- Dettagli
- Scritto da Mario Lombardo
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
A pochi giorni dal primo vertice di alto livello tra esponenti dell’amministrazione Trump e il nuovo governo pakistano del premier Imran Khan, le tensioni tra i due alleati sono tornate ad aggravarsi in seguito all’ennesimo attacco contro Islamabad da parte di Washington. 300 milioni di dollari in fondi destinati ai militari sono stati infatti cancellati con la scusa che il paese dell’Asia meridionale continua a non fare abbastanza per contrastare i gruppi militanti islamici armati che combattono le forze di occupazione NATO nel vicino Afghanistan.
I contrasti tra USA e Pakistan sono evidenti a livello pubblico da tempo e derivano non solo da questioni legate al conflitto afghano ma, sempre di più, anche dall’evolversi del quadro strategico della regione, in relazione soprattutto al ruolo di India e Cina all’interno del sistema di alleanze asiatiche del governo americano. In questo quadro, la questione degli aiuti finanziari diretti da Washington a Islamabad serve alternativamente da incentivo o ricatto, così che lo sblocco o il congelamento di fondi portano spesso a dibattiti molto accesi, se non a un aperto ripensamento dell’alleanza tra i due paesi.
Già a inizio anno, il presidente Trump si era scagliato con un “tweet” contro il Pakistan, accusato, a suo dire, di avere ricevuto dagli USA 33 miliardi di dollari in quindici anni dando in cambio “nient’altro che menzogne e inganni”. Il Congresso di Washington aveva in seguito bloccato 500 milioni di dollari già stanziati a favore di Islamabad, così che il totale congelato quest’anno ammonta ora a ben 800 milioni.
Tecnicamente, il denaro americano negato al Pakistan non è riconducibile alla voce “aiuti”, visto che rientra tra i cosiddetti “Fondi di Supporto della Coalizione” che dovrebbero servire a compensare i paesi alleati di Washington delle spese sostenute nella cosiddetta “guerra al terrore”.
Per questa ragione, la notizia dei giorni scorsi ha incontrato la reazione stizzita del neo-ministro degli Esteri pakistano, Shah Mehmood Qureshi, il quale ha respinto la definizione generalmente offerta dai media di un taglio degli aiuti americani. Qureshi ha definito i 300 milioni di dollari congelati come denaro “nostro”, utilizzato per “rafforzare la sicurezza regionale” e per il quale gli Stati Uniti “ci devono rimborsare”.
Secondo quanto riportato domenica dalla Reuters, il segretario alla Difesa americano, James Mattis, ha preso la decisione durante l’estate di non autorizzare lo stanziamento dei 300 milioni di dollari, non avendo osservato “azioni concrete contro gli insorti” da parte del governo pakistano. Se ora il Congresso USA lo consentirà, questa somma verrà dirottata verso “altre priorità”, mentre il Pakistan potrà tornare a beneficiare dei fondi il prossimo anno, nel caso si adegui alle richieste USA.
La decisione relativa al Pakistan non riguarda solo l’aspetto finanziario, come aveva spiegato ancora la Reuters già qualche settimana fa. L’amministrazione Trump, “senza fare troppo rumore”, avrebbe da qualche tempo iniziato a ridurre anche il numero di ufficiali pakistani che tradizionalmente partecipano a programmi di formazione militare negli Stati Uniti.
Le decisioni prese da Washington non contribuiscono a creare la migliore atmosfera in previsione dell’incontro di mercoledì in Pakistan, dove giungeranno il segretario di Stato, Mike Pompeo, e il numero uno delle forze armate americane, generale Joseph Dunford. Anzi, l’annuncio del ritiro dei fondi appare una nuova iniziativa deliberata da parte dell’amministrazione Trump per colpire un alleato sempre più scomodo.
