di Carlo Benedetti

Una vita segnata dai controlli. Quelli del Kgb effettuati a vista e quelli dell’onnipresente comitato per la censura - il Glavlit - che controllava gli scritti e ne stracciava le pagine che non rispettavano il sistema, il Cremlino, il Partito, la società. Praticamente non restavano che le copertine vuote e senza alcunché di scritto. La sua vita era trascorsa, all’inizio, in quel vecchio rione moscovita noto come Zamoskvore?’e. Vecchie palazzine, sgretolate e cadenti. Portoni mai chiusi e carichi di una vernice marrone che ogni anno veniva rinnovata e così gli strati andavano a segnare gli anni del potere sovietico. All’interno delle casupole appartamenti in coabitazione. Con l’ingresso segnato da un tavoletta con su scritti I numeri degli squilli che bisognava fare per avvertire gli inquilini. Uno squillo per i Sidorov, due per i Rezin, tre per gli Astafiev e quattro per i Druznivov che vivevano nella stanza B1-93-46 Così scorreva la vita in quella Mosca con la donna che portava il piccolo a spasso nella vicina Piazza Rossa sussurrando: “Ecco, vedi laggiù quel monumento rosso, lì riposa lo zio Lenin… Diadja Lenin”. Poi l’inizio della scrittura. Gli scontri con il potere e con la censura. E così il personaggio - critico letterario, pedagogista, autore teatrale - era riuscito a pubblicare le sue prime opere durante il regime stalinista. Subito bollato come dissidente, era stato più volte censurato finendo per anni sotto lo stretto controllo del Kgb. Nonostante la radiazione dalla potente Unione degli scrittori sovietici, con il conseguente veto alla pubblicazione di qualsiasi scritto, continuava però a diffondere i suoi scritti clandestinamente. Tutto battuto a macchina con l’uso della carta carbone e poi, con la diffusione a mano. Una gestione in proprio delle cose che andava scrivendo.

Ma questo fino, al 1985, quando il testo del suo lavoro intitolato Angeli sulla punta di uno spillo finì nelle mani del Kgb, durante una perquisizione in casa di un amico. Arrestato, e minacciato di finire in un manicomio criminale (perché il potere non accettava la diversità intellettuale) fu salvato da una petizione internazionale cui parteciparono intellettuali del calibro di Bernard Malamud, Kurt Vonnegut, Arthur Miller, Elie Wiesel. E fu solo grazie a queste pressioni che Gorbaciov decise di lasciarlo andare. Riparò prima in Italia e poi negli Usa, dove gli fu offerta la cattedra di Letteratura russa all'Università della California. Ora arriva la notizia della sua morte.

E così finisce la grande avventura di Jurij Druznikov, scomparso a 75 anni nella sua casa di Davis, in California, per le conseguenze di una grave polmonite. Viveva negli Usa dal 1985 ed era conosciuto da noi sopratutto per il suo romanzo Angeli sulla punta di uno spillo, pubblicato da Barbera nel 2006, un lavoro menzionato dall'Unesco come miglior romanzo in traduzione nel 2001. Avevamo letto, soffrendo con lui, anche quei suoi libri intitolati Il primo giorno del resto della mia vita, la raccolta di racconti Là non è qua.

Ed ora, post mortem, veniamo a sapere tanti particolari della sua incredibile vita sovietica. Escono pagine di diario con Jurij che racconta: “A risolvere i problemi della nostra vita moscovita ci pensò la Seconda Guerra Mondiale. Nell’evacuazione ad Udmurtia (Votkinsk, Iževsk) imparai a scavare le patate, ad andare a cavallo e a portare i cavalli ad abbeverarsi, nonché a suonare il buben (sorta di tamburino) in un’istituzione che si chiamava “Casa per l’educazione artistica dei fanciulli”. Per tutta la guerra portavo con me Mark Twain sotto forma di Tom Sawyer e due edizioni belliche che erano giunte in provincia: “Il libro del giovane agente segreto” e “Come imparare rapidamente a guidare l’automobile”. Le esplorazioni le facevo nel bosco alla ricerca di bacche e, a causa della mancanza di una bussola, mi orientavo, come diceva il libro, grazie al muschio sugli alberi. Da automobile fungeva una sedia rotta a cui era stata aggiunta la ruota di una carrozzina per bambini. Il ricordo più chiaro è la fame, quanto sognavo una pagnotta di pane nero che mi venisse data tutta per me da mangiare!”

E ancora: “Alcuni dettagli di quell’epoca in seguito rientrarono nel romanzo Il passaporto per ieri, nel violinista di San Francisco, ma considerare autobiografico questo romanzo scritto sul destino di tre generazioni; significa semplificarne l’intero sistema della visione artistica della realtà circostante e della fantasia di uno scrittore a mero espediente letterario. A partire dai dieci anni circa ho cominciato a riempire i quaderni di scuola, uno dopo l’altro, di poesie a imitazione di Lermontov. Perché proprio lui, tutt’ora non lo capisco. Ma non è stato comunque inutile, perché una volta cresciuto ho portato queste opere con me durante le scampagnate: su di esse era facile far prendere fuoco alla legna umida. A Mosca tornammo nel ’45. La nostra casa era stata bombardata. Grazie ad una bustarella ci assegnarono un appartamento che non esisteva. Per quindici anni vivemmo occupando un cantuccio altrui. Portavo cenci rattoppati, il cappotto della nonna rivoltato, del quale mi vergognavo molto, ma un altro non ce l’avevo. Eppure misi le mani su una proprietà particolare: una macchina per scrivere tedesca Messerschmidt di prima della guerra con le lettere dell’alfabeto russo appiccicatevi sopra. Per un anno accantonai i soldi e la comprai, scassata, in un negozio dell’usato, l’accomodai da me e non me ne separai per metà della mia vita. Chissà perché, mi piaceva studiare e lo facevo con ardore. Della prosa di Gogol’ ricordavo interi capitoli. Sapevo metà dell’Evgenij Onegin a memoria, me la cavavo bene in matematica e fisica. L’inglese l’imparai tramite la BBC: un mio compagno di classe mise insieme un ricevitore a onde corte e l’ascoltavamo per ore e ore. Dopo il liceo venni a sapere che quel bravo artigiano era stato arrestato per spionaggio: il suo vicino di casa gli aveva chiesto di fabbricargli un ricevitore per ascoltare la radio estera, ma si rivelò essere una spia. All’età di quindici anni circa decisi di leggere tutti i classici, soprattutto quelli occidentali”.

Prosegue: “Leggevo senza posa e non singole opere, bensì intere raccolte, dal primo volume all’ultimo. Di fare grandi viaggi non lo sognavo neppure, ma avevo sempre Jack London sotto al cuscino. Poteva passarmi per la mente che quarant’anni dopo mi sarebbe capitato di trascorrere una parte significativa della mia vita nella California del nord, non lontano dalla sua casa e dalla sua tomba a Glen Ellen? Fin dall’infanzia mi è rimasta in mente questa citazione da Jack London: “Meglio essere cenere che polvere. Meglio che la mia scintilla avvampi spegnendosi piuttosto che si spenga nel grigiore. Preferisco essere una meteora che divampa piuttosto che un pianeta eternamente dormiente. Il destino dell’uomo è di vivere, non di esistere. Non ho intenzione di sprecare i miei giorni al solo fine di prolungarli. Voglio cogliere il tempo che mi è stato concesso”. Si chiude così la storia di Jurij Druznikov. Ed anche questa è storia dell’Urss.


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