La freschissima crisi di governo in corso in Austria ha disintegrato un’alleanza di destra che, negli ultimi 17 mesi, aveva cercato di implementare un’agenda politica ed economica all’insegna dell’ultraliberismo e della xenofobia. A determinare la caduta dell’esecutivo del cancelliere, il 32enne leader del Partito Popolare Austriaco (ÖVP) Sebastian Kurz, non è stata però una rivolta contro la deriva reazionaria registrata a Vienna, bensì una manovra altamente sospetta che ha coinvolto in uno scandalo il numero due del governo, Heinz-Christian Strache del Partito della Libertà (FPÖ) di estrema destra.

 

Com’è noto, venerdì scorso due giornali tedeschi avevano pubblicato un video nel quale Strache si intratteneva con la presunta figlia di un miliardario russo e altri ospiti in una villa a Ibiza nel luglio del 2017, cioè alcuni mesi prima delle elezioni che avrebbero riportato il suo partito al governo. Sull’isola spagnola, Strache aveva discusso di possibili donazioni all’FPÖ in cambio di favori sotto forma di appalti pubblici.

Lo stato americano dell’Alabama ha approvato questa settimana in via definitiva una legge contro l’interruzione di gravidanza che è a tutti gli effetti la più estrema, retrograda e crudele mai adottata nella storia degli Stati Uniti. Il provvedimento rende illegale l’aborto senza eccezioni, tranne nei casi in cui si renda necessario per salvare la vita della madre. La legge si offre anche a una valanga di cause legali che, però, gli stessi promotori accoglieranno con favore per raggiungere l’obiettivo di vietare in tutto il paese una pratica tuttora garantita dalla Costituzione americana.

Col pericolo concreto di un’imminente provocazione americana preparata a tavolino per scatenare un’aggressione militare contro l’Iran, nei giorni scorsi è apparsa un’opportuna rivelazione che conferma come nel 2018 l’amministrazione Trump utilizzò una chiarissima “false flag” come giustificazione per bombardare il regime siriano. L’episodio si riferisce a quello che sulla stampa ufficiale di mezzo mondo era diventato noto come l’attacco chimico di Douma, un sobborgo di Damasco, avvenuto in data 7 aprile 2018.

Pericolosi venti di guerra continuano a soffiare insistentemente sull’Iran a causa delle macchinazioni e delle ripetute provocazioni messe in atto dall’amministrazione Trump. In contemporanea con l’improvvisa visita a Bruxelles del segretario di Stato USA, Mike Pompeo, gli alleati americani nel Golfo Persico hanno sondato il terreno per la creazione di un casus belli utile a una possibile aggressione contro la Repubblica Islamica. A Washington, invece, sembrano fervere i preparativi per una possibile nuova guerra rovinosa in Medio Oriente.

 

Martedì, il New York Times ha riportato la notizia di una riunione segreta, avvenuta settimana scorsa, durante la quale il segretario alla Difesa, Patrick Shanahan, avrebbe presentato un piano bellico che prevede il dispiegamento fino a 120 mila uomini da parte degli Stati Uniti in caso di scontro con l’Iran. Ufficialmente, questa opzione si riferirebbe a uno scenario nel quale Teheran dovesse attaccare gli interessi americani in Medio Oriente, anche se in realtà il piano non ha nulla di difensivo.

Le elezioni generali di settimana scorsa in Sudafrica hanno prevedibilmente confermato il dominio dell’African National Congress (ANC) nel quadro politico post-apartheid. I risultati definitivi hanno però disegnato ancora una volta uno scenario di profonda crisi, con l’ANC ai minimi storici e un’affluenza alle urne in netto calo, coerentemente col sentimento di disillusione e sfiducia che pervade la grande maggioranza degli elettori sudafricani.

 

Per la prima volta dal 1994, l’ANC non è stato in grado di superare la soglia del 60% delle preferenze. Il quasi 58% che ha ottenuto è assieme l’espressione del malcontento per la deriva del partito che fu di Nelson Mandela e la conferma dell’assenza di una reale alternativa politica per milioni di poveri sudafricani. Il principale partito dell’opposizione, l’Alleanza Democratica (DA) ha infatti dovuto fare i conti con tutti i propri limiti, nonostante il tentativo di reinventarsi come movimento trasversale in grado di intercettare il voto della maggioranza di colore.

 

Tradizionalmente il partito delle élites bianche con una base di consenso nella provincia occidentale del Capo, negli ultimi anni l’Alleanza Democratica sudafricana aveva avuto un qualche successo tra la borghesia nera frustrata dall’ANC. Nelle elezioni locali del 2016 era riuscito a conquistare il controllo della principale città del paese, Johannesburg, e della capitale, Pretoria, ma la scorsa settimana ha fatto segnare una leggera flessione rispetto alla più recente consultazione.

 

Alla fine, oltre alla maggioranza assoluta nel parlamento nazionale, l’ANC si è assicurato otto delle nove province in cui è suddiviso il Sudafrica, lasciando appunto solo quella del Capo Occidentale all’Alleanza Democratica. L’erosione di consensi per il partito di potere ha beneficiato invece i cosiddetti Economic Freedom Fighters (EFF) dell’ex leader dell’ala giovanile dell’ANC, Julius Malema.

 

Questo partito propone una retorica di sinistra con accenti nazionalisti, evidenti nella campagna per la “espropriazione senza risarcimento” delle terre in mano ai bianchi, ma, ad esempio, aveva stipulato un’alleanza elettorale senza successo con la DA di centro-destra nella provincia più ricca del paese, quella nord-orientale di Gauteng. Gli Economic Freedom Fighters hanno migliorato la loro performance di oltre 4 punti percentuali rispetto al 2014, attestandosi attorno all’11%, senza però riuscire ad affermarsi come ago della bilancia del panorama politico sudafricano.

