L’approccio del governo americano alla questione iraniana continua ad apparire contraddittorio e privo di chiarezza, con posizioni almeno apparentemente distanti tra gli esponenti dell’amministrazione Trump e lo stesso presidente. Dopo l’escalation di tensioni delle ultime settimane, infatti, la guerra di nervi tra Washington e Teheran ha fatto segnare in questi giorni un relativo allentamento, in larga misura seguito alle prese di posizione decisamente più caute da parte dell’inquilino della Casa Bianca.

 

Analisti e commentatori negli USA si stanno chiedendo se quello che sembra un divario sempre più ampio sull’Iran tra Trump e, ad esempio, il suo consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, sia effettivamente il riflesso di politiche e attitudini opposte. La volubilità di Trump e, di fatto, la sua impreparazione e il disinteresse per le sfumature delle relazioni internazionali rendono comunque arduo il compito di decifrare la realtà all’interno dell’amministrazione repubblicana.

 

Mercoledì, comunque, Bolton è tornato a puntare il dito contro la Repubblica Islamica. Proveniente dal Giappone, dove aveva accompagnato Trump nella sua visita ufficiale, l’ex ambasciatore USA alle Nazioni Unite è giunto negli Emirati Arabi, dove ha affermato, rigorosamente senza presentare alcuna prova, che i presunti attacchi del 12 maggio scorso contro alcune petroliere nel Golfo Persico erano stati “quasi certamente” opera dell’Iran. Con una logica impeccabile, Bolton si è chiesto in maniera retorica chi altro avrebbe potuto condurre un’operazione del genere se non Teheran. Non certo, secondo le sue parole, “qualcuno dal Nepal”. Bolton ha poi accusato l’Iran di avere progettato anche una precedente operazione di sabotaggio, di cui non si era avuta finora notizia, contro il porto petrolifero di Yanbu, affacciato sul Mar Rosso, in Arabia Saudita.

 

Allo stesso tempo, Bolton ha però anche evitato di alimentare nuove tensioni, assicurando che gli Stati Uniti non stanno pianificando alcuna operazione militare in risposta agli attacchi attribuiti arbitrariamente all’Iran. Nelle settimane precedenti, invece, erano giunte nuove forze militari USA in Medio Oriente, mentre il Pentagono aveva presentato piani di “difesa” contro la presunta minaccia iraniana che includevano anche l’ipotesi di un contingente di 120 mila uomini. In molti hanno collegato la nuova attitudine relativamente moderata del consigliere di Trump alla sorta di richiamo fatto dal presidente nei suoi confronti durante la recente trasferta in Giappone.

 

Trump aveva indirettamente smentito Bolton con una dichiarazione nella quale spiegava di non essere interessato al cambio di regime a Teheran. A suo dire, la Repubblica Islamica avrebbe la possibilità di “essere un grande paese anche con l’attuale leadership”. Trump, in definitiva, spiegava di volere soltanto la rinuncia alle armi nucleari da parte iraniana, cosa che, peraltro, il governo di questo paese non ha mai cercato e ha più volte escluso in modo ufficiale.

 

Singolarmente, le posizioni espresse almeno a parole da Trump in Giappone sull’Iran sembrano ricordare quelle che guidarono la politica dell’amministrazione Obama durante il secondo mandato e che sfociarono nell’accordo di Vienna sul nucleare (JCPOA), boicottato nel maggio 2018 dall’attuale presidente. La strategia abbracciata da Obama avrebbe dovuto essere quella di offrire un qualche incentivo alla leadership iraniana per cercare di innescare un riallineamento strategico favorevole a Washington da parte del paese mediorientale.

 

Che l’attuale presidente USA intenda andare in questa direzione è ancora tutto da dimostrare e, anzi, le indicazioni in questo senso sono per ora quasi inesistenti. Trump e gli ambienti populisti di estrema destra che appoggiano la sua amministrazione sono comunque inclini al disimpegno internazionale e non deve sorprendere più di tanto che rappresentino uno schieramento per certi versi opposto a quello dei falchi interventisti “neo-con” che fanno capo principalmente a Bolton e al segretario di Stato, Mike Pompeo.

 

La voce del consigliere per la Sicurezza Nazionale continua ad ogni modo a essere sostanzialmente radicale sul fronte iraniano. Tanto che qualcuno gli assegnerebbe un ruolo di provocatore ad hoc, non solo nei confronti di Teheran. La sua utilità per Trump, con il quale sembra avere un rapporto personale non esattamente idilliaco, sarebbe cioè precisamente quella di generare tensioni e ostilità con paesi rivali, in modo da aprire inaspettati spazi di manovra allo stesso presidente, nei quali quest’ultimo possa muoversi tra tentativi di diplomazia e linea dura.

