Un agguato criminale a colpi di kalashnikov è costato la vita a quattro agenti della Polizia Nazionale del Nicaragua, che mentre viaggiavano bordo di un pick-up sono stati crivellati di colpi. Gli autori del massacro appartengono alla banda denominata “El Jobo”, criminali nicaraguensi e narcos che operano dal territorio della Costa Rica e attraversano la frontiera con il Nicaragua per dedicarsi alle loro attività delittuose.

 

La dinamica dell’agguato e l’esfiltrazione rapida dei criminali hanno immediatamente chiarito la facilità con la quale trovano rifugio nella selva costaricense, dove sono insediati e riparano dopo ogni incursione. Il governo di San Josè ha ovviamente negato ogni addebito ma Managua, attraverso una nota ufficiale, ha denunciato la responsabilità diretta delle autorità costaricensi.

A dirigere almeno per un breve periodo di tempo una struttura clandestina adiacente al lager americano di Guantanamo, adibita alla tortura dei prigionieri accusati di terrorismo, potrebbe essere stata, tra il 2003 e il 2004, l’attuale controversa direttrice della CIA, Gina Haspel. Pur non essendoci ancora prove certe, fortissimi sospetti sulle responsabilità della numero uno della principale agenzia di intelligence americana sono emersi nei giorni scorsi in seguito alla pubblicazione parziale da parte del dipartimento della Difesa delle trascrizioni di un’udienza del processo in corso a porte chiuse contro il presunto architetto degli attentati dell’11 settembre 2001, Khalid Sheik Mohammed.

 

La notizia ha riportato all’attenzione pubblica il coinvolgimento della Haspel, scelta lo scorso anno dal presidente Trump per dirigere la CIA, nel programma di interrogatori con metodi di tortura autorizzati dall’amministrazione di George W. Bush e descritti nel dettaglio da un rapporto del Senato di Washington nel 2014.

 

Il documento che ha fatto supporre a molti che la Haspel abbia per un periodo imprecisato coordinato le torture degli agenti CIA a Guantanamo riguarda una mozione presentata da uno dei legali di Mohammed, l’avvocato Rita Radostitz, nel tentativo di far cadere le accuse nei confronti del suo cliente proprio in base alle implicazioni derivanti dal trattamento riservato ai detenuti accusati di terrorismo.

 

L’avvocato difensore, a un certo punto del suo intervento, si lamenta che l’accusa “non è disposta a discutere dei nomi delle persone coinvolte nelle torture” e, dopo una parte del documento pesantemente censurata, prosegue dicendo che “ciò rende impossibile identificarla per i detenuti di Guantanamo che potrebbero averla vista quando era capo della base”.

 

In seguito, la Radostitz chiede la testimonianza della Haspel al processo, perché il suo ruolo alla guida della CIA e, quindi, il suo potere decisionale sulla possibilità o meno di mettere a disposizione della difesa documenti top secret sulle torture che ella stessa avrebbe diretto, lede i diritti degli imputati e dovrebbe determinare la caduta delle accuse o, per lo meno, la rinuncia da parte dell’accusa all’invocazione della pena di morte per Khalid Sheik Mohammed.

 

L’udienza in questione risale al novembre scorso e il giudice del tribunale militare di Guantanamo, colonnello Keith Parrella, coerentemente con il carattere fortemente anti-democratico del procedimento aveva respinto l’istanza dei legali di Mohammed nel mese di dicembre, anche se la pubblicazione dei documenti in cui viene coinvolta Gina Haspel è avvenuta solo pochi giorni fa.

 

La definizione di “capo della base”, forse attribuita alla direttrice della CIA, si riferisce a una posizione che l’agenzia d Langley assegna all’ufficiale responsabile delle operazioni di un determinato sito o postazione segreta all’estero, come appunto i cosiddetti “buchi neri” nei quali avvenivano gli interrogatori di arrestati con l’accusa di terrorismo dopo l’11 settembre.