In particolare, lo stop ai fondi è un messaggio lanciato al governo da poco installato di Imran Khan, le cui prese di posizione durante la campagna elettorale erano state spesso critiche della condotta americana nel suo paese e nella regione. Il leader del partito Tehreek-e-Insaf (“Movimento per la Giustizia”) aveva condannato soprattutto le incursioni con i droni in territorio pakistano per colpire esponenti dei Talebani o presunti appartenenti a organizzazioni terroristiche.
Oltre a inserirsi nella delicata fase di transizione politica in atto a Islamabad, il blocco dei fondi arriva anche in un momento critico per il Pakistan dal punto di vista economico. Da tempo si inseguono le voci sulla necessità, da parte del nuovo governo, di chiedere un prestito al Fondo Monetario Internazionale (FMI). Se così fosse, è evidente che il peso determinante di Washington all’interno di questa istituzione potrebbe influenzare l’esito del prestito da destinare a Islamabad.
A livello ufficiale, esponenti del governo e dei vertici militari americani insistono nel ricondurre le tensioni bilaterali all’atteggiamento del Pakistan nei confronti dei talebani che troverebbero rifugio nel territorio di questo paese. In realtà, il raffreddamento dei rapporti e l’aumentare delle pressioni USA sulla classe dirigente pakistana sono da collegare anche al costante avvicinamento di Islamabad alla Cina e, in misura minore, alla Russia.
Il riallineamento strategico del Pakistan, sia pure ancora nelle fasi iniziali, è peraltro un riflesso del rimescolamento delle carte in Asia centrale e meridionale operato proprio dagli Stati Uniti. In un processo avviato almeno dall’amministrazione di George W. Bush, Washington ha incessantemente corteggiato l’India nel tentativo di costruire con questo paese una partnership strategica nell’ambito dei piani di contenimento dell’ascesa cinese.
La promozione dell’India come potenza regionale da contrapporre alla Cina, e per la quale gli USA vedono anche un ruolo di primo piano in Afghanistan, rappresenta una minaccia esistenziale per la classe dirigente pakistana. Queste manovre americane devono avere suscitato a Islamabad il sospetto di tradimento da parte dell’alleato americano e le ansie scatenate si esprimono spesso nelle frequenti dichiarazioni che ricordano a Washington l’enorme costo economico e umano sostenuto dal Pakistan in una guerra lanciata e condotta in maniera dissennata dagli Stati Uniti.
Il Pakistan, ad ogni modo, sembra intenzionato a proseguire sul percorso di integrazione euroasiatica promosso da Pechino. La Cina, tradizionale alleato di Islamabad, ha già investito o promesso di investire svariate decine di miliardi di dollari soprattutto in progetti di infrastrutture in Pakistan, a cominciare dal cosiddetto “Corridoio sino-pakistano” che dovrebbe collegare con una serie di opere i territori centro-asiatici della Cina con il porto di Gwadar, affacciato sul Mare Arabico.
Sul fronte dei rapporti con la Russia, più o meno gelidi dai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, si registrano invece finora progressi nell’ambito della cooperazione militare e strategica. Non solo, il Pakistan continua anche a lavorare in maniera produttiva con l’Iran, con particolare attenzione agli aspetti energetici e della sicurezza della regione.
Dietro alle richieste americane di un maggiore impegno contro il fondamentalismo nelle aree di confine con l’Afghanistan vi sono dunque serie preoccupazioni per la direzione strategica che sembra potere intraprendere il Pakistan. Ciò non solo alla luce della natura del nuovo governo, ma anche delle tendenze centrifughe e multipolari che stanno interessando principalmente il continente asiatico e a cui Islamabad potrebbe adeguarsi in un futuro non troppo lontano.
Per il momento, l’attitudine americana sembra essere quella di mescolare iniziative ostili, come il recente blocco di fondi, a una tattica attendista per dare tempo all’esecutivo guidato da Imran Khan e, ancor più, ai militari, che rappresentano il vero centro di potere pakistano, di chiarire quali saranno gli indirizzi di politica estera che intenderanno dare al loro paese nei prossimi anni.
- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
La persecuzione sistematica dei migranti negli Stati Uniti da parte dell’amministrazione Trump ha fatto segnare una nuova escalation dopo la pubblicazione nei giorni scorsi di un’esclusiva del Washington Post che rivela come il governo di Washington stia da qualche tempo prendendo di mira anche cittadini a tutti gli effetti americani ma di origine ispanica.
Questo accanimento contro centinaia o forse migliaia di persone, nate negli USA e con regolare passaporto americano, non ha di fatto alcuna giustificazione logica né legale. Al contrario, è un’altra delle iniziative xenofobe della Casa Bianca per colpire deliberatamente immigrati e cittadini di origine straniera al fine di coltivare una base di sostegno di estrema destra nel paese.
L’articolo del Post descrive una serie di situazioni che hanno coinvolto individui a cui, tra l’altro, è stata negata la richiesta di rinnovo del passaporto oppure il documento è stato ritirato, spesso senza nessun preavviso, lasciandoli in una situazione di estrema precarietà dopo decenni di vita e lavoro negli Stati Uniti. La cittadinanza di queste persone viene messa improvvisamente in discussione sulla base di accuse inconsistenti. Alla base di questo assurdo giro di vite ci sono vecchie accuse rivolte a ostetriche e ad almeno un ginecologo, operanti tra gli anni Cinquanta e Novanta del secolo scorso in località del Texas meridionale, che in un numero molto limitato di casi avrebbero falsificato documenti di nascita di neonati venuti effettivamente alla luce in Messico.
Queste accuse erano venute a galla già più di un decennio fa e per svariati anni avevano tenuto occupati i tribunali federali. Per un certo periodo di tempo, il governo di Washington aveva negato il rinnovo del passaporto ai sospettati di essere in possesso di falsi documenti di nascita americani. I procedimenti si erano però quasi sempre risolti a favore degli imputati dopo la presentazione, da parte di questi ultimi, di altri documenti che ne attestavano la nascita in territorio americano. A partire dal 2009, perciò, casi simili erano diventati molto rari.
Ora, invece, l’amministrazione Trump ha riesumato le accuse, tanto che attivisti e avvocati specializzati in questioni migratorie segnalano il rapido moltiplicarsi degli episodi di passaporti negati o revocati. A ben vedere, al di là dell’impatto e delle conseguenze effettive prodotte finora da queste misure, esse denotano un’evidente intensificazione della guerra all’immigrazione negli USA, con una tendenza di fondo almeno potenzialmente assimilabile a un tentativo di pulizia etnica.
La portata delle accuse e il numero di persone coinvolte, come già ricordato, non hanno fondamento se si pensa all’esiguità dei casi fraudolenti dimostrati. Secondo le indagini del Washington Post, una delle ostetriche coinvolte nella vicenda avrebbe ammesso di avere preso del denaro negli anni Novanta per falsificare due sole nascite sulle migliaia a cui ha assistito nella sua intera carriera professionale.
A carico di un noto ginecologo, attivo nel Texas del sud e morto nel 2015 dopo avere contribuito a dare alla luce qualcosa come 15 mila neonati, ci sarebbe poi una sola accusa provata di avere falsamente certificato la nascita negli Stati Uniti di un bambino in realtà partorito in Messico.
Gli esempi raccontati dal giornale di Washington sono numerosi e includono anche individui di origine messicana che hanno servito nell’esercito USA o che, addirittura, sono agenti dell’immigrazione. Le accuse nei loro confronti sono emerse al momento della richiesta del rinnovo del passaporto oppure, in altri casi, le forze di polizia si sono presentate senza preavviso nelle abitazioni degli accusati per prelevare i loro passaporti.
Ancora, si registrano esempi di cittadini americani bloccati in Messico perché i loro passaporti sono stati confiscati e revocati alla frontiera al momento di rientrare negli Stati Uniti. Incredibilmente, infine, persone in possesso di certificati di nascita americani a cui è stato ritirato il passaporto risultano rinchiuse in centri di detenzione per immigrati irregolari e nei loro confronti sono stati aperti procedimenti di espulsione.
