In previsione di una possibile imminente escalation delle provocazioni americane nei confronti del legittimo governo del Venezuela, il presidente americano Trump ha inviato nel fine settimana in Colombia uno degli uomini più coinvolti nelle manovre in corso per provare a forzare il cambio di regime a Caracas, ovvero Marco Rubio. Pur non ricoprendo alcuna carica ufficiale all’interno dell’amministrazione, il senatore repubblicano della Florida è infatti emerso rapidamente come il punto di riferimento della Casa Bianca per l’America Latina, in collaborazione con alcuni membri del gabinetto impegnati a portare le vicende del continente all’attenzione del presidente e in linea con gli interessi degli Stati Uniti.

 

Quello che il New York Times ha recentemente definito come il “segretario di Stato virtuale” dell’amministrazione Trump è probabilmente il principale responsabile dell’accelerazione americana sul Venezuela, apparsa in tutta la sua evidenza con la decisione del 23 gennaio scorso di riconoscere Juan Guaidó come legittimo presidente del paese sudamericano. Gli indizi che portano a Marco Rubio sono stati molteplici negli ultimi due anni e mostrano una capacità sorprendente da parte del senatore repubblicano di esercitare una profonda influenza su un presidente col quale era entrato precocemente in rotta di collisione durante la campagna elettorale del 2016.

 

Il lavoro dietro le quinte di Rubio, con l’appoggio della lobby cubana anti-castrista della Florida, aveva raggiunto il culmine quando, il giorno prima del riconoscimento ufficiale di Guaidó, lo stesso senatore aveva incontrato Trump assieme ai colleghi della Florida Rick Scott, anch’egli senatore, e il deputato cubano-americano Mario Diaz-Balart. La loro visita alla Casa Bianca aveva precisamente lo scopo di finalizzare i dettagli dell’operazione venezuelana, già anticipata pubblicamente qualche giorno prima da un’apparizione video del vice-presidente, Mike Pence.

 

Anche dietro a un’altra dichiarazione di guerra contro la sinistra latinoamericana, quella riassunta nel concetto di “troika della tirannide” (Cuba, Nicaragua, Venezuela) teorizzato dal consigliere per la Sicurezza Nazionale USA, John Bolton, ci sarebbe la mano di Rubio e i suoi sforzi per definire i contorni dell’azione. Fonti interne all’amministrazione sostengono che il senatore cubano-americano abbia conferito direttamente con il presidente almeno una volta al mese sul Venezuela a partire dall’agosto del 2017. Per convincere un Trump inizialmente poco interessato a rimettere in moto le politiche di interferenza nelle vicende interne ai paesi sudamericani, Rubio avrebbe insistito sui sicuri vantaggi in termini elettorali che ne deriverebbero in uno stato determinante come la Florida in vista delle elezioni del 2020.

 

Se la comunità venezuelana residente in Florida è in continua crescita, le manovre che riguardano Caracas sono inoltre collegate a quelle cubane, visti i legami politici tra i due paesi. Proprio su Cuba, d’altronde, Rubio avrebbe ancora spinto con la Casa Bianca per invertire i progressi diplomatici fatti registrare durante la presidenza Obama.

 

Quella di Rubio è comunque un’agenda che spazia a tutto campo per penalizzare i governi che, in maniera reale o ipotetica, minacciano di discostarsi dalla linea di Washington. Il magazine di orientamento “liberal” The New Republic, ha elencato alcuni esempi dell’attività del senatore repubblicano nei mesi scorsi su questo fronte. Ad esempio, Rubio, sfruttando la sua posizione di membro della commissione Esteri del Senato USA, nel maggio del 2018 era stato determinante nella sospensione dei finanziamenti destinati alla speciale commissione anti-corruzione del Guatemala (CICIG) che stava indagando, tra gli altri, sull’ex presidente conservatore Jimmy Morales e alcuni suoi famigliari per frode e corruzione.

 

Qualche mese più tardi aveva poi presentato al Senato una bozza di legge per sospendere gli aiuti americani diretti a El Salvador dopo che il governo di questo paese aveva deciso di ritirare il riconoscimento di Taiwan a favore della Cina. Il suo intervento sarebbe stato decisivo anche nella nomina del cubano-americano ultra-conservatore, nonché lobbista pro-embargo, Mauricio Claver-Carone al Consiglio per la Sicurezza Nazionale con competenze per l’emisfero occidentale. Più recentemente, ancora Rubio avrebbe convinto Trump a rinunciare alla nomina del diplomatico Francisco Palmieri ad ambasciatore USA in Honduras, perché considerato troppo morbido nei confronti dei “nemici” di Washington in America Latina.

