Dopo avere incassato quella che in molti hanno descritto come una rara vittoria parlamentare sulla Brexit, mercoledì il primo ministro britannico, Theresa May, è tornata a scontrarsi con una realtà decisamente più amara, quando si è vista ancora una volta chiudere ogni spiraglio significativo di trattativa da parte dei vertici europei sulla possibile rinegoziazione del trattato che dovrebbe regolare l’uscita di Londra dall’UE.

 

Il capo dei negoziatori dell’Unione, Michel Barnier, ha insistito sull’impossibilità di riaprire i negoziati con Downing Street, malgrado la premier May abbia apparentemente trovato per la prima volta un accordo con la sua maggioranza in Parlamento per stabilire le modalità della Brexit dal punto di vista di Londra. Per Barnier, il testo dell’accordo già sottoscritto con il governo resta l’unico sul tavolo e le “istituzioni europee” concordano sulla sostanziale impossibilità di fare concessioni che spianino la strada a un via libera della Camera dei Comuni.

Dopo oltre 17 anni di guerra, lunedì gli Stati Uniti hanno per la prima volta ammesso il raggiungimento di una bozza d’accordo con i Talebani per reintegrare il movimento fondamentalista islamico nelle strutture di governo dell’Afghanistan in parallelo al ritiro delle forze di occupazione americane dal paese centro-asiatico.

 

I dettagli dell’intesa devono essere ancora negoziati e, visti anche i precedenti, è del tutto possibile che i colloqui di pace finiscano nel nulla. La sola notizia proveniente da Kabul, tuttavia, rappresenta una clamorosa ammissione di sconfitta da parte di Washington, assieme alla conferma delle nuove priorità strategiche degli Stati Uniti, spostate dalla “guerra al terrore” e orientate sempre più verso il confronto con potenze rivali come Russia e Cina.

La fine dello “shutdown” e la riapertura degli uffici governativi nel fine settimana ha probabilmente solo rinviato una possibile escalation dello scontro politico negli Stati Uniti tra il presidente Trump e i suoi oppositori del Partito Democratico. Anche se la Casa Bianca ha alla fine deciso di cedere sullo sblocco temporaneo dei fondi destinati al bilancio federale, la costruzione del muro al confine con il Messico e la stretta sulle politiche migratorie rimangono nodi irrisolti che lo stesso Trump potrebbe anche decidere di affrontare con un colpo di mano anti-democratico al termine della tregua appena sottoscritta a Washington.

Sul Venezuela, l’inganno mediatico si fa epidemico. Bugie, mistificazioni,omissioni e verità offuscate con l’aggiunta di censura vera e propria sulle notizie che hanno direttamente a che vedere con la situazione interna ed internazionale. Lasciamo da parte per un momento l’attribuzione di aggettivi quali “dittatura”, “regime” distribuiti a man bassa nei confronti del governo legittimo di Maduro, occultando che il chavismo dal 1998 ad oggi tra elezioni e referendum revocatori ha chiamato alle urne il Venezuela per 21 volte, perdendone tre e vincendone 18. Strana dittatura no? Da qui si parte per denunciare la manipolazione costante, continuata ed uniforme, che i nostri pennivendoli con l’elmetto utilizzano quotidianamente.

A pochi giorni da un vertice cruciale per gli esiti della guerra commerciale in atto tra Cina e Stati Uniti, entrambi i paesi hanno provato a inviare qualche segnale distensivo che dovrebbe fare intravedere un possibile accordo in grado di evitare l’escalation dello scontro. Le divergenze restano però considerevoli e, nel concreto, sono in pochi a vedere progressi significativi sulle questioni “strutturali” che Washington intende continuare a sollevare con la leadership di Pechino.


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