Le associazioni impegnate in difesa degli immigrati ammettono che per il momento le deportazioni sono state molto rare. Tuttavia, è diffusa la sensazione che il governo intenda lasciare migliaia di persone in una sorta di limbo legale che li espone a provvedimenti con un impatto devastante sulle loro vite nel caso, tutt’altro che improbabile, le politiche migratorie di Trump dovessero assumere un impronta ancora più estrema nel prossimo futuro.
Che questa caccia alle streghe sia motivata da ragioni politiche è confermato anche da uno dei casi riportati dal Post. Un 40enne texano a cui è stato ritirato il passaporto ha infatti presentato al governo alcuni dei documenti extra richiesti per provare la sua nascita negli Stati Uniti. Ciononostante, il suo passaporto risulta ancora revocato e il caso tuttora in sospeso.
Dal muro al confine col Messico alla separazione forzata di genitori e figli immigrati, dallo stop all’ingresso negli USA di cittadini di paesi musulmani all’irrigidimento delle norme per ottenere il diritto di voto mirate contro i cittadini di origine straniera. Le politiche anti-migranti della Casa Bianca sembrano dunque spostarsi sempre più verso destra, con l’obiettivo di dirottare su una delle fasce più deboli della popolazione le tensioni sociali e l’avversione più o meno latente nel paese contro la deriva classista e ultra-reazionaria che sta caratterizzando l’amministrazione Trump.
- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
La durissima condanna da parte dell’ONU delle violenze commesse dai militari della ex Birmania contro la minoranza musulmana Rohingya ha coinvolto in questi giorni anche l’icona democratica dell’Occidente, Aung San Suu Kyi.
Secondo il numero uno dell’agenzia delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra’ad al-Hussein, di fronte alle persecuzioni e ai massacri della popolazione Rohingya, il premio Nobel per la Pace del 1991 aveva la possibilità di intervenire o, quanto meno, avrebbe dovuto rassegnare le proprie dimissioni da leader di fatto del governo del Myanmar piuttosto che assecondare i crimini delle forze armate.
Le dichiarazioni del diplomatico giordano seguono la pubblicazione di un rapporto preliminare redatto da una speciale commissione ONU sui fatti che, dall’agosto del 2017, nella regione nord-occidentale di Rakhine hanno portato alla morte di decine di migliaia di musulmani Rohingya e alla fuga dal paese, secondo alcune stime, di almeno altri 800 mila.
Il regime del paese a maggioranza buddista considera tradizionalmente la minoranza di religione islamica priva di cittadinanza, nonostante gli appartenenti a essa vivano in Myanmar da generazioni e, in molti casi, addirittura da secoli. I Rohingya sono etichettati come “bengalesi” e visti come immigrati illegali. La gran parte dei profughi ha trovato rifugio in campi provvisori nel vicino Bangladesh, quasi sempre in condizioni drammatiche.
Il nuovo rapporto ONU rappresenta finora il più pesante atto di accusa nei confronti dei militari birmani, soprattutto perché usa apertamente il termine “genocidio” nel descrivere i massacri contro i Rohingya. In precedenza le operazioni del regime erano state definite, al massimo, “pulizia etnica”, con implicazioni legali decisamente meno gravi.
Il rapporto nomina poi come responsabili sei generali del Myanmar, per i quali raccomanda un’improbabile incriminazione. Tra di essi c’è anche l’attuale comandante delle forze armate, Min Aung Hlaing, per molti il vero leader di un paese dove il governo a guida civile resta in sostanza sotto il controllo dei militari.
Nonostante non venga sollecitata la sua incriminazione, Aung San Suu Kyi è comunque indicata come una possibile responsabile dei massacri contro i Rohingya. Il suo incarico ufficiale di “Primo Consigliere di Stato” la rende infatti la principale autorità civile del paese.
Se è innegabile che le questioni etniche, notoriamente calde in Myanmar, sono di competenza dei militari, il premio Nobel per la Pace, nelle rare occasione in cui ha parlato pubblicamente dei Rohingya, ha in pratica sposato la linea dei generali. Alcuni mesi fa, ad esempio, parlò di un “iceberg di disinformazione” nel descrivere le accuse sollevate dalla stampa internazionale contro il suo paese.