 

In parallelo a Marco Rubio, all’interno dell’amministrazione Trump operano altre forze che hanno manovrato per convincere il presidente repubblicano ad abbracciare senza riserve l’impronta neo-conservatrice anche per l’America Latina, dove spesso si traduce in operazioni dirette al cambio di regime, come sta accadendo appunto in Venezuela.

 

Uno dei più stretti alleati di Rubio nel gabinetto Trump è il segretario di Stato, Mike Pompeo, il quale, dopo avere sostituito a inizio 2018 l’ex amministratore delegato di ExxonMobil, Rex Tillerson, ha anch’egli influito in maniera decisiva nel definire i nuovi obiettivi americani oltre il confine meridionale. Già nel suo incarico di direttore della CIA, Pompeo aveva per sua stessa ammissione consigliato insistentemente il presidente sull’opportunità di colpire il Venezuela e il presidente Maduro con sanzioni punitive che avrebbero finito per destabilizzare il paese.

 

Non a caso, già nell’estate del 2017 l’allora ministro degli Esteri venezuelano, Samuel Moncada, aveva accusato Pompeo e la CIA di avere progettato il rovesciamento del governo Maduro. Il ritrovato interesse del dipartimento di Stato americano per il sud del continente sotto la guida di Pompeo è diventato evidente in seguito alle visite che qui lo hanno visto protagonista negli ultimi mesi e ai ripetuti interventi pubblici per definire gli obiettivi dell’amministrazione Trump.

 

L’attenzione di Pompeo si è rivolta in particolare a due questioni relative al Sudamerica, da un lato quella del Venezuela e della guerra al governo legittimo di Nicolas Maduro e, dall’altro, a quella del contrasto all’espansione dell’influenza economica e strategica della Cina nel continente considerato da sempre il “giardino di casa” degli Stati Uniti.

 

I due temi cari al segretario di Stato USA sono in realtà interconnessi e si sono in effetti sovrapposti in svariate occasioni nel corso delle sue recenti trasferte in America Latina. Nel mese di ottobre, ad esempio, al termine di una visita a Panama e in Messico, Pompeo aveva messo in guardia i paesi della regione dall’accettare prestiti e investimenti cinesi, poiché avrebbero portato ben pochi benefici alle rispettive popolazioni.

 

Cina e Venezuela sono state al centro anche dell’incontro di inizio anno tra Pompeo e il neo-presidente brasiliano di estrema destra, Jair Bolsonaro. L’ascesa al potere di quest’ultimo ha garantito un punto d’appoggio fondamentale per le politiche americane in America del Sud, a cominciare proprio da quelle relative al Venezuela. La presenza di Pompeo all’inaugurazione del mandato di Bolsonaro era stata infatti collegata da un comunicato del dipartimento di Stato ai progetti americani per il 2019, caratterizzati da un impulso al “coinvolgimento degli USA nella regione”.

 

In quella circostanza, i colloqui di Pompeo avevano affrontato in maniera esplicita il coordinamento delle azioni per esercitare pressioni sul governo venezuelano. In Perù, in Colombia e, appunto, in Brasile, il segretario di Stato USA aveva chiamato a raccolta gli alleati regionali, gettando le basi della campagna che avrebbe preso il via di lì a qualche settimana con il riconoscimento di Guaidó a presidente del Venezuela.

 

A formulare la politica latinoamericana dell’amministrazione Trump, come già anticipato, è stato ad ogni modo a livello ufficiale il consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton. La teoria della “troika della tirannide” era stata espressa lo scorso autunno in un discorso presso un’università di Miami e riassumeva i punti cardine di una strategia fondata sulla finta promozione di democrazia e diritti umani, dietro a cui continuano a nascondersi le mire predatorie dell’imperialismo a stelle e strisce.

 

La retorica “neo-con” di Bolton richiamava apertamente le battaglie contro il pericolo “comunista” in America Latina dell’epoca reaganiana e, progressivamente, la minaccia di utilizzare contro un governo come quello venezuelano lo strumento delle sanzioni è passata a quella della forza militare, opzione di fatto mai esclusa dall’amministrazione Trump.

