Gli sviluppi più recenti del caso “Russiagate”, oltre a intensificare la lotta intestina alla classe politica americana, stanno mostrando come le presunte interferenze di Mosca nel processo elettorale degli Stati Uniti, se anche hanno avuto luogo, non sono state certo le più invadenti né le più pericolose per il sistema “democratico” d’oltreoceano. Un ruolo di gran lunga più importante lo ha svolto piuttosto l’apparato domestico di polizia e di intelligence, come ha chiarito la recente rivelazione sull’esistenza di una “talpa” introdotta dall’FBI nell’organizzazione della campagna elettorale di Donald Trump prima del voto del 2016.

 

Questa notizia ha scatenato le ire dello stesso presidente, come al solito pronto a sfruttare dal suo account Twitter qualsiasi occasione per scagliarsi contro l’indagine in corso nei suoi confronti, definendola, peraltro non senza ragioni, una “caccia alle streghe” in odore di maccartismo.

 

Domenica scorsa, Trump ha così chiesto al dipartimento di Giustizia di aprire un’indagine sull’FBI circa la correttezza del comportamento della polizia federale, motivato, a suo dire, da ragioni politiche e ordinato dall’allora amministrazione Obama per favorire la candidatura di Hillary Clinton.

 

La notizia dell’informatore dell’FBI infiltrato nello staff di Trump era stata data dal New York Times e i giornali ufficiali negli Stati Uniti, quanto meno quelli schierati contro la Casa Bianca, continuano a definire l’iniziativa come una normale procedura nel corso di un’indagine. L’utilizzo di informatori, anzi, non richiederebbe nemmeno il mandato o l’autorizzazione di un giudice.

 

In ogni caso, dopo la sfuriata di Trump, il dipartimento di Giustizia ha mostrato di voler accogliere l’invito a indagare eventuali “motivazioni politiche o improprie” nell’operato dell’FBI. Anche Rod Rosenstein, vice-ministro della Giustizia e diretto superiore del procuratore speciale Robert Mueller incaricato del “Russiagate”, nonostante in precedenza avesse messo in guardia da interferenze politiche nell’indagine, ha definito “inappropriata” l’eventuale infiltrazione di un informatore nella campagna elettorale di un candidato alla presidenza, per poi promettere azioni opportune se dovessero emergere particolari responsabilità.

 

La stampa USA ha invece optato per l’apertura di una nuova linea d’attacco contro la Casa Bianca, poiché le pressioni di Trump sul dipartimento di Giustizia sarebbero un altro tentativo illegittimo di far naufragare un’indagine che ha lo stesso presidente al centro dell’attenzione.

 

Il livello di isteria dei media “mainstream” è poi salito alle stelle lunedì, quando il presidente ha convocato una riunione alla Casa Bianca con rappresentanti del dipartimento di Giustizia e dell’apparato dell’intelligence per ribadire la sua richiesta. All’incontro hanno partecipato, tra gli altri, il già citato Rosenstein, il numero uno dell’FBI, Christopher Wray, e il direttore dell’Intelligence Nazionale, Dan Coats.

 

Trump ha inoltre insistito affinché il dipartimento di Giustizia metta a disposizione della commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti, e agli membri del Congresso che li hanno richiesti, tutti i documenti dell’FBI relativi allo stesso informatore e alle modalità con cui è stata condotta l’indagine del “Russiagate”. Su questa richiesta le polemiche negli USA sono in corso da tempo, visto che il dipartimento di Giustizia e l’FBI hanno sempre manifestato resistenze con la scusa di non volere rivelare informazioni sensibili che metterebbero a rischio i propri agenti e informatori.

 

Le richieste in questo senso della Casa Bianca e dei leader repubblicani sarebbero però ora state soddisfatte e il capo di gabinetto del presidente, John Kelly, dovrebbe a breve mediare tra gli alti funzionari della “sicurezza nazionale” e i membri del Congresso in vista della valutazione del materiale segreto relativo alle indagini. La svolta del dipartimento di Giustizia è comunque messa in dubbio da molti osservatori, i quali vedono in essa una tattica per prendere tempo o per smorzare le polemiche mostrando solo una parte dei documenti richiesti.

 

Se la condotta di Trump e i suoi scrupoli hanno poco o nulla a che fare con la democrazia e il diritto, è altrettanto vero che la vicenda del “Russiagate” sta evidenziando in maniera sempre più palese l’inconsistenza delle accuse di collusione tra il presidente e il suo staff e gli ambienti legati al Cremlino.

