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- Scritto da Fabrizio Casari
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L’Onu lo ha definito un “successo storico” che apre la strada alla prossima Conferenza Nazionale ma, più prosaicamente, è probabile che l’ottimismo sia figlio della paternità Onu della Conferenza sulla Libia; la quale però, anche in considerazione dell’assenza di un documento conclusivo, può ben essere definita una parata dalle prospettive incerte. D’altronde, che l’esito non sarebbe stato particolarmente positivo era chiaro a tutti; non a caso i capi di governo occidentali si sono tenuti a debita distanza ed hanno delegato ai rispettivi sherpa la costruzione del percorso che avrà bisogno di diverso tempo per divenire un accordo (ammesso che ciò avvenga).
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- Scritto da Mario Lombardo
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Sul complicato processo di pace in atto nella penisola di Corea continua a pesare non solo la duplicità dell’amministrazione Trump, ma anche e forse ancora di più i tentativi degli oppositori della Casa Bianca di boicottare un negoziato che ha implicazioni delicatissime per la posizione strategica degli Stati Uniti in Asia orientale.
A dare voce a quelle sezioni dell’apparato di potere americano che vedono con sospetto le aperture di Trump al leader nordcoreano, Kim Jong-un, è stato questa settimana ancora una volta il New York Times, con un articolo che è sembrato ricordare per certi versi la vergognosa campagna mediatica sulle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che precedette l’invasione dell’Iraq nel 2003.
Basandosi su uno studio partorito dal programma “Beyond Parallel” del think tank di Washington, Center for Strategic and International Studies (CSIS), il Times ha pubblicato una storia che pretende di rivelare il persistere di attività belliche da parte del regime di Pyongyang, contrarie agli impegni presi da Kim nel vertice dello scorso giugno a Singapore con il presidente Trump.
L’articolo parla apertamente di un “grande inganno” orchestrato dalla Corea del Nord, che consiste nella continua produzione di missili balistici – convenzionali e nucleari – in una dozzina di siti rivelati da immagini satellitari recentemente acquisite. L’inganno o presunto tale di Kim è rappresentato dal fatto che il suo regime aveva annunciato e poi portato a termine la distruzione di un solo sito da utilizzare per il lancio di missili, così da mostrare la propria disponibilità al dialogo, lasciando però in funzione le altre strutture.
Questa realtà, secondo i reporter del Times, smentirebbe l’ottimismo della Casa Bianca nel caratterizzare lo stato delle relazioni con la Nordcorea e in particolare la dichiarazione di Trump sull’eliminazione della minaccia nucleare di Kim grazie all’operato del suo governo. L’unico obiettivo sostanziale effettivamente raggiunto finora dall’amministrazione repubblicana, conclude il giornale newyorchese, sarebbe perciò lo stop ai test missilistici.
Il punto di vista degli ambienti a cui dà spazio il New York Times è riassunto dalle parole del direttore del programma di studi sulla Corea del Nord del CSIS, il diplomatico americano Victor Cha, lo scorso anno considerato e poi bocciato come possibile ambasciatore a Seoul dalla Casa Bianca. Quest’ultimo ha spiegato che, alla luce della prosecuzione dei lavori presso le basi militari, ci sono timori che “Trump finisca per accettare una pessima intesa [con Kim]”, nella quale la Corea del Nord accetti di “smantellare un sito dove vengono eseguiti test missilistici e poco altro in cambio di un accordo di pace” che metta fine formalmente alla guerra del 1950-53.
Gli attacchi contro la Casa Bianca per una condotta presumibilmente troppo tenera nei confronti di Pyongyang seguono principalmente una doppia pista. La prima conduce ai tentativi di negare a Trump una qualsiasi vittoria diplomatica che possa incrementare il suo capitale politico sul fronte domestico.
La seconda e più importante riguarda invece questioni strategiche fondamentali per la classe dirigente di Washington e punta a far naufragare il processo diplomatico nel caso esso prospetti un indebolimento degli Stati Uniti in Estremo Oriente. Molti negli USA temono cioè che Trump, per ragioni di convenienza politica, decida di sottoscrivere un accordo con Kim senza ottenere in cambio la completa sottomissione della Corea del Nord e, soprattutto, il totale sganciamento dall’alleato cinese.