Vista in Occidente come un vero e proprio simbolo della lotta per la democrazia, anche per via dei molti anni trascorsi agli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi condivide in buona parte le tendenze nazionaliste dei militari. Inoltre, il suo partito (Lega Nazionale per la Democrazia, NLD) ha accettato l’accordo con il regime precedente che gli ha garantito il ritorno alla vita politica, e con un ruolo di protagonista, in cambio del mantenimento del controllo della “sicurezza nazionale”, e non solo, da parte dei militari.
I vertici militari birmani hanno da parte loro respinto le conclusioni delle Nazioni Unite, visto anche che l’indagine non è avvenuta sul campo perché agli ispettori dell’ONU è stato impedito l’ingresso nel paese. Il Myanmar continua a sostenere che le operazioni militari nello stato di Rakhine sono state motivate da attacchi di ribelli musulmani contro le forze governative.
Secondo l’ONU, al contrario, la brutale campagna contro i Rohingya era stata pianificata ai massimi livelli militari ancora prima di questi attacchi, comunque di entità relativamente trascurabile. Gli interventi dei soldati birmani hanno poi avuto modalità simili, tanto da suggerire una scrupolosa pianificazione, con distruzioni sistematiche di villaggi, arresti di cittadini maschi e violenze sessuali su donne e bambine.
Le responsabilità dei militari e del governo del Myanmar per la crisi dei Rohingya sono dunque ben documentate. L’indignazione della comunità internazionale, soprattutto in Occidente, e in parte quella delle Nazioni Unite continua tuttavia a essere particolarmente selettiva.
Oltre al silenzio e ai toni molto più contenuti riguardo altre crisi, a cominciare da quella in Yemen, è impossibile non rilevare come le durissime accuse rivolte ai vertici militari della ex Birmania vengano registrate in una fase nella quale stanno aumentando i timori occidentali per il riavvicinamento tra questo paese e la Cina.
Dopo decenni di emarginazione forzata e di ripetute condanne internazionali, il Myanmar era stato improvvisamente riportato a una situazione di quasi normalità e annoverato nei paesi impegnati in una transizione verso la democrazia grazie a un’intesa più o meno formale tra il governo americano e il regime militare. Questa trasformazione era avvenuta in parallelo con il lancio della cosiddetta “svolta asiatica” dell’amministrazione Obama nel 2011, cioè il ricalibramento strategico di Washington per consolidare una rete di alleanze in funzione di contenimento dell’espansione cinese.
Il Myanmar, durante gli anni dell’isolamento internazionale, aveva trovato nella Cina l’unico vero partner economico e militare, ma le aperture degli USA avevano offerto ai militari, da sempre preoccupati per l’eccessiva dipendenza da Pechino, uno spiraglio per cercare di riequilibrare la propria politica estera.
Per l’amministrazione Obama era evidente l’importanza della ex Birmania, sia per la posizione strategica che occupa sia per la possibilità di infliggere un’umiliazione alla Cina, visto anche che il regime aveva congelato alcune opere infrastrutturali sul proprio territorio finanziate da Pechino.
In questa operazione diplomatica, Aung San Suu Kyi aveva svolto un ruolo fondamentale. La sua liberazione e il ritorno alla politica avevano consentito di sdoganare i militari e presentare all’opinione pubblica internazionale un paese avviato sulla strada della democrazia.
Negli ultimi anni, l’avvicinamento del Myanmar all’Occidente ha però incontrato numerosi ostacoli. In primo luogo, le opportunità di investimento per il capitalismo occidentale non si sono manifestate e la nuova classe dirigente, assieme ai rappresentanti del vecchio regime, è tornata a guardare a una Cina che ha continuato a manovrare dietro le quinte dal punto di vista economico, diplomatico e militare.
