di Eugenio Roscini Vitali

Simon Wiesenthal, l’uomo che ha dedicato la maggior parte della vita alla cattura dei criminali nazisti, era certo che l’Europa fosse ormai vaccinata dalla presenza dell’antisemitismo. Le testimonianze e i dibattiti politico-culturali a cui assistiamo ci fanno però pensare che nel mondo c’è ancora chi identifica il mito dell’ebreo come nemico interno; l’esistenza di complotto giudeo-massonico che si rifà alla congiura che nel 1920 veniva denunciata dal Times attraverso la pubblicazione di un presunto documento segreto che descriveva un ipotetico piano pensato ed organizzato dalla comunità ebraica per dominare il mondo, “I Protocolli dei Savi di Sion”. Una psicosi collettiva che contribuirà ad innalzare i toni della propaganda antisemita e che è cresciuta intorno alla figura del giudeo deicida e alle accuse di omicidio rituale; un pregiudizio che lo storico tedesco Christian Matthias Theodor Mommsen, premio Nobel della letteratura nel 1902, considerava un’epidemia di fronte alla quale la ragione diventa impotente.

di Liliana Adamo

Il 6 marzo scorso, dalle isole Canarie, è partita una spedizione di ricercatori e geologi inglesi, alla volta di un anomalo “buco nero” situato in fondo all’Oceano, tra i Carabi e Capo Verde. Ad un secolo e mezzo di distanza, è quasi d’obbligo ripensare al romanzo più avvincente di Jules Verne (scritto nel 1864), al viaggio profetico del professor Otto Lidenbrock, che, dopo aver decifrato un messaggio con caratteri runici, parte da Amburgo con alcuni improbabili collaboratori e si ritrova in Islanda, intrappolato nelle viscere del cratere Jokull, facente parte del vulcano Snæffels, per meglio dire, un tragitto che porta dritti al centro della terra.

di Alessandro Iacuelli

C'è forse un altro giro di vite in vista per la libertà di informazione, e stavolta non avviene in Paesi dell'Africa o dell'Asia, o in Stati dittatoriali, ma in piena Unione Europea. Accade infatti in Francia, dove a pochi giorni dalle elezioni presidenziali, il Consiglio Costituzionale ha dato il proprio via libera ad una controversa proposta di legge sul controllo dell'informazione che prevede, tra le altre cose, il divieto per i reporter non professionisti di scattare foto o riprendere video di atti di violenza. Una legge che costituirebbe un vero e proprio vincolo nei confronti del fenomeno del citizen journalism, esploso soprattutto grazie ad Internet. A darne l'annuncio è la rivista InfoWorld, dalla quale si apprende che la misura restrittiva fa parte di una proposta di legge sulla prevenzione del crimine. Non ci si spiega certo facilmente il legame tra prevenzione del crimine e divieto di riprendere una scena di violenza. Potrebbe addirittura essere proprio quella ripresa video o fotografica, a rendere punibile un eventuale crimine.

di Agnese Licata

Ryszard Kapuściński, dopo aver trascorso una vita viaggiando da una nazione all’altra, da un continente all’altro, con la sola compagnia di una macchina fotografica, un taccuino e una penna, è morto martedì notte nella sua terra, la Polonia, in un ospedale di Varsavia. Non aveva fatto una scelta facile nella sua lunga carriera da giornalista, Kapuściński. Aveva scelto di dare voce a chi voce non ha, a quei milioni di poveri che affollano e hanno sempre affollato il Terzo Mondo. Aveva preferito essere testimone del loro dramma anonimo e silenzioso, piuttosto che parlare del ricco e invasivo Occidente. “ …i poveri, di solito, stanno zitti”, aveva scritto. “La miseria non piange, non ha voce. La miseria soffre, ma soffre in silenzio. La miseria non si ribella. I poveri insorgono solo quando sperano di poter cambiare qualcosa. Di solito si sbagliano, ma solo la speranza è capace d’indurre la gente ad agire. La principale caratteristica di un mondo perennemente in miseria è l’assenza di speranza”. E così, per raccontare eventi storici come le guerre africane d’indipendenza, la fine dell’impero sovietico, la rivoluzione iraniana, Kapuściński partiva sempre dalla gente comune, con la quale condivideva, spalla a spalla, un pezzo d’esistenza. Non era certo un frequentatore di alberghi internazionali, il giornalista polacco.

di Agnese Licata

Sceglie le parole di William Shakespeare, Nadine Gordimer. Lei, scrittrice afrikaner che nel Sud Africa dell’apartheid ha lottato a fianco dei neri e dell’African National Congress, lei sceglie un passo del “Mercante di Venezia” per parlare delle nuove generazioni di scrittori africani, di colonialismo, di un mondo in cui sempre più spesso prevale l’isolazionismo delle culture, delle religioni, delle classi sociali. “(…) sono un nero. Non ha occhi, un nero? Non ha mani, organi, statura, sensi, affetti, passioni? Non si nutre anche lui di cibo? Se lo pungete non sanguina? Non si ammala delle stesse malattie? E non si cura con le stesse medicine?… ” (monologo dell’usuraio ebreo Shylock, atto III, scena I). “I’m black”, invece della versione shakespeariana “I’m Jewish” (sono un ebreo). Così sceglie di cominciare la sua lectio magistralis questa esile ma battagliera donna bianca di ottantatre anni, arrivata a Torino da Johannesburg per un convegno sulla letteratura africana organizzato dal Premio Grinzane Cavour.


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