Essendo la distensione con Pyongyang un’arma da utilizzare contro la Cina, è evidente che la ratifica di un trattato di pace rischia di rendere superflua o, quanto meno, di mettere in discussione la massiccia presenza militare americana in Corea del Sud e nel resto dell’area asiatica orientale. Questa ipotesi contrasta fortemente con gli obiettivi strategici fondamentali di Washington, basati in parte su un impulso alla militarizzazione della regione in funzione di contenimento della minaccia cinese.
L’articolo del New York Times solleva ad ogni modo questioni quanto meno fuorvianti. L’inganno descritto questa settimana non può essere considerato tale poiché Kim non si è mai assunto gli impegni che il principale giornale “liberal” americano sostiene implicitamente che abbia violato. Né nell’incontro con Trump di cinque mesi fa né in seguito, il leader nordcoreano ha mai promesso la sospensione della produzione di missili balistici. Anzi, come hanno ricordato alcune testate di informazione alternativa, a partire dallo scorso anno e in varie occasioni Kim aveva annunciato espressamente lo sviluppo del programma missilistico del suo paese.
Nel vertice di Singapore, i due leader avevano concordato una “road map” per spianare la strada alle trattative e che prevedeva un generico impegno, da parte nordcoreana, alla “completa denuclearizzazione della penisola”, ma solo dopo il consolidamento dei rapporti con gli USA e la creazione di un clima “stabile e pacifico” a nord e a sud del 38esimo parallelo.
Kim continua in sostanza a chiedere provvedimenti distensivi da parte americana per riconoscere le iniziative prese dal suo regime, come il già ricordato smantellamento di un sito missilistico e lo stop ai test balistici. Una mossa di questo genere da parte degli Stati Uniti, a cominciare dall’accettazione di un trattato di pace definitivo, garantirebbe a Pyongyang un quadro di sicurezza sufficiente e contribuirebbe in maniera decisiva allo sblocco dei negoziati attualmente in stallo.
Al momento non ci sono però segnali che Trump intenda abbandonare la linea dura. Infatti, il governo USA continua a chiedere a Kim di liberarsi del proprio programma nucleare prima di fare concessioni significative. Il vice-presidente, Mike Pence, lo ha confermato questa settimana nel corso di una visita in Giappone, dove ha assicurato che le sanzioni contro la Corea del Nord resteranno in vigore fino alla denuclearizzazione “completa e verificabile” di questo paese.
Questa posizione è la prima responsabile degli stenti dei negoziati di pace e dell’atmosfera tesa tra le due parti. Una testimonianza della situazione si è avuta giovedì scorso, quando un incontro a New York tra il segretario di Stato, Mike Pompeo, e un emissario di Kim è stato cancellato all’ultimo minuto e senza spiegazioni ufficiali. Lo stesso secondo faccia a faccia tra Trump e Kim, anche se ancora ufficialmente in programma, è stato rinviato a una data ancora da decidere.
Nel diffondere notizie tendenziose, il New York Times favorisce dunque il persistere di un clima di sfiducia nella penisola coreana, con il rischio di far tornare le relazioni bilaterali al punto critico registrato nel corso del 2017. Ciò è confermato anche dal fatto che l’analisi del CSIS riportata dal giornale americano descrive, tra l’altro, un sito missilistico - quello di Sakkanmol, a circa 85 chilometri dal confine con la Corea del Sud - noto da tempo, non interessato da lavori recenti di ammodernamento e probabilmente usato per ospitare solo missili a corto raggio.
Estremamente rivelatrice delle intenzioni e della pericolosità della campagna del Times è stata la reazione all’articolo di questa settimana del governo sudcoreano del presidente Moon Jae-in, principale promotore del processo di distensione con Pyongyang. In un comunicato emesso martedì, l’ufficio presidenziale ha respinto le accuse di “inganno” rivolte a Kim, sostenendo che i siti missilistici descritti dal rapporto del CSIS sono già noti all’intelligence sudcoreana e a quella americana.
Inoltre, il portavoce di Moon ha anch’egli ricordato che il leader della Corea del Nord “non è vincolato a impegni specifici per rivelare o smantellare le infrastrutture” menzionate dal New York Times. Queste ultime, appunto, “non hanno nulla a che vedere con missili balistici intercontinentali o a medio raggio”, né sono in corso trattative che riguardano le questioni sollevate dal Times e dal CSIS. Piuttosto, ha concluso Seoul, l’esistenza di questi siti missilistici “dimostra la necessità di proseguire il dialogo con la Corea del Nord per mettere fine a qualsiasi minaccia militare”.
