Il Partito Conservatore britannico martedì ha annunciato ufficialmente la vittoria di Boris Johnson nella corsa alla leadership grazie alla netta affermazione contro l’ultimo sfidante rimasto in corsa, l’attuale ministro degli Esteri, Jeremy Hunt. L’ex sindaco di Londra ed ex membro del governo di Theresa May diventerà a breve anche il nuovo primo ministro, ma il suo prossimo incarico rischia di diventare da subito un campo minato, con la crisi della Brexit pronta a riesplodere, assieme ad altre questioni internazionali caldissime, dal confronto in atto con l’Iran ai rapporti con gli Stati Uniti di Donald Trump.

 

 

Il risultato finale dei voti espressi dagli iscritti al partito, che ammontano ad appena 159 mila, ha visto Johnson prevalere con una percentuale del 66%. I vari aspiranti alla leadership dei “Tories” erano stati via via eliminati da una serie di votazioni condotte tra i membri del partito che siedono in parlamento. Alla fine, i due candidati rimanenti si sono presentati agli iscritti, con l’ex ministro degli Esteri identificato immediatamente come il logico favorito.

 

L’impegno più importante preso più o meno solennemente da Johnson durante la sua campagna per conquistare la leadership conservatrice potrebbe diventare il maggiore impedimento alla sua permanenza a Downing Street. Johnson aveva cioè garantito un’uscita dall’Unione Europea anche senza un accordo con Bruxelles entro il 31 ottobre prossimo, data concordata dal governo May dopo i ripetuti rinvii dei mesi scorsi.

 

Malgrado l’apparente fermezza del prossimo primo ministro britannico, la situazione politica interna al suo partito e nel paese in generale non appare tuttavia molto diversa da quella che aveva impedito il concretizzarsi della Brexit e costretto Theresa May a rassegnare le proprie dimissioni. Quest’ultima si era fatta da parte dopo avere preso atto dell’impossibilità di ottenere l’approvazione in parlamento del piano stipulato con l’UE per l’attuazione della Brexit.

 

Nel Partito Conservatore è scattata una sorta di rivolta contro Johnson ancora prima dell’annuncio del suo successo. Alcuni membri del governo May, tra cui il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, nei giorni scorsi avevano annunciato l’intenzione di dimettersi preventivamente piuttosto che far parte di un gabinetto guidato dall’ex sindaco di Londra.

 

Le ragioni delle preoccupazioni diffuse tra una parte dei “Tories” sono appunto da collegare alla possibile uscita del Regno Unito dall’UE senza un accordo, ovvero senza un quadro legale che regoli i rapporti tra le due parti, in modo da scongiurare conseguenze potenzialmente disastrose dal punto di vista economico, finanziario, commerciale e del movimento delle persone.

 

Poco prima dell’epilogo della sfida per la leadership conservatrice, con l’appoggio di 42 deputati del partito di maggioranza, il parlamento di Londra aveva inoltre approvato una misura che dovrebbe impedire al capo del governo di sospendere l’assemblea legislativa per implementare la Brexit senza un accordo con Bruxelles, come aveva minacciato Johnson. Con questo provvedimento, il nuovo governo rischia così di ritrovarsi invischiato in un altro pantano e di andare incontro a elezioni anticipate o a un ulteriore rinvio della data di uscita dall’Unione Europea.

 

Nel suo primo discorso dopo l’annuncio della vittoria, Johnson è sembrato accennare alla necessità di bilanciare le tendenze contrastanti tra i conservatori. Il suo dovere dovrebbe essere cioè di mostrare “un’abilità storica che bilanci istinti opposti”, conciliando “il desiderio di mantenere stretti rapporti con l’UE” con quello di riaffermare forme di “auto-governo democratiche” per la Gran Bretagna.

 

In ultima analisi, il dilemma del Partito Conservatore che si appresta a passare il comando a Boris Johnson consiste nel trovare una soluzione alla Brexit in presenza di profonde divisioni tra la linea dura, che auspica una rottura totale con Bruxelles, e i fautori di un’uscita morbida dall’Unione. Le due facce dei “Tories” rispecchiano gli orientamenti contrastanti di sezioni differenti dei poteri forti britannici, una riconducibile a interessi legati prevalentemente al vecchio continente e l’altra agli Stati Uniti e alle potenze emergenti extra-europee.

