Un rapporto di un’agenzia del governo americano, pubblicato dalla stampa d’oltreoceano qualche giorno fa, ha documentato un sistema fatto di abusi sessuali sistematici ai danni di minori immigrati e detenuti in strutture speciali dopo essere giunti da soli negli Stati Uniti o in seguito alle separazioni forzate da genitori e famigliari.

 

L’indagine è stata condotta da una sezione del dipartimento della Sanità, responsabile per legge dell’assistenza agli stranieri più giovani che si presentano al confine USA, e ha registrato più di 4.500 segnalazioni di abusi tra l’ottobre del 2014 e il luglio dello scorso anno.

 

Gli episodi descritti sono di diversa gravità e includono ricostruzioni spesso raccapriccianti nonostante un linguaggio quasi sempre freddo e burocratico. I casi in questione, che risalgono anche all’epoca dell’amministrazione Obama, riguardano in parte abusi commessi dal personale delle strutture di detenzione, mentre molti altri da minori detenuti ai danni di altri più giovani nell’indifferenza dello staff governativo o dei “contractor” privati.

Il fallimento del secondo vertice tra il presidente americano Trump e il leader nordcoreano, Kim Jong-un, è da attribuire al mantenimento da parte del governo USA di posizioni inflessibili, e difficilmente conciliabili con un negoziato onesto, sulle sanzioni in vigore contro Pyongyang e su eventuali concessioni a favore del regime. La linea dura scelta dalla Casa Bianca mette ora in forte dubbio il futuro del processo diplomatico nella penisola di Corea e rischia di aprire una serie di scenari che potrebbero facilmente riportare le relazioni tra i due paesi allo stato critico registrato durante tutto l’anno 2017.

Cuba ha una nuova Carta Costituzionale. Si compone di 229 articoli ed è figlia di una discussione che ha coinvolto l’intera società cubana, che in migliaia di assemblee, con discussioni aperte, a volte aspre, ha proposto e disposto, accolto ed emendato il testo che domenica scorsa è stato sottoposto a referendum popolare. Non si rammenta di altri paesi nel mondo che hanno discusso previamente ogni singolo articolo della Carta come ha fatto l’isola caraibica: qui la Cuba socialista ha confermato originalità e peculiarità del suo modello.

La notizia dell’abbattimento di due aerei da guerra indiani da parte delle forze armate del Pakistan nella regione contesa del Kashmir ha portato mercoledì i due paesi rivali nuovamente sull’orlo di un possibile conflitto rovinoso. L’iniziativa di Islamabad rischia di provocare pesanti ritorsioni ed è stata decisa in risposta al bombardamento condotto da altri jet indiani il giorno precedente presumibilmente contro un campo di militanti islamisti in territorio pakistano.

 

Il nuovo capitolo dello scontro tra India e Pakistan sullo stato conteso di Jammu e Kashmir si era aperto il 14 febbraio scorso in seguito a un attentato tra i più gravi degli ultimi decenni. Un attacco suicida contro un convoglio della forza di polizia paramilitare indiana (CRPF) aveva provocato la morte di oltre quaranta soldati e il governo di Delhi del primo ministro di estrema destra, Narendra Modi, ne aveva immediatamente attribuita la responsabilità ai terroristi di Jaish-e Mohammed (JeM), un gruppo militante attivo nel Kashmir indiano.

 

Modi aveva di conseguenza minacciato una risposta molto dura contro il Pakistan, accusato di essere dietro all’attentato o, quanto meno, di appoggiare finanziariamente e logisticamente i fondamentalisti di JeM. Incitando la base elettore indù del suo partito, il primo ministro si era detto pronto ad adottare varie misure destinate a fare pressioni sul vicino, dal ridimensionamento degli scambi commerciali alla possibile revisione unilaterale di un trattato con Islamabad che regola l’afflusso dei corsi d’acqua che scorrono dall’India al Pakistan.

 

Martedì, poi, è arrivata una ritorsione militare che, tra i due paesi, non si registrava dalla guerra del 1971. Come già anticipato, aerei militari indiani hanno volato all’interno dello spazio aereo pakistano per colpire una base di JeM nella località di Balakot, nella provincia nord-occidentale di Khyber-Pakhtunkhwa. I resoconti dell’operazione riportati dai governi di India e Pakistan sono stati però molto diversi. Delhi l’ha definita un successo e ha assicurato che nell’attacco sarebbero stati uccisi tra i 200 e i 300 militanti anti-indiani.

 

Per il governo pakistano sarebbe stata al contrario un fallimento. I jet indiani sarebbero stati inseguiti dalle forze aeree pakistane e, costretti a tornare entro i propri confini, avrebbero scaricato in fretta e furia il loro carico che è finito su una zona boscosa senza provocare vittime né danni a strutture. Sempre martedì, dal Pakistan sarebbero poi partiti colpi di artiglieria diretti verso la cosiddetta “Linea di Controllo”, ovvero il confine di fatto del Kashmir conteso. Delhi avrebbe subito risposto al fuoco, ma, ancora una volta, l’effettivo bilancio dei danni è stato difficile da appurare.

 

L’episodio finora più grave è avvenuto infine mercoledì, con i due velivoli indiani abbattuti dai jet dell’aviazione del Pakistan, ufficialmente per avere violato lo spazio aereo di quest’ultimo paese. Secondo alcune ricostruzioni, i jet pakistani avrebbero colpito dall’interno dello spazio aereo dello stato di Jammu e Kashmir controllato da Delhi. Islamabad ha però negato lo sconfinamento, ma ha confermato di avere arrestato un pilota indiano sopravvissuto all’attacco.