 

Dietro a John Bolton e, più in generale, alle politiche anti-iraniane di Washington ci sono tuttavia fortissimi e influenti interessi – economici e non solo – che spingono per un continuo aumento delle tensioni, se non un aperto confronto militare. Bolton è infatti sponsorizzato in primo luogo dal miliardario americano Sheldon Adelson, finanziatore di spicco del Partito Repubblicano e irriducibile sostenitore dello stato e delle politiche di Israele.

 

La chiusura di ogni possibilità di dialogo con l’Iran, al di là delle intenzioni di Trump, è appoggiata anche dall’industria militare americana. Come ha raccontato un recente articolo della pubblicazione on-line The Intercept, i vertici di numerose compagnie che operano nel settore della difesa si stanno da qualche tempo muovendo con i loro investitori per presentare le occasioni di profitto all’orizzonte e, in molti casi, già concretizzate, derivanti dall’impulso alla militarizzazione prodotto appunto dallo scontro crescente tra Washington e Teheran.

 

Questi colossi dell’industria militare non sono oltretutto spettatori impotenti di fronte al possibile precipitare della situazione in Medio Oriente come altrove, ma operano spesso dietro le quinte attraverso intense attività di “lobbying” che contribuiscono ad aumentare il rischio di una guerra rovinosa.

 

Di fatto a sostegno di simili manovre operano infine anche i media “mainstream” americani, inclusi quelli nominalmente liberal, come New York Times e Washington Post. Se l’accelerazione anti-iraniana della Casa Bianca viene talvolta presentata come una scelta altamente rischiosa per la stabilità del Medio Oriente, è altrettanto vero che, quasi sempre, è l’Iran, e non gli Stati Uniti, a venire rappresentato come una minaccia alla pace e, tutto sommato, sempre sul punto di riavviare un programma nucleare militare che, al contrario, non è invece mai esistito né è in nessun modo nei piani futuri della leadership di questo paese.

Con un voto a larghissima maggioranza, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite questa settimana ha inflitto una pesante umiliazione alla Gran Bretagna, stabilendo l’illegalità del possesso di questo paese sull’arcipelago delle Chagos, nell’Oceano Indiano. La storia di queste isole è una delle pagine più cruente e vergognose del colonialismo britannico e, nel corso dei decenni, si è sovrapposta ai crimini e alle prevaricazioni dell’imperialismo americano, con conseguenze tragiche per quelli che ne costituivano la popolazione indigena.

Dopo l’ennesimo successo incassato nelle elezioni di aprile, il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu si appresta ad attuare il primo e per lui più importante punto della sua agenda politica. Il provvedimento non riguarda però la questione palestinese, l’economia o le disuguaglianze esplosive del suo paese, bensì una misura che, se approvata, gli garantirebbe di fatto la totale immunità dai gravissimi guai legali in cui è invischiato da tempo.

 

Il primo ministro era stato formalmente incriminato lo scorso febbraio in seguito alla chiusura delle indagini degli inquirenti e alla decisione del procuratore generale, Avichai Mandelblit, di dare il via libera al procedimento nei suoi confronti. I casi aperti contro Netanyahu sono tre, identificati dalle sigle 1000, 2000 e 4000, e le accuse sono di abuso d’ufficio, corruzione e concussione.

Con la sostanziale proscrizione del gigante cinese Huawei, il governo americano ha impresso una drastica accelerazione allo scontro in atto ormai quasi a tutto campo con Pechino. Dopo l’aumento dei dazi sulle merci cinesi, deciso in seguito allo stallo dei negoziati commerciali, l’amministrazione Trump ha piazzato su una “lista nera commerciale” la compagnia di Shenzhen, assestandole teoricamente un colpo quasi mortale ma, allo stesso tempo, innescando una possibile controffensiva che minaccia di produrre conseguenze negative proprio per gli Stati Uniti e le loro aziende tecnologiche.

 

Dopo la mossa di Trump, esperti e commentatori di tutto il mondo si sono interrogati sugli effetti del bando emesso a Washington contro Huawei. Lo stop di Google alla condivisione degli aggiornamenti del sistema operativo Android installato sui dispositivi Huawei, assieme al mancato accesso alle applicazioni disponibili tramite il proprio “store” (“Google Play”), rischia di mettere la compagnia cinese in una posizione di netto svantaggio rispetto alle dirette concorrenti, da Samsung a Apple. L’altro riflesso della decisione presa dalla Casa Bianca è la fine delle forniture di microchip assicurate a Huawei da aziende americane come Intel, Broadcom e Qualcomm.

La realistica metafora della Francia attuale è la Cattedrale di Notre Dame che va a fuoco. Un incendio dalle dimensioni gigantesche che ne ha compromesso per sempre la struttura originaria. E a fuoco, da mesi, vanno anche gli Champ Elysees e tante altre piazze di Francia, colpita al cuore della sua indiscussa solidità da un movimento popolare che ne mina seriamente la sorte.