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- Scritto da Michele Paris
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La cerimonia e gli eventi di contorno tenuti in Francia per la celebrazione dei 100 anni dalla conclusione della Prima Guerra Mondiale, hanno finito per fare emergere ancora una volta le profonde divisioni che stanno caratterizzando i rapporti tra le grandi potenze del pianeta, così come il rapido manifestarsi di condizioni di crisi che ricordano in buona parte proprio quelle che portarono all’esplosione del conflitto chiuso con l’armistizio dell’11 novembre del 1918.
Come sempre è accaduto negli ultimi mesi, è stata la presenza del presidente americano Trump a provocare le scosse maggiori nel fine settimane appena trascorso. Già le manifestazioni di protesta che lo hanno accolto al suo arrivo a Parigi sono apparse altamente simboliche della crescente distanza tra le due sponde dell’Atlantico. Lo stesso inquilino della Casa Bianca ha poi snobbato sia una cerimonia per i caduti di guerra in un cimitero militare non lontano da Parigi sia, soprattutto, un “forum per la pace” organizzato dal presidente francese, Emmanuel Macron, nella giornata di domenica.
Le premesse per un evento segnato da gravi tensioni, dietro un’esilissima apparenza di unità nel ricordare il massacro accaduto in Europa un secolo fa, erano state gettate in primo luogo dallo stesso Macron la scorsa settimana. In un’intervista radiofonica, il presidente francese aveva cioè invocato la creazione di un “vero esercito europeo”, in modo che il continente sia in grado di difendersi, in caso di necessità, non solo da paesi come Cina e Russia, ma anche da un’America sempre più ostile agli interessi dei propri alleati.
Sull’irrigidimento nei confronti di Washington mostrato da Macron e dagli altri governi europei ha influito, oltre all’indebolimento di Trump sul fronte interno dopo le elezioni di metà mandato, la recente notizia dell’intenzione della Casa Bianca di abbandonare il trattato con la Russia sui missili nucleari di medio raggio (INF). Il crollo dell’impalcatura della sicurezza creata da questo accordo del 1987 costituirebbe infatti una grave minaccia per l’Europa, che tornerebbe a essere esposta al rischio di diventare il campo di battaglia in uno scontro anche nucleare tra Mosca e Washington.
Il momento di massima tensione del fine settimana si è registrato probabilmente durante il discorso di domenica di Macron sotto l’Arco di Trionfo a Parigi. Qui, davanti a un Trump seduto a fianco di leader come Angela Merkel e Vladimir Putin, il presidente francese ha pronunciato parole che volevano essere di condanna del “nazionalismo”, definito una tendenza “non patriottica” e contraria ai “valori morali” di qualsiasi paese.
Il riferimento è andato immediatamente allo stesso Trump e alla sua agenda riassunta nello slogan “America First”, visto anche che, qualche settimana fa, il presidente USA aveva ammesso esplicitamente di essere un “nazionalista” e di voler perseguire politiche “nazionalistiche”, nonostante negli Stati Uniti questo termine sia stato a lungo associato alle frange estremiste di destra.
Il clima di tensione tra gli alleati è comunque alimentato da una serie di fattori esacerbati dall’ingresso di Trump alla Casa Bianca, anche se solo in minima parte dipendenti dalle sue inclinazioni personali. La sempre più aspra guerra commerciale in atto è forse il primo elemento da considerare in un quadro atlantico fatto di interessi ormai in buona parte divergenti. Un altro è la denuncia del trattato sul nucleare iraniano di Vienna del 2015 (JCPOA), abbandonato da Trump già nel mese di maggio, e le sanzioni da poco tornate in vigore contro la Repubblica Islamica.
L’attacco formale di Macron contro il nazionalismo è stato poi ripetuto dalla cancelliera tedesca nel corso del già ricordato “forum per la pace” inaugurato domenica dal governo di Parigi. La Merkel ha spiegato che questo fenomeno “sta riguadagnando terreno in Europa e non solo”, anche se, alla luce delle sfide odierne, nessun paese è in grado di agire e di risolvere i problemi per conto proprio.
Malgrado l’insistenza sul multilateralismo, sulla necessità di allentare le tensioni internazionali e sull’apertura delle società contemporanee, a cominciare dal fronte economico-commerciale, la retorica ostentata dai leader europei nei giorni scorsi a Parigi continua a trovare poco o nessun riscontro a livello concreto. Le tendenze in atto da questa parte dell’Atlantico vanno anzi in direzione contraria.