Per questa ragione, le critiche e le aperte condanne del Myanmar per il massacro dei Rohingya sono cominciate ad aumentare a livello internazionale, anche se spesso in maniera piuttosto cauta. Negli Stati Uniti, ad esempio, si registrano profonde divisioni sull’atteggiamento da tenere nei confronti della ex Birmania.
Alcuni chiedono di accusare formalmente di genocidio i vertici militari e di adottare sanzioni punitive. In molti suggeriscono invece un atteggiamento più prudente, poiché temono che il ritorno al muro contro muro spinga ancora di più il Myanmar nelle braccia della Cina.
In entrambi i casi, ad ogni modo, gli scrupoli americani, così come di tutti i governi occidentali, non riguardano tanto la tragica sorte dei Rohingya quanto le implicazioni e i propri vantaggi strategici nel quadro della crescente competizione con la Cina nel continente asiatico.
- Dettagli
- Scritto da Mario Lombardo
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
In un altro segnale del complicarsi dei negoziati di pace tra Stati Uniti e Corea del Nord, il dipartimento della Difesa americano questa settimana ha minacciato di riprendere le esercitazioni belliche nella penisola di Corea con il governo alleato di Seoul. La sospensione dei giochi di guerra, tradizionalmente osteggiati da Pyongyang, era stato deciso dal presidente Trump dopo lo storico summit di Singapore con il leader nord-coreano, Kim Jong-un.
Il numero uno del Pentagono, James Mattis, ha confermato come l’iniziativa della Casa Bianca fosse un segnale di fiducia nell’ambito dei colloqui, ma, allo stato attuale delle cose, Washington “non ha alcun piano per la sospensione di altre esercitazioni”.
Queste ultime erano state definite dallo stesso Trump come “altamente provocatorie” nei confronti del regime di Kim. Anche se ufficialmente a scopo difensivo, le manovre tra USA e Corea del Sud risultano infatti sempre più dedicate a prove di invasione o al rovesciamento del governo nordcoreano.
La ripresa delle esercitazioni sarebbe poi tanto più significativa considerando che, di fatto, lo stop era l’unica concessione fatta finora dagli Stati Uniti alla Corea del Nord nel quadro dei colloqui di pace. Pyongyang, da parte sua, ha invece già congelato i propri test nucleari e missilistici, ha smantellato alcune installazioni militari e restituito al governo di Washington i resti dei soldati americani deceduti durante il conflitto del 1950-1953.
Lo scoglio sullo sblocco dei negoziati resta l’atteggiamento americano e la richiesta alla Nordcorea di accettare e procedere con la “denuclearizzazione” senza sostanziali incentivi o concessioni. Lo stesso regime aveva definito il comportamento del segretario di Stato USA, Mike Pompeo, come quello di un “gangster” dopo la visita di quest’ultimo a Pyongyang nel mese di luglio.
Proprio una nuova trasferta di Pompeo, prevista a breve, è stata bloccata da Trump nei giorni scorsi. Nel suo comunicato, il presidente ha riconosciuto lo stallo delle trattative, sia pure esprimendo l’auspicio di incontrare Kim per la seconda volta il più presto possibile.
Trump aveva inoltre puntato il dito contro la Cina e collegato il processo di pace con la Corea del Nord alla guerra commerciale in atto tra Washington e Pechino. Secondo la Casa Bianca, cioè, la situazione di difficoltà attuale è dovuta all’allentamento delle pressioni cinesi su Pyongyang, a sua volta dovuto alle misure decise dagli Stati Uniti nei confronti di Pechino in ambito commerciale.
Confermando come la questione nordcoreana sia strettamente legata alla rivalità con la Cina, Trump ha spiegato che il segretario di Stato Pompeo tornerà a Pyongyang una volta che lo scontro commerciale con Pechino sarà risolto.
Le esitazioni americane si scontrano con la determinazione del presidente sudcoreano, Moon Jae-in, nel proseguire il dialogo con Kim. Dopo la cancellazione della trasferta di Pompeo, mercoledì Moon ha insistito sulla necessità di un nuovo vertice tra le due Coree, sottolineando anzi l’impegno del governo di Seoul nell’agire da mediatore tra Washington e Pyongyang.