 

L’impresa latinoamericana in Venezuela, teoricamente prima tappa di un’offensiva che dovrebbe mirare in seguito quanto meno contro Cuba e Nicaragua, è comunque un affare sostanzialmente bipartisan a Washington. L’ala sinistra del Partito Democratico sta talvolta mostrando sacche di resistenza anche significative, ma la leadership del Congresso ha in larga misura appoggiato le iniziative di Trump, con personalità come Nancy Pelosi o il senatore del New Jersey Robert Menendez in prima linea nel promuovere la campagna anti-Maduro, sia pure esprimendo una certa prudenza nei confronti dell’opzione militare.

 

Se Rubio, Pompeo, Bolton e lo stesso vice-presidente Pence sono i principali manovratori della politica latinoamericana della Casa Bianca e, nello specifico, dello sforzo per il rovesciamento del legittimo governo venezuelano, l’esecutore prescelto dalla galassia “neo-con” a cui essi fanno riferimento è una delle personalità più compromesse con i crimini commessi dagli Stati Uniti nel continente durante gli anni della Guerra Fredda.

 

Proprio il segretario di Stato USA aveva nominato lo scorso mese di gennaio Elliot Abrams come inviato speciale del presidente per il Venezuela, con l’incarico ufficiale di “ristabilire la democrazia” a Caracas. Il curriculum di Abrams la dice lunga sulle intenzioni di Washington, dal momento che, sotto la presidenza Reagan, svolse in sostanza il ruolo di difensore degli abusi e delle stragi compiute in America centrale dalle forze sostenute dal suo paese, assieme a quello di reperire i fondi necessari al loro finanziamento.

 

Dal Nicaragua al Guatemala a El Salvador, l’impronta lasciata da Elliot Abrams consiste in una striscia di sangue, dissimulata di fronte alle domande della stampa e del Congresso da una facciata ufficiale fatta di menzogne e retorica umanitaria. Anche in un paese quasi sempre pronto a difendere i membri della propria classe dirigente, Abrams non sfuggì alla giustizia, visto che venne condannato per avere mentito sulla vicenda “Iran-Contra”, prima di ricevere la grazia dal presidente George H. W. Bush.

 

La scelta di Elliot Abrams serve infine a cementare ancora di più la conformità di vedute tra l’establishment tradizionale del Partito Repubblicano, riassunto nella definizione di “neo-con”, e un presidente Trump che era e continua a essere visto con sospetto soprattutto per le sue tendenze a perseguire una politica di relativo disimpegno in politica estera e, in particolare, sul fronte latinoamericano.

 

Non solo, i precedenti di Abrams proprio in Venezuela rappresentano una garanzia per i disegni golpisti della Casa Bianca. Come aveva riportato la stampa britannica nel 2002, l’ex membro dell’amministrazione Reagan fu infatti la “figura chiave” del fallito colpo di stato militare orchestrato dagli Stati Uniti in quell’anno contro l’allora presidente democraticamente eletto, Hugo Chavez.

Sotto il sole impietoso di Miami, al cospetto di un pubblico di origine latina residente in Florida, ovvero ogni avanzo di ogni dittatura e di fuggiaschi di ogni democrazia, il presidente statunitense, Donald Trump, ha pronunciato un discorso apparso come una chiamata alle armi all’ultra conservatorismo americano.

 

Dopo aver omaggiato i portatori di voti locali, i senatori della Florida Marco Rubio e Rick Scott, il congressista Mario Díaz-Balart, l’ambasciatore presso l’OSA Carlos Trujillos e il suo consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, Trump si è lanciato in una intemerata contro i paesi progressisti latinoamericani.

Il previsto annuncio della seconda candidatura alla Casa Bianca del 77enne senatore “democratico-socialista”, Bernie Sanders, è stato accolto questa settimana da un entusiasmo diffuso negli ambienti progressisti americani e della sinistra del partito di opposizione a Washington. Nell’immaginario di milioni di elettori, Sanders è infatti portatore di un messaggio di cambiamento relativamente radicale che, pur apparendo tale solo in confronto alla realtà politica ufficiale degli Stati Uniti, trova terreno fertile in un clima sociale incandescente e segnato dalla crescente opposizione alla deriva neo-fascista dell’amministrazione Trump.

 

Questi fattori che caratterizzano il panorama americano sono determinanti per comprendere sia il ruolo della nascente candidatura alla presidenza di Sanders sia le sue possibilità di aggiudicarsi le primarie democratiche ed, eventualmente, di conquistare l’ingresso alla Casa Bianca.

