Nella Silicon Valley non capita spesso di vedere i lavoratori protestare. In casa Google, però, è successo due volte negli ultimi quattro mesi. L’ultimo episodio risale alla settimana scorsa, quando 1.400 dipendenti di Big G hanno firmato una lettera per chiedere alla dirigenza più chiarezza sul progetto Dragonfly (“libellula”).

 

Si tratta del piano segreto - rivelato a inizio mese dal giornale online The Intercept - con cui Google punta a rientrare nel mercato cinese. In sostanza, per ottenere il via libera di Pechino, il management di Mountain View ha deciso di piegarsi alla censura, progettando un motore di ricerca capace di oscurare i contenuti sgraditi al regime.

 

Nella lettera, pubblicata in esclusiva dal New York Times, i dipendenti del colosso informatico chiedono una maggiore trasparenza sulle "conseguenze etiche" del business. Al momento, infatti, la maggior parte dei lavoratori del gruppo non ha accesso ai documenti relativi al progetto Dragonfly: “C’è un silenzio radio totale che rende la gente scontenta e spaventata”, racconta un dipendente.

Un nuovo livello dell’offensiva terrorista contro il Venezuela si è palesato durante una manifestazione per l’anniversario della fondazione della Guardia Nazionale, quando sette cariche esplosive destinate a colpire il palco delle autorità e ad uccidere il Presidente Nicolas Maduro non hanno raggiunto il bersaglio solo grazie all’abilità dei franchi tiratori, che hanno abbattuto i droni che trasportavano gli ordigni prima che potessero giungere sull’obiettivo. L’attentato contro il Presidente Maduro è così fallito, ma ha lasciato sul campo sette feriti tra i membri della Guardia Nazionale.

 

Immediata la solidarietà e i messaggi di sostegno al Presidente del Venezuela da parte di Cuba, Nicaragua e Bolivia, mentre l'Unione Europea si distingue ancora una volta per ossequiare senza dignità la volontà statunitense, anche quando si esprime con il terrorismo.

 

L’attentato a Maduro è espressione diretta e concreta della linea politica statunitense verso il Venezuela. Si va dal Presidente Trump che propone l’invasione al suo vice nazista con il sottofondo del coro di Miami di cui fanno parte gli arnesi peggiori del terrorismo latinoamericano travestiti da congressisti, senatori e business man, fino al vicepresidente Mike Pence, che preferisce l’escalation del terrore e del blocco economico sperando che conduca all’implosione il paese di Bolivar e Chavez. Le linee d’azione della Casa Bianca sono chiare. E l’assassinio del presidente Maduro è proprio una delle opzioni previste per riportare il Venezuela nelle mani statunitensi.

 

Alcuni particolari della politica estera sempre più aggressiva e destabilizzante della monarchia saudita e degli Emirati Arabi sono emersi in questi giorni dopo la pubblicazione di un clamoroso retroscena della disputa, tuttora in corso, tra questi regimi e l’emirato del Qatar.

 

La testata on-line americana The Intercept ha rivelato che, nell’estate dello scorso anno, l’Arabia Saudita era pronta a invadere militarmente il piccolo paese del Golfo Persico in seguito al rifiuto da parte di quest’ultimo di accettare i diktat di Riyadh riguardo i propri orientamenti strategici.

 

A impedire l’operazione e a far saltare i piani già predisposti dai leader sauditi sarebbe stata l’azione dell’allora segretario di Stato americano, Rex Tillerson. Quest’ultimo era stato spinto a muoversi forse per gli stretti legami che, da amministratore delegato di ExxonMobil, vantava con il governo del Qatar. Più probabilmente, Tillerson era preoccupato per la possibile escalation di un conflitto tra alleati che rappresentava anche per Washington una pericolosa distrazione dalle altre crisi mediorientali.

Secondo i politici e i media ufficiali americani, quella degli Stati Uniti sarebbe una società armonica e priva di conflitti significativi, dove le norme democratiche hanno raggiunto il livello più elevato possibile di sviluppo.

 

A creare tensioni e disordine sono le “interferenze” di paesi nemici, a cominciare dalla Russia, che, principalmente sui social media come Facebook, si insinuano in maniera insidiosa nel dibattito politico, seminando discordia e divisioni o, durante le campagne elettorali, favorendo determinati candidati rispetto a quelli meno graditi.

 

Questa è in sostanza una delle tesi che spiegano lo scandalo del “Russiagate” e, nonostante le prove delle responsabilità del governo di Mosca continuino a essere praticamente inesistenti, in vista delle elezioni di “metà mandato” del prossimo novembre è già stata lanciata una nuova caccia alle streghe.

 

Per la gioia del Congresso di Washington, martedì i vertici di Facebook hanno fatto sapere di aver scovato una manciata di finti account sulla propria piattaforma, pronti e, anzi, già intenti a “influenzare”elettori ingenui con la promozione di argomenti di discussione “controversi” e potenzialmente in grado di creare divisioni sociali.

 

Facebook ha spiegato di non avere nemmeno un indizio sulla colpevolezza della Russia, ma gli account incriminati avrebbero utilizzato tecniche d’azione molto simili a quelle attribuite alla Internet Research Agency, l’organizzazione russa che avrebbe appunto agito sui social media a favore di Donald Trump e contro Hillary Clinton prima delle presidenziali del 2016. Questo accostamento è bastato a tutto il panorama politico e mediatico “mainstream” americano per gridare a un nuovo complotto russo contro la democrazia a stelle e strisce.