 

Secondo la gran parte dei commentatori, il voto di mercoledì scorso era una sorta di referendum sul presidente, Cyril Ramaphosa, e la sua stentata campagna per rilanciare l’economia del Sudafrica e per restituire credibilità a un’ANC screditato da clientelismo e corruzione dilaganti. Ramaphosa era stato eletto di misura alla guida del suo partito nel dicembre del 2017 e, nel febbraio successivo, il voto del parlamento di Città del Capo lo aveva installato alla presidenza del paese al posto di Jacob Zuma.

 

L’attuale presidente era riuscito a sfruttare l’impopolarità di Zuma, invischiato da tempo in una serie di vicende legali per corruzione. Dietro a Ramaphosa c’erano e ci sono i grandi interessi economici e finanziari sudafricani e internazionali che appoggiano un’agenda di “riforme” economiche teoricamente dirette a stimolare la crescita del paese, ma in realtà fatte di privatizzazioni e provvedimenti per ridurre la spesa pubblica e liberalizzare il mercato del lavoro.

 

In oltre un anno alla guida del Sudafrica, Ramaphosa ha incontrato fortissimi ostacoli all’implementazione del suo programma. Nelle strutture di vertice del partito è infatti ancora presente un’agguerrita minoranza fedele al suo predecessore, ma, soprattutto, tra la base elettorale dell’ANC c’è comprensibilmente poca simpatia per le sue politiche di stampo liberista. Anche per questo, Ramaphosa ha spesso occultato la sua agenda “riformista” dietro slogan progressisti, se non radicali, facendo talvolta propria la proposta di redistribuire le terre in mano alle élites bianche.

 

La comunità finanziaria internazionale auspicava dunque una convincente affermazione dell’ANC che potesse permettere a Ramaphosa di procedere con il proprio programma. Se il partito ha recuperato terreno rispetto alle elezioni amministrative di tre anni fa, il confronto con le politiche del 2014 indica invece un calo superiore al 4%. Malgrado l’ottimismo ostentato da molti giornali finanziari occidentali, il risultato del voto di settimana scorsa rischia così di perpetuare, o addirittura intensificare, il conflitto interno all’ANC.

 

Al di là del discredito di Jacob Zuma, la fazione che fa riferimento all’ex presidente, pur essendo essa stessa sostanzialmente dedita all’accaparramento di posizioni di potere per spartire i benefici che ne derivano tra la propria rete clientelare, conserva un certo seguito tra i poveri sudafricani, dipendenti dallo stato per contare su un’abitazione, qualche servizio pubblico o un qualche impiego che permetta loro di sopravvivere.

 

La parabola politica e personale di Ramaphosa incarna poi il degrado stesso dell’ANC agli occhi di milioni di neri sudafricani e il fallimento delle promesse che erano state fatte intravedere alla fine dell’apartheid. L’attuale presidente era stato uno dei protagonisti della lotta di liberazione dal potere bianco e, da leader del principale sindacato del settore minerario, tra le più influenti personalità del nuovo Sudafrica.

 

Proprio grazie alla rete di contatti e alla posizione che si era creato all’interno dell’ANC e del sindacato, Ramaphosa è diventato un imprenditore di successo, diventando in fretta uno degli uomini più ricchi del paese. In questa nuova posizione, nel 2012 il futuro presidente ebbe un ruolo cruciale nel massacro da parte delle forze di sicurezza di 34 lavoratori in sciopero nella miniera di Marikana. Ramaphosa deteneva una quota della compagnia che controllava la miniera e, nel pieno della protesta, aveva invitato pubblicamente la polizia a reprimere lo sciopero in corso.

 

Per quanto riguarda ancora il voto di settimana scorsa, l’affluenza scesa dal 73% del 2014 al 66% è un altro segnale della sfiducia crescente verso l’ANC, soprattutto considerando che l’astensione è stata di molto superiore tra gli elettori più giovani. Il Sudafrica odierno è d’altra parte il paese con le maggiori disuguaglianze sociali e di reddito del pianeta. Una decina di miliardari si spartisce una ricchezza di 30 miliardi di dollari USA, mentre l’1% più benestante controlla circa il 70% della ricchezza del paese, contro appena il 7% nelle mani del 60% più povero della popolazione. Quasi uno su due sudafricani vive poi al di sotto della soglia di povertà e il livello ufficiale di disoccupazione sfiora il 28%, ma è di fatto attorno al 50% per i più giovani.

 

A ciò vanno aggiunti i numerosi scandali di corruzione che hanno coinvolto i vertici dell’ANC e alcune grandi compagnie private sudafricane e internazionali. Il consenso personale raccolto dal presidente Ramaphosa dipende in larga misura proprio dalle modeste iniziative adottate negli ultimi mesi e destinate a fare pulizia nel partito e nel governo, come l’apertura di svariate indagini o il licenziamento di funzionari coinvolti in guai legali. Prima e dopo il voto, d’altra parte, Ramaphosa ha insistito più volte sulla necessità di mettere da parte i politici corrotti, così da ridare un’immagine credibile all’ANC.

 

Se queste misure possono garantire un certo successo nel breve periodo, la popolarità di Ramaphosa e del suo governo rischia di precipitare rapidamente, come ha evidenziato il voto di settimana scorsa, a causa sia del conflitto interno al partito che minaccia di riesplodere violentemente sia della realtà di un’agenda economica che, al di là della retorica, continuerà ad avere come obiettivo primario la ristrutturazione del sistema Sudafrica e la restituzione della necessaria “fiducia” in esso agli investitori domestici e internazionali.


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