Se ci fosse stato bisogno di ricordare qual è la forza di cui dispone, il consenso popolare di cui gode e la capacità di mobilitazione che caratterizza il Frente Sandinista, ieri Managua ha offerto un risposta chiara, impossibile da non vedere. Una marea umana, animata dal sostegno alla battaglia del Presidente Ortega per il dialogo, orientata alla preservazione della pace, ha risposto alle provocazioni di una destra che ha inteso rialzare la testa interpretando il canovaccio degli Stati Uniti per la loro strategia di “golpe soave”.

La scrupolosa preparazione del summit di venerdì tra il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, e il leader della Corea del Nord, Kim Jong-un, ha finito per produrre un evento “storico” che, almeno in apparenza, si è risolto in un successo pressoché completo. Nel corso del summit lungo il confine tra le due Coree sono stati raggiunti una serie di accordi che dovrebbero gettare le basi per la risoluzione dei punti più critici nelle relazioni tra Seoul e Pyongyang, anche se, in realtà, le possibilità concrete di uno sblocco della crisi dipenderanno dall’esito delle imminenti trattative tra Corea del Nord e Stati Uniti.

Essendo l’Armenia tradizionalmente in buoni rapporti con Mosca, nonché situata in una posizione strategica sensibile, l’ondata di proteste che sta attraversando in questi giorni il paese caucasico ha subito sollevato forti dubbi sul possibile ruolo dell’Occidente e, in particolare, degli Stati Uniti nel movimento già battezzato da uno dei leader dell’opposizione come “rivoluzione di velluto”.

 

Il riferimento di Nikol Pashinyan, numero uno del partito del Contratto Civile e attivissimo protagonista delle proteste in corso, è alle cosiddette “rivoluzioni colorate” che da oltre un decennio vengono innescate da organizzazioni finanziate dall’Occidente per rovesciare regimi o governi ostili sfruttando manifestazioni di protesta, quasi sempre più che legittime ancorché relativamente circoscritte.

Il prezzo del petrolio continua a correre e nei prossimi mesi potrebbe arrivare un nuovo allungo. La settimana scorsa le quotazioni hanno toccato il livello più alto degli ultimi quattro anni, con il Wti americano intorno ai 70 dollari al barile e il Brent europeo vicino a quota 75. Ma gli analisti sono sicuri: non è finita. Per diverse ragioni.

 

Innanzitutto, la svolta nella politica dei prezzi da parte dell’Arabia Saudita. Secondo fonti Opec citate dall’agenzia Reuters, il principale Paese esportatore di greggio punta a far salire il prezzo del petrolio prima a 80 e poi anche oltre i 100 dollari al barile. Uno scenario che non dispiace affatto alla Russia e per il quale sta lavorando involontariamente anche il Venezuela, dove la situazione politica precipita insieme alla produzione di greggio.

La visita di stato di questa settimana a Washington del presidente francese, Emmanuel Macron, è stata apparentemente caratterizzata da un’atmosfera cordiale e da un’accoglienza con tutti gli onori del caso da parte di Donald Trump. Il vertice tra i due leader, in attesa dell’arrivo negli Stati Uniti della cancelliera tedesca Merkel, è stato attraversato però dalle crescenti tensioni transatlantiche, soprattutto in vista dell’imminente decisione americana sulla sorte dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA).


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