Di fronte a un movimento dei “gilet gialli” che non accenna a spegnersi, il governo francese del presidente, Emmanuel Macron, e del suo primo ministro, Édouard Philippe, sta sempre più ricorrendo a metodi repressivi attraverso la mobilitazione massiccia delle forze di sicurezza e la possibile approvazione di nuove leggi gravemente anti-democratiche.

 

Lo stesso premier ha minacciato in un’apparizione televisiva l’adozione di provvedimenti radicali per soffocare le manifestazioni che dallo scorso mese di novembre hanno scosso la Francia e si sono rapidamente trasformate in un’ondata di protesta contro le politiche neoliberiste dell’inquilino dell’Eliseo.

 

Nel mese di dicembre, un Macron sotto pressione aveva mostrato la disponibilità a fare qualche modesta concessione ai manifestanti, sospendendo in primo luogo la tassa sui carburanti all’origine della mobilitazione dei “gilet gialli”. In seguito, con il persistere delle dimostrazioni, il presidente e il governo sono tornati però a scegliere il pugno di ferro, di fatto inevitabile vista la volontà di continuare a ignorare le richieste espresse dalle proteste e di persistere nell’implementazione di un’agenda fatta di austerity e militarismo.

Il progetto del presidente Trump di ritirare i militari americani dalla Siria si era scontrato da subito con una forte opposizione interna alla stessa amministrazione repubblicana. I pareri contrari all’annuncio del 19 dicembre scorso erano emersi immediatamente e talvolta con forza, tanto che, ad esempio, il segretario alla Difesa, generale James Mattis, aveva abbandonato il proprio incarico di lì a poco in segno di protesta.

 

Le divisioni scaturite da quella decisione si sono poi aggravate e le pressioni sulla Casa Bianca aumentate, fino probabilmente ad avere un qualche effetto sullo stesso Trump. Le manovre dei contrari al disimpegno USA in Siria hanno dato così i loro frutti, tanto che il consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente, John Bolton, si è sentito certo di poter delineare nel fine settimana una revisione della strategia sull’impegno nel paese mediorientale in guerra, al punto da apparire potenzialmente contraria a quella decisa in precedenza dal suo diretto superiore.

Una presa di posizione insolita, illegittima e politicamente sfacciata da parte di un gruppo di paesi vassalli dell’impero. In buona sostanza è questo il modo più rapido per definire il pronunciamento dell’autodenominatosi “Gruppo di Lima” nei confronti del Venezuela bolivariano. Il Gruppo di Lima, per la sua stessa genesi, composizione e identità ideologica, può ben essere definito come la quinta colonna degli Stati Uniti nel subcontinente latinoamericano.

 

E’ nato con il preciso obiettivo di aggregare il blocco filo-statunitense latinoamericano per contrastare l’ALBA, ovvero l’Associazione Bolivariana delle Americhe nata agli inizi del secolo su iniziativa proprio del Comandante Hugo Chavez. In pratica, il Gruppo di Lima è oggi il consorzio dell’ultradestra governante nel centro-sud America che si caratterizza per l’obbedienza assoluta verso gli USA, dei quali condivide il progetto imperiale di riconquista dell’America Latina.

La chiusura parziale di uffici e agenzie governative negli Stati Uniti (“shutdown”) si avvia a completare la seconda settimana senza che all’orizzonte si intraveda ancora un possibile accordo tra Congresso e Casa Bianca sul bilancio federale e le politiche di lotta all’immigrazione.

 

Un vertice tra il presidente Trump e i leader democratici e repubblicani di Camera e Senato nella giornata di mercoledì non ha dato alcun risultato, mentre un nuovo incontro è previsto per venerdì, quando potrebbe risultare forse più chiara l’eventuale disponibilità dei due partiti a un compromesso in grado di superare l’ennesima impasse che sta interessando il mondo politico di Washington.

Con un discorso relativamente informale tenuto il primo giorno dell’anno, il leader nordcoreano Kim Jong-un ha riportato la trattativa sulla possibile denuclearizzazione del suo paese al centro del dibattito internazionale e, in particolare, di quello americano. Quasi tutti i giornali e i commentatori della stampa ufficiale hanno interpretato l’intervento come una minaccia sul negoziato in atto, da condurre cioè secondo le regole stabilite dal regime per non fare svanire nel nulla gli sforzi di questi mesi e innescare una nuova corsa agli armamenti nella penisola di Corea.


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