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Il durissimo scontro in atto negli Stati Uniti tra il Partito Democratico e il presidente Trump sta sfociando in una vera e propria crisi costituzionale dopo che la Casa Bianca e la Camera dei Rappresentanti del Congresso di Washington sono arrivati ai ferri corti su una serie di questioni scaturite dall’epilogo del cosiddetto “Russiagate”. La posta si è alzata notevolmente questa settimana con un voto straordinario della maggioranza democratica che ha accusato di oltraggio al Congresso il ministro della Giustizia USA (“Attorney General”), William Barr.
Quest’ultimo si è infatti rifiutato di fornire al Congresso una copia non censurata del rapporto preparato dal procuratore speciale, Robert Mueller, sulle presunte collusioni di Trump e del suo entourage con il governo russo per vincere le elezioni del 2016. Alla chiusura delle indagini, Barr aveva presentato una sintesi dell’indagine e messo a disposizione una copia censurata del rapporto di quasi 450 pagine, con la speranza di chiudere la caccia alle streghe che ha accompagnato l’amministrazione Trump fin dal suo insediamento.
Mueller concludeva che né Trump né membri del suo staff avevano in qualche modo collaborato con il Cremlino, ma il rapporto, al contrario di quanto sostenuto dal dipartimento di Giustizia, indicava varie circostanze che avrebbero potuto portare a un’accusa di “ostacolo alla giustizia” contro lo stesso presidente. In modo illegittimo, Trump si sarebbe cioè adoperato più volte per fermare l’indagine di Mueller. Proprio su questo aspetto i democratici al Congresso intendono fare chiarezza, attraverso la lettura integrale del rapporto sul “Russiagate” e la testimonianza di esponenti presenti o passati dell’amministrazione Trump.
L’inasprirsi della disputa a Washington è coincisa mercoledì con la conferma che Trump intende fare ricorso al cosiddetto “privilegio esecutivo” nell’opporsi alle richieste della Camera. Questo potere riconosce al presidente americano la possibilità di negare documenti e testimonianze ordinate dal Congresso, facendo appello alla necessità di tenere segrete determinate informazioni che competono alle funzioni dell’esecutivo. Trump ha usato appunto questa facoltà presidenziale per impedire al ministro della Giustizia Barr di consegnare una copia non censurata del rapporto Mueller al Congresso, ma anche per negare l’apparizione di fronte alla Camera dei Rappresentanti dell’ex consigliere legale della Casa Bianca, Donald McGahn, considerato un testimone chiave nell’indagine sul “Russiagate”.
Se l’accusa formale di oltraggio al Congresso contro un membro del gabinetto americano è estremamente rara, più frequente è invece l’utilizzo del “privilegio esecutivo”, anche se Trump lo ha inaugurato soltanto questa settimana. Quasi sempre, tuttavia, questa rivendicazione di segretezza si applica nel caso di richieste di informazioni che riguardano comunicazioni interne alla Casa Bianca o di documenti relativi alla sicurezza nazionale. Il caso attuale riguarda al contrario fatti accaduti prima dell’elezione presidenziale del 2016 e, in genere, informazioni e testimonianze da tempo uscite dalla Casa Bianca, come la testimonianza di McGahn davanti al procuratore speciale Mueller. Soprattutto, poi, Trump intende applicare il “privilegio esecutivo” a tutto campo, escludendo anche la pubblicazione delle sue passate dichiarazioni dei redditi, frustrando virtualmente ogni richiesta del Congresso nel quadro delle indagini in corso.
Visto il muro contro muro tra la Casa Bianca e i democratici al Congresso, è probabile che solo i tribunali americani decideranno fino a che punto il presidente dovrà sottostare al controllo del potere legislativo. In tal caso, i tempi si prolungheranno di mesi se non di anni, neutralizzando in buona parte la minaccia legale e politica che grava sull’amministrazione Trump.
In attesa degli sviluppi della vicenda, la questione è già esplosa in una contesa sui poteri costituzionali dell’esecutivo e del Congresso. In particolare, è il potere di controllo e supervisione dell’organo legislativo americano a essere messo in discussione dalla Casa Bianca, da dove continua a essere negata qualsiasi collaborazione con un Congresso che intende attuare in pieno le proprie prerogative.