La dichiarazione di emergenza proclamata dal presidente americano Trump per iniziare la costruzione del muro di confine con il Messico, utilizzando fondi federali destinati ad altre voci di spesa, ha come previsto innescato una serie di cause legali per bloccare l’iniziativa chiaramente anti-costituzionale della Casa Bianca. L’azione più significativa è stata intrapresa finora da un gruppo di 16 stati americani, i quali sostengono correttamente come non ci sia alcuna reale emergenza migratoria nel sud degli Stati Uniti e, soprattutto, che il presidente non ha alcuna autorità per utilizzare a propria discrezione denaro stanziato dal Congresso per scopi ben definiti e già fissati per legge.

Da una settimana a questa parte, la popolazione di un paese latinoamericano sta manifestando in massa contro la corruzione del governo e le condizioni di vita disperate in cui la maggior parte di essa è costretta a vivere. Questo paese non è il Venezuela, dove si stanno concentrando le attenzioni dei media occidentali in seguito alle mire golpiste di Washington, bensì Haiti. Se le proteste che hanno paralizzato l’isola appaiono in questo caso più che legittime, le azioni dei suoi abitanti hanno incontrato finora il disinteresse o, più spesso, l’ostilità di tutte le potenze internazionali.

 

Anche in un paese abituato come pochi al caos e all’instabilità, gli eventi di questi giorni appaiono eccezionali. I resoconti dei media locali parlano di dimostrazioni che stanno bloccando le principali arterie stradali, mettendo in ginocchio sia la capitale, Port-au-Prince, sia le altre principali città e, in particolare, i dipartimenti del nord-est e del nord-ovest del più povero dei paesi dell’emisfero occidentale. Le proteste sono dirette in primo luogo contro il presidente, Jovenel Moïse, ma hanno preso in fretta una forma più ampia ed esprimono la rabbia della popolazione per le disuguaglianze sociali esplosive, la corruzione dilagante e un livello di inflazione che rende la vita impossibile.

 

Dall’inizio della rivolta il 7 febbraio scorso, si contano almeno una decina di morti negli scontri tra manifestanti e forze di polizia. A Port-au-Prince, queste ultime hanno più volte impedito con la forza alla folla di marciare verso il palazzo presidenziale. Le tensioni sono ingigantite proprio dalla violenza della polizia, a cui lo stesso presidente haitiano ha fatto appello lo scorso fine settimana per cercare di reprimere rapidamente le proteste.

 

Il pugno di ferro non ha tuttavia fermato la mobilitazione e alcuni giornali dell’isola hanno rivelato che membri del partito di governo PHTK avrebbero lasciato con elicotteri le loro abitazioni nel quartiere dei ricchi, Pétionville, per dirigersi verso l’aeroporto della capitale e lasciare almeno temporaneamente il paese.

 

Con il persistere delle manifestazioni e dei blocchi stradali, cibo, medicinali e altri beni di prima necessità iniziano a scarseggiare nei negozi di Haiti. Banche, supermercati, stazioni di servizio sono state assaltate e date alle fiamme, mentre scuole, trasporti e molti servizi pubblici risultano sospesi.

 

L’accusa principale mossa contro il presidente Moïse è di essere implicato nello scandalo dell’appropriazione indebita di un prestito da 4 miliardi di dollari a Haiti nel quadro del programma PetroCaribe, promosso dal Venezuela per fornire petrolio ad alcuni paesi dell’America Latina a condizioni di favore. Le richieste di dimissioni erano già sfociate in proteste di piazza lo scorso mese di novembre e a luglio, invece, sempre a causa di massicce manifestazioni popolari il governo era stato costretto a ritirare un provvedimento che avrebbe aumentato il prezzo dei carburanti.

 

L’avversione nei confronti di Jovenel Moïse a Haiti va fatta risalire anche ai contorni della sua elezione alla presidenza nel novembre del 2016. Il voto aveva subito un ritardo di settimane a causa di un devastante uragano che aveva colpito l’isola e, con probabilmente centinaia di migliaia di elettori dei quartieri più poveri impossibilitati a recarsi alle urne dopo che avevano perso i loro documenti nel disastro, Moïse era stato eletto al primo turno nonostante un’affluenza inferiore al 20% e una quota di consensi pari a poco più del 5% degli aventi diritto.

 

Le accuse di brogli erano state inoltre numerose, ma la “comunità internazionale”, a cominciare dagli Stati Uniti, aveva ratificato il risultato perché, in definitiva, Moïse era il candidato preferito per mantenere il proprio controllo su Haiti. L’attuale presidente, in larga misura sconosciuto dagli elettori prima della sua candidatura, era una creatura del suo predecessore, l’ex cantante Michel Martelly, anch’egli punto di riferimento degli interessi americani e del business indigeno e internazionale sull’isola caraibica.