 

A ondate cicliche, chaque samedi, decine di migliaia di persone invadono il centro della capitale. Sono gli esclusi dal nuovo rinascimento francese. Le vittime sacrificali della ristrutturazione in modalità V Repubblica. Sono i Gilet Gialli.

 

Un “fenomeno” che racchiude in sé molti degli elementi drammatici del capitalismo odierno. Del mercato che fabbrica benessere e ne estromette chi lo produce e che si trova intrappolato tra promesse disattese e precarietà, tra passato ingannevole e futuro liquido. Le speranze riposte nell’ennesima falsa novità, rappresentata da Emmanuel Macron, hanno presto mostrato tutti i limiti di una proposta che di inedito aveva soltanto i tempi con cui si sarebbe rivelato in tutta la sua consuetudinaria modalità. E cioè quella di schiacciare ancora di più i ceti medio-bassi della società sulla soglia della sopravvivenza.

 

Ricette economiche di stretta osservanza neoliberista spacciate per capolavori di welfare state. Un programma posticcio, al quale una consistente fetta di quei settori popolari che ne stanno pagando le amare conseguenze ha tirato giù la maschera. Una protesta decisa, determinata e violenta, come le misure e i decreti che l’hanno causata. Come la risposta repressiva che ne è seguita.

 

La trionfante entrata in scena di En Marche non ha mancato di raccogliere entusiastici consensi al di qua delle Alpi. Da sinistra a destra, ecumenicamente, rimarcando l’abituale provincialità del nostro panorama politico. Tutti a ribadirne la vicinanza e l’affinità, così come, sfumatura più sfumatura meno, avvenne con la elezione di Trump.

 

La rivolta dei gilets jaunes evidenzia anche la vaporizzazione di quella Sinistra che ha scelto l’abiura delle proprie origini per abbracciare un tiepido e insipido progetto di “socialdemocrazia”. Il “nuovo che avanza” nasconde sempre la muffa della conservazione. Declinata a seconda delle latitudini, e quindi delle convenienze, la modernità assume le forme più disparate: post-ideologia, populismo, democrazia digitale, sovranismo, suprematismo. E via di questo scempio. Alla base però, c’è lo stesso principio che da secoli contraddistingue l’ordinamento dell’Occidente e di gran parte di questo pianeta: lo sfruttamento di risorse umane e naturali per il profitto.

 

L’Europa é unita sulle diseguaglianze e su un modello di sviluppo ad excludendum. La continua, e magari anche sincera, esortazione al rispetto dei diritti umani, occulta l’incapacità di ostacolare seriamente xenofobia e razzismo in tutta Europa, sperando forse nel loro dissolvimento a forza di proclami e dichiarazioni. Retoriche e demagogiche almeno quanto quelle dei rampanti leader populisti-sovranisti-postideologici che raschiano il fondo del barile del Novecento per rilanciare il totalitarismo del terzo millennio.

 

Tenuto in vita dalla gelosa salvaguardia dei confini dinanzi alla inarrestabile invasione straniera. Una retorica da Prima Guerra Mondiale; interventista, colonialista, nella dimensione “senza frontiere” della Unione Europea. Con l’estrema destra tollerata al punto da far gola al monolite liberal-democratico e alle cosiddette realtà post-ideologiche per promuovere in tutta tranquillità politiche repressive e liberticide.

 

La periferia sociale dunque, privata di tutti quei diritti di cui mena vanto Macron e la UE, che assedia il centro per riprendersi quanto le è stato illegittimamente tolto, è teppismo, delinquenza comune; nel migliore dei casi una frustrazione esistenziale. Magari per non essere all’altezza degli sfavillanti paradisi che il capitalismo promette.

Sarebbe sufficiente sottomettersi alle rigide e indiscutibili regole della sua religione, adorare il dio della crescita infinita e pregare affinché un refolo di speranza li sfiori.

 

Contrastare quindi la ineluttabilità di un sistema infallibile che da sempre alimenta la Storia, è innanzitutto una eresia. E come tale va combattuta, sradicando il demonio della giustizia sociale che attecchisce la comunità. A questa evangelizzazione perenne, a questa costante riscrittura dei dogmi che delimitano le insormontabili linee tra ricchezza e povertà, non pensa di sottrarsi la sinistra affascinata dal neoliberismo.

 

I motivi, le istanze, gli obiettivi di un movimento composito ed eterogeneo come quello dei GJ, sono stati volutamente ignorati dalle istituzioni francesi, nonché male interpretati dalla maggior parte dei mezzi d’informazione, offrendo all’opinione pubblica una dimensione da guerra civile.