 

Nonostante le tensioni alle stelle, da entrambe le parti sono giunte mercoledì dichiarazioni che hanno mostrato chiaramente le apprensioni per il possibile precipitare della situazione e i tentativi di abbassare i toni dello scontro. Da parte pakistana, il ministero degli Esteri ha assicurato che la risposta di mercoledì non deve essere intesa come una ritorsione contro le iniziative dell’India, ma piuttosto come una dimostrazione della prontezza e della capacità di difendersi da parte di Islamabad se dovessero esserci ulteriori provocazioni. Il ministro degli Esteri di Delhi, Sushma Swaraj, ha a sua volta affermato che il governo indiano “non desidera un’ulteriore escalation della situazione” e che perciò “continuerà ad agire con responsabilità e moderazione”.

 

I fatti degli ultimi giorni e le reazioni dei due governi testimoniano non solo della gravità degli scenari che si sono venuti ancora una volta a creare attorno al nodo del Kashmir, ma anche delle intenzioni di entrambi di sfruttare gli eventi per soffiare sul fuoco del nazionalismo, per ragioni sia di carattere domestico sia legate agli equilibri strategici regionali.

 

A Delhi, in particolare, il primo ministro Modi e il suo partito fondamentalista indù BJP hanno tutto l’interesse ad alimentare la crisi per ragioni elettorali. In previsione del voto per il rinnovo del parlamento tra aprile e maggio, Modi intende creare un’atmosfera infuocata, agitando la minaccia del nemico pakistano e musulmano, in modo da invertire un declino nel gradimento tra gli elettori che era apparso evidente in alcune consultazioni a livello locale qualche mese fa.

 

A ciò si accompagna un giro di vite contro la popolazione musulmana del Kashmir, già oppressa da decenni di governo indiano. Arresti arbitrari e altre misure da stato di polizia sono state ampiamente documentate in questi giorni, anche se spesso descritte dai giornali ufficiali indiani e internazionali come legittime operazioni dirette contro sospetti militanti separatisti.

 

Per quanto riguarda il Pakistan, invece, se è innegabile che movimenti integralisti come JeM sono stati appoggiati e finanziati da Islamabad, così come con ogni probabilità da paesi alleati come Arabia Saudita, è difficile pensare a un motivo valido per cui dietro al recente attentato contro la polizia paramilitare indiana del Kashmir ci possa essere il governo del premier Imran Khan o, per meglio dire, i servizi segreti e i vertici militari del paese centro-asiatico.

 

Queste perplessità sono da collegare alla dimensione strategica internazionale del conflitto in corso e, appunto, alle altre motivazioni che hanno determinato la reazione di Nuova Delhi. Uno degli obiettivi principali del governo Modi è di consegnare all’opinione pubblica un’immagine del Pakistan come un paese instabile, dedito all’appoggio di organizzazioni terroristiche o per lo meno non in grado di controllare queste ultime.

 

Le pressioni internazionali che ne dovrebbero derivare servono a loro volta a ostacolare i processi di integrazione economica e strategica in atto in quest’area del continente asiatico che coinvolgono appunto il Pakistan. Queste dinamiche, osservate con estremo sospetto dall’India, vedono un rafforzamento dei legami già storicamente solidi tra Islamabad e Pechino nel quadro della nuova “Nuova Via della Seta” cinese o, più precisamente, “Belt and Road Initiative” (BRI).

 

A innescare le rivalità e i rimescolamenti di alleanze in atto è però soprattutto l’intervento degli Stati Uniti e il loro tentativo ultra-decennale di integrare l’India in un’alleanza strategica in funzione anti-cinese. Ciò ha spinto inevitabilmente il Pakistan ad abbracciare i progetti di sviluppo della Cina, ma anche ad aprire all’ex nemico russo, con il risultato, da un lato, di accelerare le tendenze multipolari viste con crescente preoccupazione da Washington e, dall’altro, di spingere le relazioni con il governo ultra-nazionalista di Delhi nuovamente sull’orlo del precipizio.

 

Alla luce della disponibilità di armi nucleari di India e Pakistan, è ragionevole prevedere una de-escalation dello scontro nel prossimo futuro, sulla spinta anche degli interventi delle potenze internazionali, allarmate per la possibile apertura di un ulteriore fronte di guerra. La situazione in Kashmir resta tuttavia esplosiva, così come drammatica quella della popolazione civile, il cui possibile sviluppo e prosperità, per ragioni storiche ed economiche, non può comunque prescindere da rapporti pacifici con entrambi i paesi vicini, oggi invece a un passo da una pericolosissima guerra che rischia di allargarsi rapidamente a tutta la regione centro-asiatica.

Grazie ai “negoziati produttivi” registrati tra Washington e Pechino, il presidente americano Trump ha sospeso in maniera indefinita l’entrata in vigore dei dazi aggiuntivi minacciati sulle merci di importazione cinese e inizialmente prevista per il primo marzo prossimo. Nonostante i progressi ostentati da entrambe le parti, le posizioni sembrano rimanere lontane su molte questioni relative alla “guerra commerciale” in corso e, oltre che dalle concessioni della Cina, l’esito dello scontro dipenderà anche e soprattutto dalle dinamiche interne all’amministrazione Trump.

 

Il presidente ha scritto su Twitter nel fine settimana che dei passi avanti sarebbero stati fatti in particolare sulle “questioni strutturali” sollevate dalla delegazione USA, come quelle del furto della “proprietà intellettuale” da parte cinese ai danni delle compagnie americane e del trasferimento forzato di tecnologia a cui queste ultime sarebbero sottoposte per poter operare in Cina. I termini di un’ipotetica intesa coprirebbero inoltre gli squilibri commerciali, con la Cina disposta ad aumentare sensibilmente le importazioni di beni e servizi dagli Stati Uniti.


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