L’Unione Europea e il Giappone hanno firmato questa settimana quello che è destinato a diventare, una volta entrato in vigore nel 2019, il più grande accordo di libero scambio bilaterale del pianeta. La ratifica è avvenuta dopo trattative durate cinque anni e grazie a un’accelerazione finale stimolata dalle prime avvisaglie di una pericolosa guerra commerciale lanciata dal governo americano di Donald Trump.

 

L’accordo cancella quasi il 99% dei dazi che gravano attualmente sulle merci giapponesi destinate al mercato europeo, tra cui le automobili, e il 94% di quelli imposti ai beni provenienti dall’Europa e destinati al Giappone, inclusi vino, formaggi e altri prodotti alimentari. L’obiettivo del 99% anche a favore degli esportatori europei sarà raggiunto in futuro. La differenza è dovuta in primo luogo alla protezione dalle importazioni di riso, un prodotto culturalmente ed economicamente molto sensibile per il Giappone.

La performance di Donald Trump a Helsinki a fianco di Vladimir Putin è stata immediatamente bollata dai media ufficiali, dalla maggior parte della classe politica e dagli ambienti dell’intelligence americani come uno dei punti più bassi toccati dall’ufficio della presidenza e, forse, dagli stessi Stati Uniti. A giudicare dall’incredibile polverone scatenato in patria, in poco meno di un’ora di conferenza stampa tra i due leader, eventi come quelli di Pearl Harbor, del Golfo del Tonchino o dell’11 settembre sono sembrati passare in secondo piano per lasciare spazio all’umiliazione di un intero paese, venduto dal suo stesso presidente al dittatore criminale che risiede al Cremlino.

 

Le pressioni su Trump sono state subito tali che, al suo rientro a Washington, quest’ultimo ha proposto una parziale rettifica, come al solito pasticciata, delle parole pronunciate in Finlandia sul “Russiagate”. Trump e i suoi consiglieri hanno puntato su un errore verbale che avrebbe causato un fraintendimento sulla sua opinione circa l’interferenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016. Mercoledì, in un controverso scambio di battute con un giornalista, Trump avrebbe alla fine lasciato nuovamente intendere di non avere fiducia nelle conclusioni dell’intelligence americana.

Proprio mentre il presidente Trump definiva questa settimana l’Unione Europa un “nemico” degli Stati Uniti sul fronte economico e commerciale, il dipartimento di Stato e del Tesoro americani respingevano in maniera ufficiale le richieste di Francia, Germania e Gran Bretagna di sospendere il ripristino delle sanzioni contro l’Iran, provocato dall’uscita unilaterale di Washington dall’accordo sul nucleare di Vienna (JCPOA) lo scorso mese di maggio.

 

La replica americana si riferisce a una lettera che i paesi europei coinvolti nelle trattative diplomatiche con Teheran avevano inviato all’amministrazione Trump il 7 di giugno per provare a ottenere l’esenzione dalle misure punitive relativamente alle attività di business condotte in Iran dalle aziende francesi, britanniche e tedesche in alcuni settori, tra cui quello finanziario, energetico e medicale.

 

La supplica europea era il riconoscimento di fatto dell’autorità americana di imporre a piacimento politiche favorevoli ai propri interessi. Nessun effetto aveva avuto anche il quasi-patetico appello rivolto al governo USA ad astenersi dall’adottare misure che avrebbero danneggiato paesi alleati.

 

L’intenzione dichiarata della Casa Bianca è quella di applicare, con metodi mafiosi, “pressioni finanziarie senza precedenti” nei confronti dell’Iran e di ridurre a zero l’export petrolifero di questo paese. Una prima tranche di sanzioni sospese dal JCPOA nel 2015 rientreranno in vigore a inizio agosto ed esse riguarderanno il commercio di automobili e minerali, tra cui l’oro. Il secondo e più pesante pacchetto, quello relativo al petrolio e alle transazioni finanziarie, tornerà invece a farsi sentire per la Repubblica Islamica a partire dal 4 novembre prossimo.

 

Nella lettera indirizzata ai paesi europei questa settimana, il segretario di Stato, Mike Pompeo, e quello al Tesoro, Steven Mnuchin, hanno spiegato che il governo americano “non è in grado di fare alcuna eccezione [alle sanzioni]” tranne i casi in cui ciò sia richiesto dalla “nostra sicurezza nazionale”. La ragione di questa fermezza, hanno ricordato Pompeo e Mnuchin apparentemente senza ironia, è che il JCPOA “ha fallito nel garantire la sicurezza del popolo americano”.

 

L’accordo di Vienna era stato sottoscritto, oltre che dall’Iran e dagli Stati Uniti durante l’amministrazione Obama, da Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia e Cina. A parte gli USA, tutti i paesi e le Nazioni Unite hanno sempre certificato il pieno rispetto dei termini dell’intesa da parte della Repubblica Islamica.

 

Il ritiro annunciato da Trump a maggio è stato perciò una mossa che nulla ha a che fare con la questione del nucleare, ma è il segnale del ritorno da parte degli USA a una politica di confronto con Teheran, a causa dell’incrociarsi degli interessi economici e strategici americani con le ambizioni e le legittime attività iraniane in Medio Oriente.

 

In concomitanza con l’annuncio del ritiro dal JCPOA, la Casa Bianca aveva stilato un elenco delle iniziative che Teheran avrebbe dovuto intraprendere per evitare nuove sanzioni. In sostanza, esse imponevano all’Iran l’abbandono della propria indipendenza e la trasformazione in una semi-colonia degli Stati Uniti.