Da parte degli USA c’è un evidente disagio nei confronti del governo dell’alleato sudcoreano, riflesso ad esempio nella recente dichiarazione della portavoce del dipartimento di Stato, Heather Nauert, la quale non ha sollevato obiezioni a un nuovo faccia a faccia tra Kim e Moon, ma ha ricordato come qualsiasi progresso nel dialogo inter-coreano debba portare a passi avanti nella “denuclearizzazione” del regime.
Il principale ostacolo al momento sembra essere la mancata volontà da parte americana ad accettare la richiesta nordcoreana di emettere una dichiarazione ufficiale, assieme a Seoul, che suggelli la fine della guerra del 1950-1953. Pyongyang vedrebbe una mossa di questo genere come il punto di partenza per la negoziazione di un vero e proprio trattato di pace, al posto del cessate il fuoco in vigore da 65 anni.
Gli USA vogliono invece una dichiarazione preliminare da parte nordcoreana sull’intenzione di smantellare il programma nucleare, cosa decisamente improbabile visto il desiderio di Kim di procedere verso un negoziato “a fasi” e che preveda concessioni reciproche e “simultanee” con l’avanzare delle trattative.
Lo scoglio della fine ufficiale delle ostilità e di un eventuale trattato di pace è estremamente delicato per Washington e, per certi versi, va al cuore dell’intera strategia USA in Asia nord-orientale. Al di là delle reali intenzioni di Trump, in molti negli ambienti politici e militari negli Stati Uniti temono che la rimozione definitiva della minaccia nordcoreana imporrebbe una revisione totale della strategia americana nella penisola.
Per meglio dire, il ristabilimento di relazioni normali e pacifiche tra Washington e Pyongyang aprirebbe un dibattito sulla necessità di mantenere i quasi 30 mila soldati USA in Corea del Sud. Questo contingente, assieme agli armamenti stanziarti nella penisola, risulterebbe a tutti gli effetti superfluo e l’eventuale ritiro, con ogni probabilità anche sull’onda dell’opposizione popolare sudcoreana, metterebbe in discussione lo stesso approccio, finora tutt’altro che pacifico, alla minaccia cinese.
Mentre solo i prossimi sviluppi chiariranno il futuro di negoziati di pace sempre più in affanno, la sensazione diffusa resta quella di un imminente scioglimento dei dubbi e delle contraddizioni che hanno avvolto l’intero processo fin dall’incontro tra Kim e Trump nel mese di giugno. E se i colloqui tra USA e Corea del Nord dovessero naufragare del tutto, il rischio di un conflitto rovinoso si ripresenterebbe rapidamente e in maniera ancora più seria rispetto al periodo che ha preceduto i segnali di disgelo tra i due nemici storici.
- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
La morte per un cancro al cervello di John McCain ha provocato un’ondata quasi unanime di cordoglio tra i politici americani di entrambi gli schieramenti, impegnati, assieme ai media ufficiali, a ricordare la presunta statura morale e l’attaccamento sempre dimostrato ai valori della democrazia dal senatore repubblicano dell’Arizona.
Questo ritratto corrisponde in realtà a un’immagine fortemente distorta dell’ex candidato alla Casa Bianca, la cui carriera politica è stata segnata per intero dall’appoggio incondizionato ai grandi poteri economici e, soprattutto, al militarismo e alle mire imperialistiche degli Stati Uniti.
Buona parte della fama conquistata negli ambienti di potere di Washington, McCain la deve agli oltre cinque anni di prigionia trascorsi in Vietnam, dove nel 1967 venne abbattuto assieme all’aereo che stava pilotando nel corso di un bombardamento. Da questo episodio, nel quadro di una guerra criminale nel paese del sud-est asiatico, deriva il titolo di “eroe di guerra” puntualmente attribuitogli dalla stampa e dai politici negli USA.