Da un lato, non ci sono segnali di allentamento delle politiche ultra-liberiste e di austerity, che finiscono per spingere ampie fasce della popolazione nelle mani del populismo di destra. Dall’altro, l’odio xenofobo e la criminalizzazione dell’immigrazione, in parallelo alla promozione di pseudo-valori più o meno apertamente nazionalisti, fanno ormai parte dei programmi di governi anche nominalmente moderati, come appunto quello di Berlino.
Le spinte militariste per risolvere i nascenti conflitti sono poi già in atto proprio in Europa, come confermano le recenti dichiarazioni di Macron sulla necessità di un “esercito europeo”, non in funzione difensiva bensì per la promozione degli interessi del capitalismo indigeno, o il ritorno a toni bellicosi e ai progetti di stanziamento di fondi consistenti a favore delle forze armate da parte della classe politica tedesca.
Lo stesso discorso di domenica in cui il presidente francese ha condannato il nazionalismo si è risolto in un insieme di tesi contraddittorie e zoppicanti, nel tentativo di distinguere le inclinazioni che caratterizzano il governo Trump da un “patriottismo” sano e portatore di una quasi assoluta moralità.
Del carattere fondamentalmente reazionario della classe dirigente europea liberale, che oggi dovrebbe costituire il principale se non l’unico argine alle forze destabilizzanti rappresentate dal governo americano, si era d’altra parte avuto testimonianza poco prima della commemorazione della fine del secondo conflitto mondiale. Visitando uno dei campi di battaglia della guerra, Macron aveva infatti elogiato la figura del maresciallo Philippe Pétain, il leader del regime collaborazionista di Vichy durante la Seconda Guerra Mondiale.
Le parole di Macron avevano giustamente suscitato una valanga di polemiche, ma il numero uno dell’Eliseo era tornato in seguito sull’argomento per ribadire il concetto e definire Pétain “un grande soldato” durante la Prima Guerra Mondiale. I crimini commessi successivamente - dall’ordine di deportare decine di migliaia di ebrei francesi alla collaborazione nell’aggressione nazista al suo irriducibile anti-comunismo - sono stati minimizzati da Macron con la seguente conclusione: “La vita politica, come la natura umana, è talvolta più complessa di quanto si possa pensare”.
L’accettazione da parte di Macron di un giudizio sul maresciallo Pétain finora limitato agli ambienti neo-fascisti francesi la dice perciò lunga sulla natura e gli obiettivi di un leader, così come di un’intera classe dirigente, che cerca di porsi pubblicamente come baluardo dei valori della democrazia occidentale.
A un secolo dall’epilogo della Grande Guerra, dunque, la crisi del capitalismo internazionale e le rivalità dilaganti per accaparrarsi mercati e risorse continuano a spingere l’Occidente e il resto del pianeta verso scontri e conflitti sempre più gravi, anche tra paesi formalmente alleati, che rischiano, in un futuro forse non troppo lontano, di fare esplodere una nuova conflagrazione dalle conseguenze incalcolabili.
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- Scritto da Michele Paris
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A distanza di poche ore dalla chiusura delle urne negli Stati Uniti, mercoledì il presidente Trump ha lanciato una nuova bomba politica a Washington, licenziando il suo ministro della Giustizia (“Attorney General”), Jeff Sessions. L’allontanamento dell’ex senatore repubblicano dell’Alabama, tra i sostenitori della prima ora della campagna elettorale di Trump già nel 2015, ha implicazioni potenzialmente esplosive per la politica americana, visto che potrebbe stravolgere o, addirittura, affondare l’indagine sul cosiddetto “Russiagate” guidata dal procuratore speciale ed ex direttore dell’FBI, Robert Mueller.
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- Scritto da Michele Paris
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Le elezioni americane di metà mandato hanno restituito nella giornata di martedì una serie di risultati tutt’altro che univoci, in conseguenza dell’ampiezza e dell’estrema eterogeneità delle competizioni in programma e delle tematiche politiche all’ordine del giorno. Alcuni dei dati cruciali del voto sono apparsi tuttavia chiari e hanno in larga misura a che fare, da un lato, con la crescente ostilità nei confronti dell’amministrazione Trump e, dall’altro, con l’incapacità da parte del Partito Democratico di proporsi come reale alternativa democratica a una deriva autoritaria sempre più evidente nel panorama politico degli Stati Uniti.