 

La questione centrale è invece il potere, il controllo e l’influenza dell’FBI e di altre agenzie governative, teoricamente dedite alla salvaguardia della “sicurezza nazionale”, sulla politica americana, con manovre che possono di fatto orientare un’elezione presidenziale. Infatti, il voto del novembre 2016 si era tenuto mentre l’FBI stava indagando su entrambi i candidati - Trump per le note accuse di collusione con la Russia e Hillary per l’utilizzo improprio di un server di posta privato nella corrispondenza ufficiale in veste di segretario di Stato - e in entrambi i procedimenti erano stati usati metodi profondamente antidemocratici.

 

Alla luce di quanto emerso in questi mesi, è poi innegabile che la maggior parte dei membri dell’apparato della sicurezza e dell’intelligence USA si sia adoperata per favorire l’elezione della Clinton, vista di gran lunga come il candidato più affidabile per gli interessi della classe dirigente USA, soprattutto nell’ambito della proiezione del potere di Washington all’estero. Coerentemente, proprio i politici democratici sono ora i più accesi accusatori di Trump e della Russia, mentre continuano a difendere strenuamente l’operato dell’FBI e dell’intelligence.

 

La stessa rivelazione della presenza di un informatore, e la sua identità, nell’organizzazione della campagna elettorale di Trump conferma gli interessi in gioco. Giornali come New York Times e Washington Post hanno a lungo taciuto il nome della “talpa” dell’FBI, ma altre pubblicazioni lo hanno da tempo identificato nel 73enne Stefan Halper. Quest’ultimo vanta una lunga carriera negli ambienti repubblicani di Washington. In particolare, Halper ha legami molto stretti, anche famigliari, con la CIA ed è stato protagonista in passato di manovre clandestine orchestrate dagli ambienti vicini a svariati presidenti, a cominciare da Richard Nixon.

 

Halper, ad ogni modo, su ordine dell’FBI nel 2016 avrebbe incontrato più volte vari membri dello staff di Trump, tra cui i consiglieri George Papadopoulos e Carter Page e il co-presidente della campagna elettorale del candidato repubblicano, Sam Clovis. Da costoro, Halper avrebbe presumibilmente dovuto ricavare informazioni sulla collaborazione illegale con il governo di Mosca per orientare gli elettori americani a favore di Donald Trump.

 

Secondo la versione ufficiale, l’indagine dell’FBI sulla campagna di Trump, che avrebbe poi previsto anche il ricorso al contributo di un infiltrato, sarebbe scaturita da una soffiata del diplomatico australiano Alexander Downer.

 

L’ex ministro degli Esteri e ora ambasciatore australiano in Gran Bretagna aveva allertato l’intelligence americana in seguito a un suo incontro in un bar di Londra con George Papadopouls, il quale aveva rivelato di essere in possesso di informazioni ottenute da Mosca che avrebbero potuto risultare dannose per la candidatura alla presidenza di Hillary Clinton.

 

La ricostruzione, oltre ad apparire di per sé esile, aveva inizialmente tralasciato di rivelare un aspetto determinante della figura di Downer, cioè i suoi legami con il clan Clinton. Sempre nel 2016, il diplomatico australiano aveva infatti svolto un ruolo cruciale nello stanziamento di ben 25 milioni di dollari da parte del suo governo a favore della Fondazione Clinton.

 

Questo e altri elementi rendono plausibile la tesi dell’operazione di natura tutta politica nel caso delle collusioni con Mosca. Un caso inaugurato nel 2016 per impedire l’elezione di Trump e proseguito dopo il voto per conservare un’arma utile, in caso di bisogno, ad affondare una presidenza considerata dannosa non tanto per la democrazia quanto per gli interessi strategici del cosiddetto “deep state” americano.

 

Quali che siano i prossimi sviluppi del “Russiagate”, appare dunque sempre più evidente che a influire sull’integrità della “democrazia” americana siano stati in primo luogo gli intrecci tra la politica e l’establishment della sicurezza nazionale, le cui attività clandestine hanno avuto un peso e una gravità ben maggiori di qualsiasi presunta “interferenza” progettata e messa in atto dal governo di Vladimir Putin.