 

Parallelamente, la classe dirigente conservatrice teme fortemente una possibile esplosione della crisi politica, con conseguente regolamento di conti in un voto anticipato. Una soluzione di questo genere rischierebbe infatti di portare al governo il Partito Laburista, il cui leader, Jeremy Corbyn, o, per meglio dire, i sostenitori di quest’ultimo, sono visti come uno spettro comunista pronto a mandare in rovina il Regno Unito.

 

Una qualche indicazione circa i piani di Boris Johnson per la Brexit si avrà dopo l’insediamento a Downing Street, previsto per mercoledì, e con la nomina della sua squadra di governo. Un articolo di lunedì del Guardian ha spiegato come la fazione europeista dei conservatori e quella favorevole a un’uscita morbida dall’UE abbiano per ora deciso di stare alla finestra in attesa delle mosse del primo ministro in pectore.

 

Nel caso Johnson dovesse decidere di non cercare un compromesso tra i moderati e gli euro-scettici, perseguendo una Brexit senza paracadute, decine di parlamentari “Tories” sarebbero pronti addirittura a valutare un nuovo governo di “unità nazionale” con i liberaldemocratici e i laburisti europeisti. Se invece Johnson dovesse optare per un abbassamento dei toni e un’apertura ai contrari a una “hard Brexit”, potrebbe al contrario materializzarsi una diserzione più o meno consistente a favore del partito anti-europeista di estrema destra di Nigel Farage, uscito rafforzato dalle elezioni europee dello scorso mese di maggio.

 

Gli equilibri per il nascente governo Johnson potrebbero poi diventare ancora più precari a partire già dai prossimi giorni. Settimana prossima sono previste due elezioni suppletive in altrettanti collegi parlamentari attualmente in mano ai conservatori. I sondaggi prevedono il successo dei candidati liberaldemocratici e, se così fosse, la maggioranza per il partito al governo si ridurrebbe a soli due seggi.

 

Viste le implicazioni politiche di una possibile rottura immediata è comunque probabile che le ostilità rimarranno entro i limiti di sicurezza almeno fino dopo l’estate. Il governo entrante dovrà d’altra parte provare a risolvere da subito la crisi esplosa con Teheran dopo lo sconsiderato sequestro illegale ai primi di luglio di una petroliera iraniana al largo di Gibilterra da parte della marina militare britannica.

 

Alla decisione di Londra, presa in seguito alla richiesta della Casa Bianca, è seguita l’ovvia ritorsione della Repubblica Islamica, che settimana scorsa ha fermato una nave battente bandiera britannica mentre attraversava lo stretto di Hormuz, all’imbocco del Golfo Persico. Dai due governi è arrivato qualche segnale distensivo nelle ultime ore, anche se le tensioni continuano a rimanere altissime.

 

La vicenda si intreccia inevitabilmente con la questione dei rapporti tra Londra e Washington nel dopo-Brexit. La Gran Bretagna continua a ribadire la propria adesione al trattato sul nucleare iraniano del 2015 (JCPOA), abbandonato unilateralmente lo scorso anno da Trump, schierandosi perciò di fatto a fianco del resto dell’Europa e contro gli Stati Uniti. L’eventuale insistenza nel prendere provvedimenti provocatori contro l’Iran o il rifiuto a valutare una trattativa diplomatica per sbloccare la crisi delle petroliere allineerebbero però il governo britannico alle posizioni americane, col rischio di far precipitare la situazione in Medio Oriente fino a un possibile disastroso scontro armato.

 

Boris Johnson, da parte sua, ha instaurato da tempo relazioni molto strette con l’amministrazione Trump e ha anzi scommesso le proprie ambizioni politiche sulla ruota di Washington. Se ciò gli ha permesso per il momento di conquistare la leadership del suo partito e la carica di primo ministro, non è detto che, una volta insediato il nuovo governo, la conferma della linea dura sulla Brexit e la scelta transatlantica siano in grado di garantirgli una lunga permanenza al numero 10 di Downing Street.

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