Sul Venezuela, l’inganno mediatico si fa epidemico. Bugie, mistificazioni,omissioni e verità offuscate con l’aggiunta di censura vera e propria sulle notizie che hanno direttamente a che vedere con la situazione interna ed internazionale. Lasciamo da parte per un momento l’attribuzione di aggettivi quali “dittatura”, “regime” distribuiti a man bassa nei confronti del governo legittimo di Maduro, occultando che il chavismo dal 1998 ad oggi tra elezioni e referendum revocatori ha chiamato alle urne il Venezuela per 21 volte, perdendone tre e vincendone 18. Strana dittatura no? Da qui si parte per denunciare la manipolazione costante, continuata ed uniforme, che i nostri pennivendoli con l’elmetto utilizzano quotidianamente.

A pochi giorni da un vertice cruciale per gli esiti della guerra commerciale in atto tra Cina e Stati Uniti, entrambi i paesi hanno provato a inviare qualche segnale distensivo che dovrebbe fare intravedere un possibile accordo in grado di evitare l’escalation dello scontro. Le divergenze restano però considerevoli e, nel concreto, sono in pochi a vedere progressi significativi sulle questioni “strutturali” che Washington intende continuare a sollevare con la leadership di Pechino.

Un colpo di stato è in corso in queste ore a Caracas. E’ il secondo dopo quello fallito nel 2002, da quando il Venezuela è uscito dal reame USA. Come nella tradizione della politica statunitense nelle sue relazioni con l’America Latina, il golpe appare lo sbocco dell’impotenza USA nel gioco democratico. E se nel 2002 il fantoccio prescelto fu il leader dell’organizzazione dell’industria privata, Carmona, stavolta hanno scelto Guaido.

 

Chi è? E’ il presidente di un Parlamento scaduto da un anno, un vanitoso ragazzotto pieno di ambizioni ma povero in intelligenza politica e zero assoluto in leadership che si è esibito in piazza con uno show nel quale si è autoproclamato presidente, salvo poi correre a rifugiarsi nell’ambasciata colombiana a Caracas. Uomo di grande coraggio, insomma.

Allo scoccare del 32esimo giorno di chiusura forzata di una parte degli uffici federali americani, le prospettive per la risoluzione della crisi politica in atto negli Stati Uniti attorno al cosiddetto “shutdown” continuano a scontrarsi con le posizioni ancora inconciliabili della Casa Bianca e della leadership democratica al Congresso.

 

Malgrado i toni dello scontro, è fondamentale premettere che tra democratici e repubblicani esiste un sostanziale accordo sull’implementazione di politiche migratorie rigorose e volte a ridurre drasticamente ingressi e richieste di asilo. Le divergenze che stanno impedendo un’intesa sul finanziamento del bilancio federale hanno a che fare piuttosto e in larga misura, per quanto riguarda il presidente Trump, con il bisogno di compiacere la propria base elettorale ultra-reazionaria e, sul fronte democratico, con la necessità di evitare l’accostamento del partito alla eventuale costruzione di un muro al confine con il Messico.

Una nuova serie di attacchi missilistici condotti da Israele tra domenica e lunedì in territorio siriano rischia di infiammare ancora una volta il conflitto nel paese e di allargare pericolosamente il fronte di guerra in Medio Oriente. Jet e missili israeliani hanno infatti colpito obiettivi presumibilmente legati alla presenza militare dell’Iran in Siria, ma più che nella presunta minaccia di quest’ultima per lo stato ebraico, i veri motivi dell’operazione vanno ricercati nelle dinamiche politiche interne a Tel Aviv e, ancor più, in quelle strategiche regionali prodotte dalla decisione dell’amministrazione Trump sul relativo disimpegno americano dal conflitto in corso.


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