La delicatezza della situazione si percepisce anche dalle dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi da molti deputati democratici. Il presidente della Commissione Giustizia, Jerrold Nadler, e altri suoi colleghi hanno parlato, ad esempio, di “rischio dittatura” e di “crisi democratica” nel condannare il comportamento del presidente. I democratici sostengono di volere difendere l’autorità e l’indipendenza del Congresso, mentre Trump e i repubblicani accusano i rivali di abuso di potere e di creare una crisi istituzionale per ragioni politiche.
La condotta di Trump è senza alcun dubbio un altro chiaro sintomo della deriva autoritaria della sua amministrazione. La tendenza a ignorare o a riconoscere i poteri di controllo del Congresso sul suo ufficio fa parte di una strategia deliberata e si somma ad altri provvedimenti illegali e anti-costituzionali presi negli ultimi due anni dalla Casa Bianca. Tra di essi spicca il dirottamento di fondi federali già approvati per un determinato scopo verso la costruzione del muro di confine col Messico, con una palese violazione del diritto costituzionale del Congresso ad autorizzarne la destinazione.
D’altro canto, è però altrettanto evidente la natura disonesta e ipocrita del Partito Democratico nello scatenare il putiferio sull’attacco in corso ai principi della Costituzione americana. In primo luogo, la campagna contro Trump ha come obiettivo di fondo quello di tenere in vita un’accusa, come quella delle collusioni con Mosca, che ha risvolti profondamente anti-democratici.
La questione del “Russiagate” e dintorni serve infatti, da un lato, a promuovere una politica estera più aggressiva contro i rivali strategici di Washington nel mondo e, dall’altro, a orientare in senso reazionario l’opposizione popolare contro Trump. Per non parlare del giro di vite contro la libertà giornalistica e di espressione, sotto attacco con la giustificazione di contrastare le fantomatiche minacce di Russia e altri paesi nemici alla democrazia americana.
Gli allarmi teoricamente più che giustificati dei democratici circa la minaccia di Trump al sistema democratico americano non si traducono poi in quella che dovrebbe essere l’azione più coerente, vale a dire un procedimento di impeachment contro il presidente. Un processo, quest’ultimo, su cui talvolta si discute apertamente ma che viene accuratamente evitato per questioni di opportunità politica, da collegare in primo luogo all’incapacità di mobilitare la popolazione americana in una campagna autenticamente democratica di opposizione alle tendenze fascistoidi dell’amministrazione Trump.
Lo zelo costituzionale odierno dei democratici contrasta inoltre clamorosamente con la passività mostrata da questo stesso partito durante gli anni della presidenza Obama. Dal lancio di guerre di aggressione senza il mandato costituzionale del Congresso, come in Libia, agli assassini mirati extra-giudiziari anche contro cittadini americani, il predecessore di Trump aveva anch’egli agito ripetutamente al di fuori della legalità, sempre con la sostanziale approvazione della leadership democratica.
Proprio la continuità tra le ultime tre amministrazioni americane nell’erosione dei principi costituzionali porta a considerare la crisi in atto oggi a Washington non tanto come un’aberrazione personificata nella figura del presidente Trump, quanto un altro segnale dell’avanzato stato di decomposizione del quadro istituzionale democratico degli Stati Uniti che ha consentito per decenni l’espansione e la stabilizzazione del capitalismo americano.
Le forze centrifughe che stanno determinando la crisi del sistema, di cui la presidenza Trump e la sua deriva autoritaria sono il sintomo più eclatante, sulla spinta del “Russiagate” sembrano essere così sul punto di scardinare in maniera sempre più grave anche il principio dell’equilibrio dei poteri negli Stati Uniti. Una tendenza peraltro non nuova ma che risale agli albori della “guerra al terrore” dell’amministrazione Bush jr. e che ha come logica conseguenza il consolidamento di un ufficio presidenziale virtualmente senza limiti e svincolato da qualsiasi controllo o supervisione da parte dei poteri legislativo e giudiziario.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Il governo iraniano ha annunciato mercoledì l’attivazione di un meccanismo, previsto dall’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 (JCPOA), che permette alla Repubblica Islamica di sospendere l’implementazione di alcuni termini previsti dallo stesso trattato. Anche se l’accordo resta per il momento in piedi, la decisione di Teheran ne prefigura chiaramente la fine in tempi brevi. Le responsabilità del sempre più probabile fallimento dell’intesa non sono tuttavia da attribuire all’Iran, bensì all’amministrazione Trump, che ha lavorato fin dall’inizio per far naufragare il processo diplomatico, e in seconda battuta agli alleati europei di Washington, incapaci di opporre una seria resistenza alle manovre americane e di formulare una politica estera indipendente coerentemente con i propri interessi strategici.