 

A tutti gli effetti, la riapplicazione delle sanzioni punitive, con l’intenzione di mettere in ginocchio il paese e fomentare un cambio di regime, non ha alcun fondamento logico né legale e l’atteggiamento americano è infatti condannato da praticamente tutta la comunità internazionale, ad eccezione di Israele.

 

L’Europa, da parte sua, continua ufficialmente ad adoperarsi per salvare il JCPOA e mettere al riparo dalle sanzioni USA le proprie compagnie che già fanno affari in Iran. In realtà, molte di queste ultime hanno già annunciato il ritiro dal paese mediorientale per non incorrere in sanzioni “secondarie” quando operano sul mercato americano. Gli stessi governi europei nutrono peraltro poche speranze sulla possibilità di continuare a sfruttare le opportunità economiche ed energetiche prospettate dall’accordo di Vienna.

 

Qualche spiraglio rimane comunque per possibili eccezioni mirate. Dopo una serie di messaggi contraddittori, il governo di Washington ha chiarito che alcuni paesi potrebbero essere temporaneamente esentati dalle sanzioni americane se l’azzeramento delle loro importazioni di greggio dall’Iran non potrà avvenire in tempi brevi. Questi stessi paesi dovranno però dimostrare di ridurre gradualmente e considerevolmente la quantità di petrolio acquistata da Teheran.

 

La precisazione e la relativa prudenza della Casa Bianca è da collegare in primo luogo al timore che l’eliminazione dal mercato internazionale del greggio esportato dall’Iran, pari a circa 2,2 milioni di barili al giorno, possa spingere ancora di più verso l’alto le quotazioni del greggio in una fase già segnata dal rallentamento della produzione in altri paesi, come Libia e Venezuela.

 

Per far fronte a questa minaccia, oltre alla possibile sospensione temporanea delle sanzioni, Washington sta valutando lo sblocco delle proprie riserve strategiche di petrolio per destinarle all’export e, parallelamente, spinge con gli alleati sauditi per convincerli ad aumentare il ritmo delle estrazioni.

 

Gli Stati Uniti temono inoltre probabilmente anche una rottura con paesi alleati, come Giappone e Corea del Sud, o con cui stanno cercando di costruire partnership strategiche, come l’India, i quali importano petrolio in maniera consistente dall’Iran e difficilmente potrebbero trovare una fonte di approvvigionamento alternativa in tempi brevi.

 

Detto questo, soprattutto i paesi asiatici, a cominciare proprio dall’India, hanno lasciato intendere di non volersi piegare ai diktat americani e di mantenere politiche energetiche indipendenti piuttosto che andare contro i propri interessi vitali per assecondare gli impulsi destabilizzanti provenienti da Washington.

 

Il ministero degli Esteri indiano ha ad esempio ospitato recentemente una delegazione del governo iraniano e, con un occhio anche all’Europa, al centro dell’incontro ci sono stati proprio gli sforzi per individuare i “meccanismi finanziari” necessari a evitare gli effetti delle sanzioni americane.

 

A Delhi arriveranno a breve anche i rappresentanti dell’amministrazione Trump per discutere delle sanzioni e proporre forniture energetiche alternative all’India. Coerentemente con il rallentamento imposto da qualche mese al processo di allineamento strategico agli Stati Uniti, tuttavia, il governo indiano dovrebbe alla fine conservare in buona parte i rapporti attuali con la Repubblica Islamica.

 

Le posizioni più dure da parte americana potrebbero così riguardare proprio l’Europa, a conferma della tendenza declinante dello stato dei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico, evidenziata anche dal recente summit NATO di Bruxelles. Qualche giorno fa, infatti, il governo francese aveva confermato il rifiuto da parte degli USA della richiesta di Parigi di concedere deroghe mirate dalle sanzioni alle aziende transalpine, tra le più attive in Iran dopo la firma dell’accordo di Vienna.

L’atteso e discusso faccia a faccia tra Donald Trump e Vladimir Putin a Helsinki si è risolto lunedì in un evento dai toni cordiali che ha prevedibilmente scatenato la durissima reazione degli oppositori interni del presidente americano. La parola “tradimento” è circolata ripetutamente e in maniera più o meno esplicita su media ufficiali e social networks, in riferimento al rifiuto da parte di Trump di accettare le conclusioni dell’intelligence sulle molto presunte interferenze russe nel sistema elettorale degli Stati Uniti.

 

Nella conferenza stampa seguita all’incontro a porte chiuse, prolungato sensibilmente rispetto alla durata inizialmente prevista, Trump affiancato da Putin ha mostrato di essere disposto ad accettare le rassicurazioni di quest’ultimo sulla vicenda del “Russiagate”. Questa presa di posizione, assieme all’annuncio della “fine della Guerra Fredda” tra le due potenze e la prospettiva di un possibile accordo su questioni cruciali come la crisi siriana, garantisce con ogni probabilità una nuova imminente escalation del conflitto intestino al governo americano.

 

La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è entrata nei giorni scorsi in una nuova e pericolosa fase che, in assenza di un accordo bilaterale difficile da prevedere, minaccia di sfociare in un’escalation di ritorsioni con conseguenze rovinose sull’economia e la stabilità internazionale. L’aggravamento dello scontro in atto è stato solo in lievissima parte mitigato a partire dalla giornata di mercoledì con un appello del ministero del Commercio cinese al governo americano per riaprire i negoziati, chiusi senza alcun risultato concreto lo scorso mese di giugno. Fonti interne alla Casa Bianca hanno a loro volta fatto sapere in forma ufficiosa che il presidente Trump sarebbe in teoria disponibile a tornare al tavolo delle trattative.


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