“Non vogliamo dare il controllo del calendario legislativo alla minoranza”. Con queste parole, Paul Ryan, cercava di dissuadere un gruppetto di parlamentari repubblicani di raccogliere abbastanza firme per una petizione che sottometterebbe automaticamente al voto alcuni disegni di legge sull'immigrazione. Si tratta di una procedura chiamata “discharge petition” che richiede 218 firme le quali verrebbero da 193 parlamentari democratici e 25 repubblicani. Fino al momento mancano 6 firme repubblicane per raggiungere il traguardo. Per Ryan sarebbe una sconfitta, perché gli toglierebbe il controllo del calendario legislativo che gli spetta come speaker.

La guerra commerciale in corso tra Stati Uniti e Cina è sembrata raffreddarsi in questi giorni dopo che esponenti del governo americano hanno annunciato qualche progresso nei colloqui bilaterali in corso. Il secondo incontro in poche settimane tra i rappresentanti di Washington e Pechino ha in realtà lasciato aperte tutte le questioni cruciali sulla questione, mentre le modeste aperture ostentate dal presidente Trump hanno suscitato una valanga di critiche dai suoi oppositori per la presunta arrendevolezza mostrata nei confronti di un rivale strategico.

Il tentativo dei governi europei di evitare le conseguenze della reimposizione delle sanzioni americane contro l’Iran e di conservare i rapporti economico-commerciali con questo paese si è subito scontrato nei giorni scorsi con una realtà decisamente complicata. Le iniziative ipotizzate nel corso di un vertice a Bruxelles tra i membri europei e il capo della diplomazia iraniana sono apparse applicabili ed efficaci solo in teoria.

 

Concretamente, la recente decisione dell’amministrazione Trump di lasciare l’accordo sul nucleare di Vienna (JCPOA) minaccia di creare un delicatissimo dilemma per le compagnie europee attive nella Repubblica Islamica. Ben poche delle quali saranno infatti disposte a rischiare misure punitive americane per preservare le opportunità relativamente limitate offerte dal mercato iraniano.

 

Il problema per l’Europa deriva dalle cosiddette “sanzioni secondarie” implementate dagli Stati Uniti, cioè quelle che finiscono di riflesso per escludere dal mercato o dal sistema finanziario americano quelle aziende che continueranno a fare affari con l’Iran.

 

L’intenzione di Washington di utilizzare senza alcuno scrupolo tutto il proprio peso per mettere all’angolo l’Iran e imporre i propri interessi anche ai paesi alleati è risultata evidente dalle dichiarazioni del neo-consigliere per la sicurezza nazionale del presidente, il super-falco John Bolton.

 

L’ex ambasciatore USA alle Nazioni Unite ha affermato recentemente che “non sarà permesso nessun nuovo contratto” commerciale con l’Iran e le compagnie europee avranno tra i 90 e i 180 giorni per abbandonare contratti e affari che le vedono coinvolte, relativamente ai settori gravati dalle sanzioni, come quelli energetico, della componentistica industriale o dei trasporti.

 

Il timore dell’Europa non è da collegare soltanto alla prospettiva di perdere occasioni economiche, comunque di un certo rilievo come conferma la crescita degli scambi commerciali con l’Iran fino a circa 25 miliardi di euro nel 2017. I governi europei sono ben consapevoli che la logica conseguenza delle azioni americane è l’esplosione di una guerra rovinosa con l’Iran. Un conflitto che supererebbe per intensità anche le catastrofi di Iraq e Siria, con il risultato, per l’Europa, di assistere a una nuova ondata di profughi, così come di provocare gravi destabilizzazioni in Medio Oriente e, quanto meno, un’impennata del prezzo del petrolio.

 

Ufficialmente, l’intenzione di Bruxelles sarebbe così quella di adottare provvedimenti che, come hanno sostenuto questa settimana la numero uno della diplomazia UE, Federica Mogherini, e il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, proteggano le compagnie europee che fanno affari in Iran, salvaguardino le attuali importazioni di greggio e garantiscano le relative transazioni bancarie.

 

Di tutto questo si è parlato martedì a Bruxelles e se ne discuterà ulteriormente nei prossimi incontri tra i rappresentati dell’Europa e quelli iraniani. Il governo di Teheran, tuttavia, chiede che la continua implementazione dell’accordo sul nucleare e il mantenimento delle relazioni commerciali siano garantite legalmente e, a questo proposito, l’UE dovrà fornire una soluzione adeguata nelle prossime settimane.

