di Carlo Benedetti

Ha visto e vissuto - da vero passeggero del tempo - tutti gli sconvolgimenti storici, politici, culturali e sociali della vecchia Europa nel secolo folle. Testimone e scrittore nato nel cuore del continente e poi lanciatosi nel vortice della intellighentsija mitteleuropea. Ora di questo grande personaggio della storia e della politologia dei nostri secoli restano le opere e le memorie che aumentano in modo vertiginoso il suo prestigio, la sua autorevolezza. Francois (Ferenc) Fejto era nato a Nagykanizsa nel 1909, in Ungheria (tra il lago Balaton e la frontiera croata), ed è morto a Parigi all’età di 98 anni. Ne aveva cinque quando scoppiò la prima guerra mondiale e da ebreo cristianizzato ungherese (si era convertito negli anni Trenta), imparentato con grandi famiglie friulane, amico di infanzia di Rajk e Lukacs, quasi portava nella sua vita concreta tutti i simboli di quel multiculturalismo che l'impero astroungarico racchiudeva mentre aumentavano le fiamme dell’incendio generale. Nel 1931 fu imprigionato per aver partecipato ad un gruppo di studio marxista. E l'elenco successivo delle svolte e delle convulsioni che la sua vita ha patito da cosmopolita obbligato all'esilio (prima da Hitler, poi da Stalin), coincide perfettamente con l'elenco di tutte le tragedie, gli splendori e le svolte del secolo: dalla belle époque al crollo del Muro di Berlino. Una peregrinazione continua - da vero ebreo errante - che ci fa ricordare quanto ebbe a dire Hannah Arendt a proposito delle persone sradicate e cioè che queste rappresentano la categoria più emblematica del XX secolo. E Fejto, appunto, è stato di questi periodi il politologo più credibile.

Era un giovane che, nell’Ungheria dell’ammiraglio Horthy, guardava alla vita quando l'Olocausto e la Seconda guerra gli portarono via amici e parenti. Ed era un uomo fatto quando, fuggito in Francia, (dove, di nuovo, all’epoca di Vichy fu costretto a nascondersi) si impegnò a denunciare lo stalinismo e i suoi crimini e a battersi, insieme al suo amico Albert Camus, a favore della rivolta ungherese del 1956. Ed è appunto in questo periodo del dopoguerra dell’Est che sceglie di raccontare - ripercorrendo la Storia - quel ?h? accadev? realmente di là della ??rtina di ferro. Il risultato è che, per una volta ?n????, finisce al bando, messo in un angolo dalla cultura dominante.

La sua attività di studioso va quindi considerata come un? sorta di sterminato reportage dall'esilio, ??r mantener viv? la memoria di patrie sepolte. Ha raccontato, infatti, la storia di quel piccolo popolo ?h? sono gli ebrei d'Ungheria; h? descritto la rivolta di Budapest del 1956; i drammi della Praga sovietizzata (un libro sul colpo di stato del '48 ? uno sulla tragica primavera di vent'anni dopo).

Resta comunque famoso, per profondità di analisi e dovizia di particolari densi di realismo, quel suo lavoro monumentale intitolato “Storia delle democrazie popolari”. Ma è stato quel libro “Requiem per un impero defunto” che è un vero e proprio affresco storico sulla fine dell'impero ?ustro-ungarico dove mostra ?h? la dissoluzione della monarchia danubiana, non fu "ineluttabile" ??m? si è ? lungo sostenuto, ma invece il risultato di u? disegn? tenacemente perseguito dai capi di Stato dei paesi occidentali, inebriati del principio di nazionalità ? ben determinati ? sbarazzarsi della "patria di tutte le n?zioni": lo Stato in cui un ????, un ungheres?, un ebreo, un ruteno potevano sentirsi ovunque ? casa propria. Queste posizioni mitteleuropee trovano poi in Fejto una sistemazione organica. Il suo libro “Dio e il suo ebreo” ne è la prova.

E c’è poi quel suo “Viaggio sentimentale” - un saggio-romanzo - dove racconta di un viaggio fatto agli inizi degli anni Trenta nei luoghi che furono dell'Impero austro-ungarico, per rivedere affetti e amicizie sparsi dall'Adriatico a Budapest: ma per rivivere soprattutto nei ricordi e nelle impressioni ad essi legati. Un libro in cui i ricordi si mescolano a racconti, interviste politiche e letterarie fatte in Croazia e meditazioni di vario genere. Del suo modo di scrivere si può dire che tutte le sue pagine si caratterizzavano come dure e corpose, dense di realismo e di una forte carica emotiva.

In anni lontani si era aperto ai ricordi di famiglia, alle sue prime letture. “A Nagykanizsa mio padre, libraio, aveva una grande biblioteca multilinguistica e fra quegli scaffali avevo scoperto il Molnar dei Ragazzi della via Pal, il De Amicis di Cuore… Ho mescolato lacrime di commozione per la sorte di Nemecek e del Tamburino sardo…”. Poi per Fejto le grandi avventure nell’Europa rovinata dalla guerra. La passione per la verità, per le sorti di una Mitteleuropa sconvolta dallo stalinismo. E, soprattutto, l’amore per le illusioni e i meriti di quel padre della Cecoslovacchia che fu Thoms Masayk, “erede delle migliori tradizioni della nazione ceca”.

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