Gli sforzi per un dialogo politico in Nicaragua camminano a singhiozzo. Il governo di Daniel Ortega, su richiesta di opposizione, chiesa e industriali aveva dato inizio al tavolo di concertazione, ma gli stessi richiedenti, che dapprima avevano aderito e che poi avevano firmato l’accordo sui termini operativi del dialogo, hanno abbandonato il negoziato.

 

Il governo sandinista non ha posto limiti ai temi in discussione, pur proponendo i punti principali: rafforzamento delle istituzioni di garanzia nel processo elettorale così come concordate con la OEA, giustizia ed indennizzi per le vittime del tentato golpe del 2018, riesame della situazione giuridica degli arrestati e provvedimenti di clemenza, appello agli organismi internazionali contro le sanzioni USA al Nicaragua.

 

 

La gerarchia ecclesiale era stata invitata come testimone ma non più mediatrice; la Conferenza Episcopale è stata la direzione politica del tentato colpo di Stato, dunque sarebbe stata una mediazione ridicola. Invitati a partecipare Monsignor Brenes come presidente della CEN ed il Nunzio Apostolico inviato dal Papa, Waldemar Sommerstag, rimanevano fuori i vescovi Baez, Mata e Alvarez, i tre prelati del golpismo noti per l’odio acerrimo per il governo e l’invito continuo alla guerra nel corso del tentato golpe. Costoro, feriti nel proprio ego ipertrofico e nella loro ansia di fama e di carriera, hanno apertamente criticato e minacciato il Nunzio e l’inutile arcivescovo Brenes ottenendo che la delegazione clericale si ritirasse dalle trattative. Ma su questo terreno potrebbero arrivare delle sorprese.

 

Dopo la chiesa si è ritirata anche la cosiddetta Alleanza Civica, ovvero l’involucro golpista dentro il quale hanno trovato asilo i cachiques del liberalismo e del conservatorismo con il cognome delle famiglie ricche del Paese. L’Alleanza, in effetti, è l’emanazione politica dell'oligarchia nazionale. Nasce su impulso di Miami  perché il desiderio di rimettere le mani sul Nicaragua si sposa bene con quello, identico, degli Stati Uniti.

 

E se per la chiesa la scusa formale per abbandonare il tavolo è stata il non riconoscimento del suo ruolo di mediatrice e l’invito esteso ai rappresentanti della chiese evangeliche in Nicaragua (il 40% dei fedeli cattolici vi aderiscono ndr), per l’Alleanza Civica la motivazione resta quella di sempre: partecipare alla vita politica del Paese comporta rinunciare al sovversivismo e lavorare alla scadenza elettorale del 2021 presentando una proposta politica complessiva, giacché l’odio per il sandinismo e la consegna del paese a Trump non rappresentano un progetto vendibile all’elettorato. Ma qui, proprio qui, sta una buona parte del problema.

 

Gli Stati Uniti hanno la consapevolezza che i loro adepti possono gareggiare ma non vincere, così come avviene in Venezuela; per questo ordinano all’opposizione che non partecipi alla vita politica del Paese, men che mai a trattative con i governi. Perché? L’ultimo esempio lo hanno fornito le elezioni della scorsa settimana nella Costa Caraibica, tradizionalmente zona  non semplice per il sandinismo: il FSLN ha ottenuto oltre il 55% dei voti. Ecco perché la destra golpista valuta sia meglio evitare la sicura sconfitta e provare, con l’assenza, a delegittimare il percorso democratico ed il governo.

 

L’Alleanza Civica ha poi un altro motivo per ritirarsi dalle trattative: l’agenda di lavoro del dialogo nazionale prevedeva anche l’invito alla comunità internazionale ad evitare qualunque sanzione al Paese. Questo gli è sembrato indigeribile, dato che sono proprio i suoi esponenti che si sono genuflessi a Miami e a Washington per ottenere la Nica Act. La destra, del resto, oltre alla storica vocazione entreguista, pensa che solo un indietreggiamento degli indici socio-economici può togliere parte del consenso al FSLN; per questo lavora affinché da Washington si impongano sanzioni ogni giorno maggiori al Nicaragua.

 

C’è poi la questione dei detenuti a seguito del vandalismo golpista che ha scosso il Nicaragua nel 2018. L’Alleanza Civica chiede la liberazione dei terroristi arrestati come conditio sine qua non per trattare sul resto. Ma è una richiesta strumentale alla quale nemmeno loro credono. I cosiddetti “prigionieri politici” sono in realtà persone colte in flagranza di reato o arrestate grazie a testimonianze audio-video e di persone presenti agli episodi di terrorismo.