 

Secondo il già ricordato rapporto del Senato USA sulle torture, a Guantanamo erano in funzione tra il 2003 e il 2004 due di queste strutture, chiamate “Maroon” e “Indigo”, rigorosamente clandestine e separate dal “Campo Delta”, ovvero il complesso principale della prigione sull’isola di Cuba dove i detenuti erano e sono tuttora sotto la responsabilità del dipartimento della Difesa americano.

 

Mentre i nomi dei comandanti della prigione ufficiale controllata dai militari sono di dominio pubblico, quelli dei due siti gestiti dalla CIA sono sempre stati tenuti segreti. In questi ultimi venivano inviati i presunti terroristi arrestati illegalmente all’estero per essere interrogati dagli agenti CIA. Solo dopo periodi più o meno lunghi essi venivano consegnati alle autorità militari presso il “Campo Delta”.

 

A far pensare alla possibile presenza di Gina Haspel a Guantanamo in qualità di supervisore delle torture non è soltanto il riferimento alla direttrice della CIA da parte del legale di Khalid Sheik Mohammed, ma anche la mancanza di informazioni sui parecchi incarichi che essa ha ricoperto in passato per l’agenzia di intelligence americana. La responsabilità, almeno per alcuni mesi, di uno dei “buchi neri” di Guantanamo aiuterebbe a colmare una parte dei vuoti sul suo curriculum, rimasti senza risposta nonostante le richieste di svariati senatori al tempo delle udienze per la conferma del suo incarico nell’estate del 2018.

 

Di una carriera lunga 33 anni, la CIA ha ritenuto di non rendere pubblici una trentina di incarichi temporanei e di breve durata che Gina Haspel ha ricoperto, chiaramente in maniera clandestina. Uno di essi potrebbe essere appunto quello di Guantanamo, dove gli agenti della CIA con compiti di responsabilità restavano proprio per periodi brevi, vista la delicatezza e la scomodità del ruolo stesso.

 

A supporto di questa tesi si è schierato l’ex agente CIA Glenn Carle, il quale assicura che le persone dell’agenzia coinvolte nel programma di detenzioni e torture dopo l’11 settembre facevano parte di una cerchia molto ristretta e, vista la precedente esperienza della Haspel in questo ambito, è del tutto plausibile che fosse stata destinata a Guantanamo. La stessa direttrice della CIA, sempre nel corso dell’udienza nel processo a Mohammed, è stata inoltre collegata a una struttura detentiva segreta in Polonia, dove sarebbe stata vista e riconosciuta da alcuni detenuti.

 

L’avvocato Rita Radostitz ha affermato di non potere confermare l’identità dell’agente CIA tirato in ballo durante un’udienza segreta. La stampa americana si è comunque ben guardata dall’indagare sulla vicenda che potrebbe coinvolgere la Haspel, nonostante ci siano già dei precedenti – questa volta documentati – sul suo coinvolgimento nel programma di torture e detenzioni illegali post-11 settembre. La notizia riguardante la numero uno della CIA è stata riportata dall’agenzia di stampa McClatchy e dal Miami Herald, mentre a distanza di ormai alcuni giorni dalla sua pubblicazione praticamente tutti i media americani, soprattutto quelli più importanti, hanno scelto di ignorarla completamente.

 

Se il collegamento tra la Haspel e il “buco nero di Guantanamo” dovesse essere confermato, risulterebbe ancora più grave la decisione dell’amministrazione Trump di nominare un’agente pesantemente implicata in crimini gravissimi come la tortura alla guida della più nota agenzia di intelligence americana.