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In un rapporto informativo del Dipartimento di Stato, il governo degli USA riconosce di aver adottato 150 misure coercitive unilaterali contro il Venezuela a partire dal 2017. Tali misure comprendono gli ordini esecutivi (Executive Orders) e le segnalazioni della lista dell'Ufficio di controllo dei beni stranieri (Office of Foreign Assets Control, OFAC) che cercano di inasprire la sofferenza economica e sociale della popolazione, come un'arma efficace per il cambiamento del regime.
Mirano alle istituzioni dello Stato responsabili delle finanze del paese, alle attività commerciali internazionali e, con particolare durezza, al punto gravitazionale dell'economia venezuelana: la PDVSA, la compagnia Petróleos de Venezuela. La legge 113-278 ha un impatto sulla relazione del Venezuela con la banca privata, i mercati del debito e altre istituzioni finanziarie internazionali. Stabilisce "sanzioni" alla Banca centrale del Venezuela, la massima autorità in materia monetaria dello Stato e a Petróleos de Venezuela S. A.
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- Scritto da Michele Paris
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A un passo da quello che avrebbe dovuto essere il momento chiave della trattativa tra Stati Uniti e Cina per mettere fine alla “guerra commerciale” in atto tra le due potenze, i nodi di un delicatissimo negoziato in corso da mesi sembrano essere venuti finalmente al pettine. Tutto è iniziato con una serie di “tweet” del presidente americano Trump tra domenica e lunedì, nei quali annunciava l’intenzione di procedere con l’innalzamento delle tariffe doganali sulle importazioni dalla Cina, come minacciato già lo scorso anno prima dell’inizio delle trattative con Pechino.
In seguito, il responsabile delle politiche commerciali USA, il falco anti-cinese Robert Lighthizer, ha confermato il probabile aumento dei dazi dal 10% al 25% su 200 miliardi di dollari di merci provenienti dalla Cina a partire dalla mezzanotte di venerdì prossimo. Per Trump, addirittura, la tariffa del 25% sulle importazioni dalla Cina potrebbe essere poi applicata anche ad altri 325 miliardi di beni, coprendo di fatto tutto l’export di Pechino diretto verso l’America.
Questa mossa della Casa Bianca è considerata da molti osservatori come una tattica per aumentare le pressioni sulla Cina e consentire a Trump di scansare le critiche provenienti dall’interno e dirette contro la sua amministrazione, accusata in maniera trasversale di essere sul punto di accettare un accordo debole con Pechino, senza affrontare concretamente i problemi “strutturali” del sistema economico e industriale cinese.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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L’ennesimo tentativo di golpe non riuscito dei giorni scorsi ha chiarito definitivamente sia in Venezuela che negli Stati Uniti che Juan Guaidò è il cavallo sbagliato per la corsa sbagliata. L’ultima figuraccia l’ha fatta poche ore orsono, quando ha convocato i venezuelani a recarsi fuori dalle caserme per chiedere il sostegno dei militari: nessuno ha seguito l’indicazione. Anzi, i suoi adepti si sono beccati la reazione gentile ma ferma dei militari. Figuraccia planetaria perché le tv erano corse con telecamere a documentare la rivolta e hanno dovuto registrare il fiasco.
Da presidente autonominato a fallimento nominato il passo è stato breve. Non è riuscito a far schierare i militari e gli altri settori strategici del paese contro il governo, con le sue boutade ha ridotto il seguito popolare verso l’opposizione ed ha acuito le divisioni tra i partiti che la compongono.
Guaidò non è stato ritenuto credibile in patria e all’estero non ha attirato consensi più di quelli direttamente procurati dagli USA. Persino la grande borghesia venezuelana, dai Cisneros in giù, non si è particolarmente ingaggiata nella battaglia per Guaidò, come ha rilevato lo stesso Vicepresidente USA, Mike Pence.