 

Alcuni sono diretti esecutori ed altri solo partecipanti ai saccheggi, blocchi stradali, incendi di case di sandinisti e di edifici pubblici, sequestri, stupri, uccisioni di 22 agenti di polizia (alcuni di essi bruciati vivi davanti alle barricate) che sono stati l’essenza delle manifestazioni “pacifiche”. Tutte malefatte consumatesi grazie alla disponibilità del governo che per favorire il dialogo aveva accettato la richiesta della chiesa di ritirare la polizia nelle caserme e finiti in coincidenza della fine della pazienza sandinista. Il bilancio finale? Oltre 200 morti e 1800 milioni di dollari di danni all’economia nazionale.

 

Il governo aveva dato disponibilità in sede negoziale ad una revisione giudiziaria dei casi dove i colpevoli già condannati o gli imputati in attesa di processo si fossero limitati alla partecipazione alle manifestazioni violente, chiudendo però le porte ad ogni ipotesi di perdono generalizzato per assassini, torturatori e istigatori. In sostanza, si era detto disposto, parallelamente al castigo per i criminali, ad una revisione dei casi riguardanti chi non si fosse direttamente macchiato le mani di sangue, purché ciò fosse iscritto nell’ambito di un accordo nazionale di riconciliazione e pacificazione nell’interesse supremo del Paese.

 

A questo punto la sorte degli arrestati, fuori dalla conciliazione politica nel seno del dialogo nazionale, resta esclusivamente vincolata alla dimensione giudiziaria. Difficile che le famiglie dei soggetti in questione apprezzino la scelta dell’Alleanza, ma la spiegazione non è difficile: preso atto che i suoi capetti politici e militari non avrebbero avuto sconti nell’esame probatorio e nelle conseguenti sanzioni, l’Alleanza non ha avuto interesse a proseguire per gli altri arrestati. Gridare che sono tutti prigionieri politici significa infatti mettere assassini e stupratori sullo stesso piano dei manifestanti generici, con ciò ottenendo che nessuno riceverà provvedimenti di clemenza, se non quelli autonomamente decisi dal Presidente della Repubblica sulla base delle sue prerogative.

 

Per quanto riguarda la riforma parziale del sistema elettorale e nel rispetto di accordi già precedentemente presi, conscio della subordinazione dell’opposizione alla sua ala più estremista, il governo si era premunito invitando direttamente l’Organizzazione degli Stati Americani ad accompagnare il processo di dialogo in vista delle elezioni del 2021. A questa proposta la OEA ha subito aderito inviando a Managua il suo rappresentante, Luis Angel Rosadilla. In un comunicato congiunto con il governo nicaraguense, l’OEA ha indicato come positivo il confronto, destinato alla ottimizzazione dei meccanismi elettorali ed al consolidamento del sistema democratico nel quadro del dettato costituzionale. L’uscita dell’opposizione e delle gerarchie vaticane dai colloqui rende ora il confronto con la OEA il terreno unico di mediazione del governo sulla materia.

 

Quanto agli imprenditori, continuano nello scontro aperto con il governo perché questo vogliono a Washington e a Miami. E' l'unico caso internazionalmente conosciuto di una confederazione nazionale comandata dall'estero, ma di questo si tratta. Gli imprenditori nicaraguensi (che si ritengono detentori di grandi capitali ma sono microbi nell’economia globalizzata continentale) dovrebbero invece capire il valore del loro ruolo se utilizzato in funzione degli interessi nazionali.

 

Il confronto democratico è il sale della democrazia e il tavolo negoziale è l’unico strumento, oltre il Parlamento, dove poter discutere ciò che va discusso e riformare ciò che va riformato. Alzarsi dal tavolo significa rinunciare alla partecipazione democratica ed al ruolo di responsabilità nazionale che, quando non viene riconosciuto come fondamentale, retrocede l’impresa al ruolo di misero padronato. La speranza di divenire classe dirigente è rimasta sepolta sotto gli adoquines dei blocchi stradali, ricacciandoli nel buco della serratura della solita consegna della patria allo straniero, che è l’essenza della loro visione del sistema-paese.

 

Ad un mese dall’anniversario del tentato colpo di Stato del 2018, il quadro politico è sereno: dialogo o no, in Nicaragua vige la più assoluta tranquillità. Il governo è nel pieno dei suoi poteri e delle sue funzioni; dispone della forza necessaria per tenere in sicurezza il paese ed impedire ogni tentativo golpista, ed è forte del consenso necessario per andare al voto nel 2021 e continuare a vincere.

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