 

Com’era emerso già lo scorso anno, Gina Haspel aveva coordinato le operazioni clandestine in una delle strutture detentive segrete della CIA in Thailandia. Qui erano passati numerosi sospettati di terrorismo sottoposti a torture, tra cui il presunto uomo di al-Qaeda, Abu Zubaydah, oggetto di ripetuti trattamenti violenti e degradanti. Pur non essendo del tutto chiaro se Zubaydah sia stato torturato prima o durante la direzione della prigione della Haspel, quest’ultima fu invece senza alcun dubbio coinvolta in prima persona nella decisione illegale di distruggere un centinaio di registrazioni video che documentavano gli interrogatori, tra cui anche quello dello stesso cittadino saudita tuttora detenuto a Guantanamo.

Dopo la sconfitta di proporzioni storiche di martedì sulla Brexit, il primo ministro britannico, Theresa May, è riuscita nella serata di mercoledì a sopravvivere in maniera relativamente agevole a una mozione di sfiducia presentata del Partito Laburista. Se il voto alla Camera dei Comuni ha permesso nuovamente alla May di conservare il suo incarico, nonostante la profondissima crisi in cui il suo governo si dibatte da tempo, il caos politico a Londra appare tutt’altro che risolto e le opzioni percorribili rimaste per l’uscita teorica del Regno Unito dall’Unione Europea ancora estremamente complicate.

A oltre due settimane da una consultazione elettorale attesa da tempo, la fragilissima stabilità della Repubblica Democratica del Congo continua a essere in serio pericolo a causa dei diffusi sospetti su possibili brogli e delle crescenti pressioni internazionali. Il presidente uscente, Joseph Kabila, era stato al centro di accuse e polemiche per un possibile intervento della macchina dello stato a favore del suo erede designato, Emmanuel Ramazani Shadary, ma alla fine l’esito del voto ha premiato uno dei due principali candidati dell’opposizione.

 

Le elezioni presidenziali e per il parlamento congolese si sono tenute il 30 dicembre scorso dopo un ultimo rinvio di alcuni giorni che era andato a sommarsi ai due anni di ritardo con cui Kabila aveva acconsentito a chiudere il suo secondo e ultimo mandato, come previsto dalla Costituzione del paese centro-africano. La pubblicazione dei risultati definitivi era stata allo stesso modo rimandata dalla Commissione Elettorale Nazionale Indipendente, ufficialmente per le difficoltà oggettive nel tenere un’elezione in un paese sconfinato e afflitto da problemi enormi. Per molti, soprattutto tra l’opposizione congolese e i governi e gli osservatori occidentali, i timori erano però che Kabila stesse manovrando per garantire il successo del suo protetto.

 

Il candidato dichiarato vincitore è stato invece Felix Tshisekedi, leader dell’Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale (UDPS) e figlio del defunto leader dell’opposizione, Étienne, grazie a circa il 38,5% dei voti ottenuti. La legge elettorale del Congo non prevede ballottaggio in caso nessun candidato superi la soglia del 50%, così che l’altro aspirante alla presidenza, l’ex manager del gigante petrolifero ExxonMobil, Martin Fayulu, con il 34,7% è rimasto escluso dalla corsa alla successione a Kabila.

 

Se irregolarità, intimidazioni e violenze sono state segnalate in molti casi durante le operazioni di voto, per alcuni è altrettanto difficile pensare a una campagna messa in piedi dal governo Kabila per manipolare i risultati. Ciò contrasterebbe con la pessima prestazione attribuita al candidato del presidente uscente, fermatosi al di sotto del 24%.

 

La versione di Fayulu e dei partiti che lo sostengono, subito appoggiata da media e commentatori in Occidente, è che Kabila, di fronte alla vasta opposizione nel paese contro il suo regime e all’impopolarità di Shadary, abbia deciso di puntare su Tshisekedi non solo perché considerato come il male minore, ma anche perché con quest’ultimo avrebbe raggiunto un accordo.