 

Proprio su garanzie di questo genere rischia di arenarsi il dialogo tra Teheran e Bruxelles. La stessa Mogherini ha ammesso apertamente che, almeno a questo punto dei colloqui, non esistono strade percorribili. Dietro all’ostentazione della fermezza nel mantenere gli impegni di Vienna con l’Iran, c’è d’altra parte la consapevolezza della sostanziale impotenza europea nel contrastare Washington sul piano economico e finanziario.

 

I rapporti dell’Europa con gli USA in questi ambiti sono nettamente superiori rispetto a quelli stabiliti con la Repubblica Islamica a partire dal 2015 e le stesse compagnie che negli ultimi anni hanno stipulato contratti con questo paese stanno già con ogni probabilità valutando l’ipotesi di una qualche marcia indietro.

 

Le soluzioni legali per proteggere il business con l’Iran sarebbero in teoria a disposizione, come il provvedimento che nel 1996 fu adottato per evitare gli effetti delle sanzioni USA contro Cuba o quello che prevede la possibilità di recuperare i costi sostenuti a causa delle misure punitive americane attraverso l’imposizione di dazi sulle importazioni dagli Stati Uniti. Altre ipotesi sono state avanzate in questi giorni anche per quanto riguarda le questioni finanziarie e bancarie, inclusa la possibilità di pagare il petrolio iraniano in euro invece che in dollari.

 

L’improbabilità di queste e altre iniziative dipende dal fatto che tutte comporterebbero uno scontro frontale con gli Stati Uniti sul piano economico e commerciale, in un frangente già caratterizzato dall’aggravamento delle tensioni transatlantiche a causa delle inclinazioni protezionistiche dell’amministrazione Trump. Visti soprattutto gli interessi economici legati agli USA delle grandi compagnie europee, è perciò inverosimile che i governi europei o i vertici dell’Unione si assumano la responsabilità politica di agire in questa direzione.

 

Le posizioni europee sembrano piuttosto un tentativo di fare pressioni su Washington, o quanto meno su sezioni più moderate della classe dirigente americana, per indurre la Casa Bianca ad ammorbidire la propria linea e accettare almeno un tentativo di rinegoziare alcune questioni con Teheran, come quella dei missili balistici o delle presunte attività “destabilizzanti” iraniane in Medio Oriente.

 

Gli Stati Uniti sono però decisi a proseguire con gli attacchi frontali contro la Repubblica Islamica, con l’obiettivo finale di forzare in un modo o nell’altro il cambio di regime e togliere di mezzo il principale ostacolo al consolidamento del controllo americano sul Medio Oriente, anche a spese degli alleati europei.

 

Un messaggio molto chiaro in questo senso è giunto da Washington alla vigilia del vertice di Bruxelles di martedì, quando il dipartimento del Tesoro ha annunciato nuove sanzioni contro il governatore della banca centrale iraniana e uno dei suoi vice per avere fornito “supporto” ai Guardiani della Rivoluzione e a Hezbollah.

 

Qualunque sia alla fine l’esito della disputa sulla sopravvivenza dell’accordo sul nucleare iraniano, appare inevitabile un ulteriore inasprimento delle divisioni tra Stati Uniti ed Europa. Lo scontro in atto sul divergere degli interessi dei due alleati in Iran è soltanto uno dei fronti su cui si sta evolvendo il confronto, già infiammato, tra l’altro, dalla questione dei dazi o della risposta al cambiamento climatico.

 

Per quanto le posizioni europee implichino nel caso iraniano un allentamento delle tensioni in Medio Oriente, esse si basano su calcoli puramente strategici e di convenienza economica esattamente come quelle di Washington. Inoltre, come dimostrano chiare tendenze in atto ad esempio in Germania e in Francia, l’escalation di tensioni con gli Stati Uniti si sta già traducendo in un impulso sempre più evidente alla militarizzazione anche da questa parte dell’Oceano Atlantico.

Dopo il sorprendente successo nelle elezioni di sabato scorso in Iraq, il leader politico e religioso sciita Moqtada al-Sadr, ha iniziato in questi giorni le trattative con gli altri principali partiti per la possibile formazione del nuovo governo del paese mediorientale. Grazie a un programma populista e nazionalista che ha sfruttato abilmente l’ostilità degli iracheni per la classe politica indigena, Sadr e la sua variegata coalizione hanno ottenuto la maggioranza relativa dei seggi in palio, creando non pochi grattacapi alle potenze con la maggiore influenza sulle dinamiche politiche di Baghdad, ovvero l’Iran e gli Stati Uniti.


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