 

Le operazioni attribuite due anni fa ai servizi di sicurezza russi, se anche fossero realmente avvenute, erano in realtà estremamente limitate e condotte con budget quasi nemmeno rilevabili rispetto alla quantità di denaro raccolta e spesa dai due principali partiti americani e dai loro sostenitori durante le rispettive campagne elettorali.

 

Anche in questo caso, prendendo per buone accuse senza fondamento, le reazioni all’annuncio della compagnia di Mark Zuckerberg sono spiegabili solo se si considerano le motivazioni tutte politiche di coloro che puntano il dito contro Mosca. Della pericolosissima nuova campagna diretta contro la democrazia americana se ne erano fatti carico la miseria di 8 pagine Facebook e 17 profili tra Instagram e lo stesso Facebook.

 

Gli account, ora tutti cancellati, erano stati creati tra il marzo 2017 e lo stesso mese di quest’anno. Almeno uno di essi era seguito da poco meno di 300 mila utenti e aveva creato una trentina di “eventi” a cui si erano interessati 4.700 iscritti. Tra aprile 2017 e giugno 2018, tutti gli account avevano acquistato inserzioni spendendo complessivamente 11 mila dollari, vale a dire nemmeno 350 dollari ciascuno.

 

Le somme in ballo risultano ancora una volta molto modeste, soprattutto se l’intenzione è quella di influenzare il voto di milioni di elettori. Un aspetto a cui non ha fatto ovviamente riferimento il comunicato di Facebook, ma che svariati commentatori indipendenti avevano rilevato nel recente passato per i casi precedenti, è che simili account presumibilmente finti presentavano caratteristiche tali da far pensare a operazioni commerciali, cercando di veicolare traffico internet su determinati siti grazie alla popolarità di alcune questioni politiche o sociali discusse sui media americani.

 

Nell’ultima circostanza denunciata da Facebook, i “troll” russi avrebbero sfruttato argomenti riferibili a campagne sia di destra sia di sinistra. Nel primo caso, il New York Times ha portato l’esempio di un appello per una nuova manifestazione neo-fascista, dopo quella che in Virginia aveva provocato la morte di un’attivista progressista nell’agosto del 2017. Nel secondo, invece, la campagna per l’abolizione dell’agenzia federale addetta al controllo delle frontiere (ICE), responsabile di abusi nei confronti dei migranti.

 

Le accuse rivolte ai finti account sui social network prima delle elezioni del 2016 avevano riguardato, tra l’altro, violenze e omicidi commessi da agenti di polizia in tutti gli Stati Uniti contro persone disarmate o inoffensive. Come si può facilmente comprendere, insomma, le questioni su cui si concentravano e sembrano tuttora concentrarsi i responsabili delle “interferenze”, così da “dividere” gli elettori americani e inasprire il dibattito politico, non sono argomenti astratti proposti da hacker al servizio dell’intelligence russa, bensì problemi reali che provocano essi stessi divisioni e malessere sociale.

 

La notizia data martedì da Facebook è comunque da collegare a due dinamiche. La prima riguarda le polemiche a cui il social network è stato sottoposto nell’ambito del “Russiagate”, in quanto non sufficientemente incisivo nell’impedire le attività comandate dal Cremlino.

 

I membri del Congresso americano erano stati a questo proposito tra i più duri con Zuckerberg e, in parallelo, si erano scatenate fortissime pressioni sulla sua compagnia, saldatesi alle critiche per la pessima gestione dei dati personali degli utenti di Facebook. Per quest’ultima ragione, poco prima della denuncia della nuova operazione diretta a sabotare le elezioni di novembre, Facebook aveva patito un crollo sensibile in borsa, perdendo qualcosa come 120 miliardi di capitalizzazione.

 

L’altro aspetto da considerare è il ricorso sempre più spedito da parte di Facebook a strumenti di censura contro i propri utenti. Sull’onda delle critiche subite, Zuckerberg ha già rafforzato l’esercito di censori alle proprie dipendenze, ufficialmente per sradicare le “fake news”, ma in realtà per marginalizzare notizie e opinioni in contrasto con i media “mainstream” e, in definitiva, con le posizioni degli stessi governi.

 

In questo senso, è ormai evidente, per Facebook come per gli altri giganti internet e delle comunicazioni elettroniche, il processo di integrazione con l’apparato dell’intelligence e della sicurezza nazionale americana. Sempre martedì, infatti, i vertici di Facebook hanno rivelato la collaborazione in atto con l’FBI e altre agenzie governative per combattere le “interferenze” nella campagna elettorale che porterà al voto per il Congresso del prossimo 6 novembre.

Con le numerose questioni internazionali cha stanno occupando l’agenda dell’amministrazione Trump, gli ultimi sviluppi del conflitto in Afghanistan hanno generato poco interesse tra i media e l’opinione pubblica. Dopo quasi 17 anni di guerra, una possibile svolta decisiva potrebbe tuttavia essere in preparazione a Washington, come sembrano dimostrare i recenti contatti diretti avvenuti tra il governo americano e i rappresentanti dei talebani.

 

Le due parti non si parlavano senza intermediari dal 2015, quando un potenziale processo di pace si era arenato in fretta per poi crollare definitivamente. Ufficialmente, in quell’occasione erano stati esponenti del governo afgano a incontrare i talebani, mentre gli Stati Uniti, assieme alla Cina, avevano avuto il ruolo di osservatori.


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