 

Il neo-presidente ha alimentato egli stesso molti sospetti in proposito dopo che, in un evento pubblico seguito alla diffusione dei risultati ufficiali, ha definito Kabila “un importante partner politico”. Il candidato di Tshisekedi alla vice-presidenza, Vital Kamerhe, era inoltre un ex direttore della campagna elettorale di Kabila. Il possibile accordo, negato dal presidente uscente e dal suo successore in pectore, permetterebbe in sostanza a Kabila di conservare una certa influenza nel paese, se non le stesse leve del potere da dietro le quinte, per non parlare della garanzia di non essere perseguito penalmente in base ad accuse di corruzione e appropriazione di fondi pubblici.

 

La posizione di Kabila e della sua cerchia di potere sarà in ogni caso almeno in parte già garantita grazie al dominio del suo partito nel voto per il parlamento, dove ha ottenuto la maggioranza assoluta. Questo risultato consentirà al partito di Kabila di eleggere un proprio primo ministro e di ottenere ministeri cruciali per il controllo delle risorse economiche e per gli equilibri di potere nel paese.

 

Secondo la stampa locale e internazionale, Kabila era comunque intenzionato a impedire a tutti i costi una vittoria di Fayulu, visto che dietro alla sua candidatura c’erano alcune personalità irriducibilmente ostili al presidente. Uno di essi è il miliardario Moïse Katumbi, ex alleato di Kabila ora in auto-esilio in Sudafrica dopo avere rotto con quest’ultimo ed essere diventato, secondo quanto riportato martedì dal New York Times, un suo “nemico giurato”.

 

Fayulu nel fine settimana ha presentato un esposto alla Corte Costituzionale congolese per chiedere un riconteggio manuale delle schede, sia pure senza nutrire eccessive speranze, visti i paletti legali fissati per un ricorso e la presenza nel tribunale di giudici vicini a Kabila. Se l’istanza di Fayulu dovesse essere respinta, il candidato sconfitto ha chiesto ai suoi sostenitori di scendere nelle strade per manifestare contro i risultati ufficiali.

 

Martin Fayulu era di gran lunga il candidato più gradito dall’Occidente, quello che avrebbe dovuto cioè prendere il controllo di un paese cronicamente instabile ma con ingenti risorse naturali. La Repubblica Democratica del Congo è uno dei principali produttori di cobalto, impiegato nella produzione di batterie per auto elettriche e dispositivi elettronici, ma anche di rame, oro e diamanti per un valore complessivo stimato di svariate migliaia di miliardi di dollari.

 

Non solo, la corsa alle ricchezze del Congo si aggiunge e sovrappone alla competizione tra l’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, e la Cina nel continente africano. Come svariati altri leader in Africa con tendenze più o meno autoritarie e bersagli di campagne orchestrate o sostenute dai governi occidentali, anche Kabila aveva visto peggiorare nel tempo i suoi rapporti con USA ed Europa, principalmente per i crescenti legami economici tra Kinshasa e Pechino.

 

I dubbi sulla legittimità della vittoria di Tshisekedi erano subito emersi anche dalle stime indipendenti dei risultati delle presidenziali circolate dopo il 30 dicembre. In particolare, le informazioni ottenute dalla Conferenza Episcopale del Congo hanno trovato amplissima eco sui media occidentali. I vertici della Chiesa cattolica congolese avevano dispiegato 41 mila osservatori nei seggi di tutto il paese e, prima del pronunciamento della Commissione Elettorale, avevano annunciato che i risultati nelle loro mani indicavano un chiaro vincitore. I vescovi del Congo si erano rifiutati di rivelare il nome del candidato in testa prima della diffusione dei dati ufficiali, ma fonti anonime avevano indicato Martin Fayulu come il sicuro vincitore. Quest’ultimo era dato anche in vantaggio nei sondaggi pre-elettorali, per quello che possono contare in un paese come il Congo.