 

Martelly, da sempre simpatizzante della dittatura sanguinaria dei Duvalier, al potere fino al 1986, aveva a lungo governato per decreto nel 2015 dopo lo scioglimento del parlamento haitiano. Alla fine dello stesso anno aveva poi presieduto a un’elezione presidenziale manipolata che, al primo turno, aveva visto vincitore lo stesso Jovenel Moïse. Il ballottaggio sarebbe stato poi annullato in seguito al boicottaggio del candidato dell’opposizione, Jude Célestin, in seguito nuovamente sconfitto dal protetto di Martelly.

 

Come ha scritto in questi giorni la giornalista indipendente americana Whitney Webb, il presidente in carica Moïse e Michel Martelly sono al vertice di un sistema “neo-Duvalierista” a Haiti che fa della corruzione, dell’autoritarismo, della collusione con Washington e con il capitalismo domestico e internazionale la propria ragione di esistenza. Questa struttura di potere oligarchica e anti-democratica non è che l’espressione dell’interventismo di lunga data statunitense sull’isola, i cui tratti inconfondibili sono stati e continuano a essere lo sfruttamento della popolazione e l’impoverimento di massa in una sorta di “esperimento neo-liberista” diretto dal dipartimento di Stato e implementato da una ristretta classe dirigente indigena ultra-corrotta.

 

Mentre il governo americano lamenta in queste settimane l’elezione “irregolare” del presidente Maduro in Venezuela, le presidenziali haitiane del 2010 furono un esempio emblematico delle modalità con cui Washington orienta a proprio piacimento i processi “democratici” di paesi teoricamente sovrani. Ancor più del voto del 2015 e di quello dell’anno successivo, le elezioni del 2010 videro un vero e proprio intervento diretto del segretario di Stato USA, all’epoca Hillary Clinton, per imporre Michel Martelly alla presidenza.

 

Il candidato della famiglia Clinton non si era in realtà nemmeno qualificato per il secondo turno, ma le manovre americane, condotte sotto la minaccia di privare Haiti di aiuti internazionali di importanza vitale, determinarono un cambiamento dei risultati. Martelly venne così spinto al ballottaggio che si sarebbe in seguito aggiudicato, diventando presidente e garantendo gli interessi del governo USA e del clan Clinton sull’isola.

 

Com’era prevedibile, la risposta della comunità internazionale ai fatti di Haiti di questi giorni si è persa in gran parte nel clamore degli eventi del vicino Venezuela. Un gruppo che riunisce le Nazioni Unite, alcuni paesi europei e del continente americano (“Core Group) ha emesso un comunicato ufficiale che condanna gli scontri e, in maniera involontariamente auto-ironica, afferma la necessità di perseguire il cambiamento “attraverso elezioni e non con la violenza”. Questa presa di posizione appare un atto d’accusa formidabile proprio contro coloro che l’hanno assunta, visto che le elezioni che vengono invocate come soluzione alla crisi in atto sono state in passato lo strumento con cui soprattutto gli Stati Uniti hanno deciso la sorte di Haiti.

 

Non solo, quando il voto liberamente espresso dagli abitanti dell’isola non ha dato i risultati auspicati a Washington, l’intervento americano è stato fermo e decisivo. Testimonianza di ciò è il già ricordato secondo turno delle presidenziali del 2010, ma anche la deposizione in due occasioni, per mezzo di altrettanti colpi di stato nel 1991 e 2004, del presidente democraticamente eletto e di orientamento progressista, Jean-Betrand Aristide.

 

Per quanto riguarda la protesta in corso, a fronte di una mobilitazione popolare che appare spontanea, l’opposizione politica haitiana sta cercando chiaramente di incanalarla nel quadro parlamentare e, in definitiva, di spegnere le richieste di cambiamento radicale. Quasi unanime è comunque il coro che chiede le dimissioni del presidente Moïse, il quale ha cancellato in questi giorni un viaggio a Roma dove avrebbe dovuto partecipare al forum del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo presso la sede della FAO.

 

Se la rivolta a Haiti dovesse prendere questa piega e, alla fine, rientrare, lo scenario che emergerà appare simile a quello ipotizzato dall’economista haitiano, Eddy Labossière, intervistato questa settimana da una testata locale. Jovenel Moïse,cioè, finirà per “dimettersi, i politici tradizionali riprenderanno il potere e verrà mantenuto lo status quo. Il ‘Core Group’ vince, l’oligarchia rafforza il suo potere, le privatizzazioni proseguono e il popolo continua a sprofondare nella miseria”.


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