Nel suo discorso sullo stato dell’Unione di quest’anno, martedì il presidente americano Trump ha deciso eccezionalmente di dedicare un passaggio alla minaccia che il socialismo rappresenterebbe per gli Stati Uniti. L’invettiva dell’inquilino della Casa Bianca è apparsa a molti per lo più come una mossa elettorale per cercare di infiammare la base del Partito Repubblicano a meno di un anno dall’inizio delle primarie. A ben vedere, tuttavia, la condanna del socialismo davanti al paese ha fatto intravedere la sensazione di panico che sembra avvolgere sempre di più una classe dirigente screditata di fronte al moltiplicarsi delle tensioni sociali e delle manifestazioni di opposizione contro un sistema in profonda crisi.

Il colpo di stato in Venezuela, previsto dal 30 Gennaio al 3 febbraio, è fallito. Il che non significa affatto che gli Stati Uniti abbiano ripensato al processo di destabilizzazione violenta del Paese, ma certo il “putch” sul modello di quello del 2002 è fallito. La fedeltà delle Forze Armate alla Costituzione e la lealtà al governo sia dei militari che degli oltre 1.500.000 miliziani, ha ulteriormente cimentato e solidificato quella che il chavismo chiama “l’unione civico-militare”, che altro non è se non la reciproca compenetrazione tra i due diversi ambiti della popolazione venezuelana.

 

L’idea di sollevazioni popolari contro il governo è miseramente fallita e persino il tentativo di riarmare le “guarimbas” non pare abbia successo. Il chavismo si è preso le piazze esercitando di fatto una egemonia non discutibile con la quale anche la destra più reazionaria e violenta non ama misurarsi. Benché la polarizzazione sia estrema e il paese appaia in uno stato di massima tensione, la situazione è di assoluta normalità e le cronache che raccontano di incidenti sono solo una parte dell’immenso arsenale di bugie che il mainstream spaccia per ricordare a tutti che per libertà di stampa s’intende la libertà dei gruppi editoriali che la controllano.

L’approccio dell’Unione Europea alla questione iraniana continua a essere caratterizzata da un’apparente schizofrenia, con iniziative volte a salvaguardare il sistema di relazioni creato dall’accordo sul nucleare del 2015 e, in parallelo, intimidazioni e misure punitive in linea con la ritrovata ostilità di Washington verso la Repubblica Islamica.

 

Questa settimana, la Commissione Europea ha adottato una serie di risoluzioni per riconfermare il proprio impegno nel rispettare l’accordo di Vienna (JCPOA) e per esprimere disappunto nei confronti della decisione dello scorso anno dell’amministrazione Trump di abbandonare il trattato negoziato dalla diplomazia USA durante la presidenza Obama. Il comunicato ufficiale della Commissione ha definito il JCPOA “un elemento chiave del sistema globale di non proliferazione nucleare”, nonché, con una chiara condanna dell’unilateralismo americano, “un successo della diplomazia multilaterale, appoggiato unanimemente dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.

Le cambiate priorità strategiche degli Stati Uniti sono alla base della recente decisione dell’amministrazione Trump di uscire dal Trattato sulle Forze Nucleari Intermedie (INF), sottoscritto nel 1987 con il governo dell’allora Unione Sovietica. La notifica della cancellazione di fatto dell’accordo è stata data dal segretario di Stato USA, Mike Pompeo, qualche giorno fa, ma già lo scorso mese di ottobre l’iniziativa era stata annunciata in un discorso pubblico dallo stesso presidente.

Dopo avere incassato quella che in molti hanno descritto come una rara vittoria parlamentare sulla Brexit, mercoledì il primo ministro britannico, Theresa May, è tornata a scontrarsi con una realtà decisamente più amara, quando si è vista ancora una volta chiudere ogni spiraglio significativo di trattativa da parte dei vertici europei sulla possibile rinegoziazione del trattato che dovrebbe regolare l’uscita di Londra dall’UE.

 

Il capo dei negoziatori dell’Unione, Michel Barnier, ha insistito sull’impossibilità di riaprire i negoziati con Downing Street, malgrado la premier May abbia apparentemente trovato per la prima volta un accordo con la sua maggioranza in Parlamento per stabilire le modalità della Brexit dal punto di vista di Londra. Per Barnier, il testo dell’accordo già sottoscritto con il governo resta l’unico sul tavolo e le “istituzioni europee” concordano sulla sostanziale impossibilità di fare concessioni che spianino la strada a un via libera della Camera dei Comuni.


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