 

Per dimostrare le irregolarità e il possibile complotto architettato da Kabila, i sostenitori di Fayulu hanno ricordato, tra l’altro, come il governo avesse privato del diritto di voto circa un milione di persone, cancellando le elezioni in due province congolesi, considerate roccaforti dell’opposizione, con la scusa della presenza del virus Ebola. Altri episodi sono stati poi denunciati, come l’espulsione da molti seggi di osservatori indipendenti o dei partiti di opposizione, mentre alla vigilia delle elezioni Kabila aveva ordinato la sospensione della rete internet per garantire “pace e sicurezza”.

 

I reporter dei giornali occidentali inviati in Congo in questi giorni hanno raccontato quasi sempre di una popolazione tutt’altro che ansiosa di partecipare a proteste che potrebbero sfociare in situazioni di violenza dopo la sanguinosa guerra civile e gli scontri che seguirono alle elezioni del 2006 e del 2011, vinte in maniera contestata da Kabila, nonché al rifiuto di quest’ultimo di lasciare il suo incarico una volta scaduto nel 2016. Paradossalmente anche se non troppo, potrebbero essere proprio le pressioni internazionali e, in larga misura, dell’Occidente a soffiare sul fuoco delle tensioni in questo paese africano. La Francia e il Belgio, ex potenzia coloniale, hanno esplicitamente condannato i risultati annunciati dalla Commissione Elettorale e chiesto in sostanza l’installazione di Fayulu alla presidenza.

 

In maniera minacciosa, il governo di Washington poco prima del voto del 30 dicembre aveva invece inviato 80 soldati nel vicino Gabon con la motivazione ufficiale di proteggere interessi e personale americano in caso di disordini derivanti da eventuali contestazioni delle elezioni in Congo. Se il successivo fallito golpe nello stesso Gabon ha fatto ipotizzare collegamenti tra la presenza militare USA e le vicende di questo piccolo paese, è evidente che il contingente inviato da Trump potrebbe intervenire, in caso di necessità, in una possibile situazione di caos a Kinshasa.

 

Più prudente sembra infine la posizione assunta finora dalla Comunità di Sviluppo dell’Africa Meridionale (SADC), di cui fa parte la stessa Repubblica Democratica del Congo. In questo organismo hanno un particolare peso le posizioni di paesi vicini a Kabila, come Sudafrica e Angola, i quali hanno finora cercato di mediare tra le pressioni occidentali su Kinshasa e l’esigenza di garantire la stabilità del Congo e dell’intera area dell’Africa centro-meridionale. La SADC aveva inizialmente giudicato positivamente lo svolgimento delle elezioni, ma ha in seguito chiesto un riconteggio dei voti espressi nelle presidenziali e la formazione di un governo di “unità nazionale” che includa i partiti di Kabila, Tshisekedi e Fayulu.

 

Oltre alla necessità di preservare la pace in Congo, sembra esserci tuttavia ancora poca chiarezza sulle iniziative concrete da intraprendere per risolvere una potenziale crisi post-elettorale nel paese. Lunedì, infatti, i governi di Sudafrica e Zambia hanno ammorbidito i toni nei confronti di Kinshasa, ritirando la richiesta alla Commissione Elettorale congolese di riconteggiare manualmente tutte le schede elettorali.

Lo stallo politico negli Stati Uniti sul bilancio federale e il finanziamento del muro anti-migranti rischia seriamente di trasformarsi in una crisi costituzionale ancora più grave, nel caso il presidente Trump dovesse dare seguito alla minaccia di dichiarare lo stato di emergenza nel paese per sbloccare i fondi da destinare alla costruzione di una barriera al confine con il Messico.

 

Questa opzione era stata confermata da Trump in un intervento televisivo in prima serata martedì e poi ribadita durante una visita in Texas mercoledì. L’ipotesi era circolata in precedenza nei corridoi della Casa Bianca e aveva incontrato comprensibilmente l’opposizione pressoché totale dei nemici del presidente, ma anche il profondo scetticismo di molti nello stesso Partito Repubblicano.


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