantoccio, degli Stati Uniti, il Pakistan e la sua classe dirigente sono da qualche tempo al centro di dinamiche strategiche regionali che stanno determinando un avvicinamento sempre più evidente di Islamabad alla Cina, con cui i rapporti sono peraltro storicamente cordiali, e addirittura alla Russia.

Qualche giorno fa, le forze armate israeliane hanno di fatto operato ancora una volta come contraerea a sostegno dell’opposizione fondamentalista in Siria. Due missili Patriot di produzione americana hanno abbattuto un aereo da guerra siriano in missione contro le residue forze dello Stato Islamico (ISIS) tra le province meridionali di Daraa e Quneitra, nei pressi delle alture del Golan.

 

Il governo e i vertici militari di Israele hanno dato un resoconto a dir poco tendenzioso dell’accaduto, nel tentativo di attribuirne la responsabilità al regime di Damasco. Secondo Tel Aviv, il Sukhoi siriano sarebbe entrato per un paio di chilometri nello spazio aereo israeliano, così da non lasciare alternativa all’abbattimento immediato.

Nel pieno dello scontro politico interno esploso dopo l’incontro con Putin a Helsinki, il presidente americano Trump ha riacceso in questi giorni il confronto con il governo iraniano, minacciando una nuova guerra distruttiva contro un paese che rimane al centro delle mire strategiche degli Stati Uniti.

 

Il “tweet” ormai famoso nel quale Trump ha intimato alle autorità della Repubblica Islamica di astenersi dal minacciare gli USA, per non incorrere in “conseguenze che in pochi hanno dovuto sopportare nella storia”, è stato probabilmente dettato dall’ala più radicale della sua amministrazione, sia per allentare le pressioni derivanti dalla polemica sui rapporti con la Russia sia per riportare al centro del dibattito a Washington una questione più conforme all’agenda della Casa Bianca.

In seguito all’avanzata delle forze governative siriane nel sud-ovest del paese, i sostenitori occidentali e arabi dei “ribelli” anti-Assad hanno perso in questi giorni un potente strumento di provocazione e propaganda sul campo con l’evacuazione forzata di centinaia di uomini inquadrati nei cosiddetti “Caschi Bianchi”.

 

Questi ultimi, definiti ufficialmente “Difesa Civile Siriana”, avrebbero dovuto in teoria assistere e mettere in salvo la popolazione civile invischiata nel conflitto, anche se in realtà si sono spesso occupati di operazioni di ben altro genere per favorire la battaglia condotta dai propri sponsor contro il regime di Damasco.

 

Inizialmente si era parlato di circa 800 “Caschi Bianchi” estratti dalle aree vicine alle alture del Golan, mentre in seguito fonti giordane hanno abbassato la cifra a 422, tra membri dell’organizzazione e le loro famiglie. L’operazione è stata condotta dai militari israeliani su input dei governi di Stati Uniti e Canada, i quali avevano discusso dei rischi che i “Caschi Bianchi” stavano correndo nel sud della Siria già nel corso del recente vertice NATO di Bruxelles.

Una prova di forza impressionante. Una dimostrazione di come il Frente Sandinista abbia il pieno controllo del paese e di quanto il popolo nicaraguense s’identifichi con il governo è andata in scena ieri in tutto il Nicaragua, dove in ogni singola provincia moltitudini di sandinisti hanno festeggiato il 19 Luglio. E’ stata una esibizione muscolare del FSLN che ha voluto rimettere cose e persone al loro posto; una mobilitazione che ha inteso inviare un messaggio di forza netto e diretto a tutti, dentro e fuori il Paese.

 

A Managua, alla presenza del Ministro degli Esteri cubano, Bruno Rodriguez, e di quello venezuelano, Jorge Arreaza, e del Nunzio papale e d tutto il corpo diplomatico accreditato, oltre 500.000 persone hanno partecipato alla manifestazione conclusa dal Presidente Daniel Ortega.

 

Il Comandante Sandinista ha ricordato fasi e rivelato retroscena inediti degli avvenimenti che hanno accompagnato il tentativo di colpo di stato, denunciando con forza l’orrore del terrorismo golpista e la complicità delle gerarchie ecclesiali, che invece di favorire il dialogo offrivano ridicoli ultimatum al governo. Gerarchie cattoliche alle quali ha ripetutamente chiesto di rettificare l’atteggiamento, di emarginare le spinte golpiste che provengono da alcuni dei suoi vescovi e parroci, che hanno Cristo nelle parole e Somoza nei cuori. E seppure il golpe è fallito e la destra con i suoi padrini e padroni sia in ritirata, Daniel ha invitato il sandinismo a “non abbassare la guardia” per garantire agibilità politica e sicurezza fisica della comunità sandinista.


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