 

Brodaglia mediatica che regala rassicurazioni e falsi miti. Gli stessi ingredienti che condiscono le pietanze imperialiste dall’altra parte dell’oceano, dove la geometria variabile della politica e dell’informazione ad essa fideisticamente legata, sovverte completamente i parametri di giudizio nel caso del Venezuela e del Nicaragua, per riportare esempi contemporanei alle vicende transalpine.

 

Le ondate eversive che hanno messo a ferro e fuoco questi due paesi, cercando di ribaltare amministrazioni legittimamente scelte in libere elezioni, ricevono consenso e sostegno dalla maggioranza delle potenze occidentali. Le stesse che non hanno perso tempo a deplorare censurare e reprimere le proteste francesi. La realpolitik fa terra bruciata di ogni logica e onestà intellettuale. Se un colpo di stato può risultare efficace per annientare processi di reale democrazia e di redistribuzione delle ricchezze, se ne perora la causa.

 

È successo così negli anni Sessanta e Settanta, con le dittature militari che insanguinarono il continente latinoamericano. Con il criminale sodalizio della Triple A - Alianza Americana Anticomunista che ha dato origine a un secondo olocausto. Con la Operación Condor che ha seminato morte e disperazione, aggiungendo al dizionario delle atrocità un termine fino allora sconosciuto: la desaparición.

 

La versione golpista di questo scorcio di millennio è adeguata a questi complicati tempi, affine ai nuovi equilibri geo-strategici che si sono consolidati negli ultimi anni. Dalla caduta del blocco socialista fino all’insediamento alla Casa Bianca di una rivisitazione in chiave moderna della Dottrina Monroe, teoria a vocazione colonialista per l’insaziabile voracità nell’accaparrarsi le ricchezze naturali.

 

Il Venezuela è ricco di petrolio e, soprattutto, ha deciso che i suoi benefici vanno alla popolazione, e non devono essere offerti in sacrificio al dio mercato. Blasfemia insopportabile per gli officianti della religione neoliberista, da punire strangolando il paese con tutti i mezzi a disposizione; economici, finanziari, militari, mediatici.

 

Si rintana la diplomazia in un angolo buio, fino a quando un casus belli ben costruito e architettato non offra l’opzione dell’intervento armato. Lo sciopero cileno dei camionisti che mise alle corde l’esperimento di Unidad Popular di Salvador Allende, si riaffaccia oggi in forma più raffinata e sotterranea. I governi di Nicolás Maduro e Daniel Ortega subiscono un attacco concentrico di sabotaggio politico e informativo.

 

I social network interpretano un ruolo da protagonista in questo abisso della democrazia. Sono al tempo stesso veicolo di falsa informazione e micidiale chiamata alle armi. Versione perfezionata delle cosiddette rivoluzioni arancioni, che hanno sbaragliato il “vecchio” per ripristinare la restaurazione.

 

Rispolverando pratiche e simbologie naziste, anche queste tollerate dalla Comunità Europea, incapace della minima attività diplomatica per non disturbare il gigante USA. Che nel frattempo torna a mostrare gli artigli nel subcontinente, avvalendosi di operazioni sporche come quella che ha incarcerato Lula e permesso l’elezione di una tetra figura come Bolsonaro. L’autoproclamazione di Guaidó in Venezuela e la violenza eversiva scatenatasi in Nicaragua, sono due facce dello stesso golpe.

 

Paesi scomodi e incasellabili nello scacchiere del neocolonialismo. Troppo avversi agli interessi degli USA, troppo vicini e solidali con Cuba. Quindi, meritevoli di punizione per lesa autocrazia. Per aver intrapreso un cammino di emancipazione politica economica, culturale. Di autodeterminazione. Una buona parte della sinistra, salottiera o fintamente radicale, si accomoda sulla rappresentazione macchiettistica delle “dittature latinoamericane” come sulle furia distruttrice dei Gilet Jaunes. A spaventare sono invece le risposte ultra-repressive delle forze dell’ordine in Francia e il vandalismo di fasce minoritarie di popolazione in Venezuela e Nicaragua.

 

Autoproclamatesi opposizione e armate fino ai denti, le guarimbas e i tranques. Sperano che i rispettivi eserciti sparino su persone inermi come in qualsiasi colpo di stato che si rispetti. Una attesa vana: le forze armate, nate dalla Rivoluzione Sandinista e Bolivariana, hanno giurato sulla Costituzione e non sparano sul proprio popolo.

 

Piuttosto lo difendono da chi vorrebbe bruciarla. Macabri personaggi inseriti nell’establishment mondiale della sopraffazione, professionisti della destabilizzazione e del terrore. Mercenari dell’odio e della barbarie, con equipaggiamento da guerrafondai sotto impeccabili abiti neri, come la loro anima di eterni conquistatori.


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