di Saverio Monno

Questa é una storia che comincia molto tempo addietro: precisamente il 14 Novembre 2006, quando Sigrid, lettrice della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trieste, moriva suicida. Dopo dodici anni di lotta contro il disagio psichico che periodicamente l’affliggeva, la drammatica decisione di porre fine alle proprie sofferenze. Sigrid amava il suo lavoro e, a dispetto del misero stipendio percepito, nell’insegnamento trovava la forza di andare avanti, di combattere la malattia. L’amore per i suoi studenti la spronava più di qualsiasi ricompensa, ed i suoi ragazzi ricambiavano questo affetto con grande tenerezza. “Alla fine però - scriveva il marito Giorgio, in una lettera aperta al magnifico rettore - il suo senso della giustizia e della dignità avevano prevalso sul suo naturale rifiuto del conflitto ed aveva intentato una causa all’Università per veder riconosciuto il suo diritto ad uno stipendio almeno parzialmente rapportato alla sua attività.” Vince la causa per il periodo 1992-1995, ma l’università, consigliata dall’Avvocatura dello Stato, decide di tornare sui propri passi, e prende nuovamente a riconoscerle “una retribuzione da lavavetri”. Sigrid decide di battersi ancora. Questa volta però, l’ateneo triestino non transige. Il nuovo “affronto” va punito. La donna ha bisogno di “una lezione”. Arrivano, dunque, le prime ritorsioni. Sigrid viene gradualmente isolata. Dice addio all’insegnamento del terzo e quarto anno, ai corsi monografici, ai seminari; perde il diritto di partecipare agli esami orali, è esclusa dalle riunioni di lavoro e dalle discussioni sui programmi d'insegnamento. Rapidamente viene abbandonata anche da quanti, sino al giorno prima, si proclamavano suoi grandi amici. Il colpo è durissimo e Sigrid non ha la forza di combattere ancora. Spetta dunque a Giorgio, compagno di una vita, cercare di ottenere giustizia. Ma è tardi ormai. “Probabilmente - scrive Giorgio Vesnaver - mia moglie sarebbe morta lo stesso giorno, nella stessa ora, se questo era il suo destino. Sicuramente però, il vostro comportamento ha aggravato la sua malattia ed una parte del peso della sua morte grava, a mio parere, sulle vostre coscienze. Forse ora, con troppo ritardo ed alla luce di due sentenze a Vostro sfavore, Vi deciderete a pagare quanto dovuto ai lettori, ma mia moglie ormai non potrà più beneficiarne, stroncata da una malattia alla quale la vostra arroganza ed il vostro disprezzo per i diritti degli altri hanno dato un grosso contributo.”

Il tragico epilogo di questa storia drammatica lascia sgomenti; ciononostante non si è avviata alcuna riflessione in materia ed il diritto dei lettori di madrelingua straniera ad un giusto riconoscimento della propria funzione lavorativa resta argomento insoluto. Il disagio di questi insegnanti ha radici profonde nel tempo. Le difficoltà nascono da anni di politiche miopi ed avventate, frutto di sbagli ammessi, ma mai sanati. Ad inaugurare un trentennio di “vergogne”, la cd. Pedini bis. I lettori, che fino ad allora, erano stati equiparati ai professori associati, divengono “liberi professionisti”. Perdono i contributi previdenziali e la scadenza mensile dello stipendio, ma riescono a mantenere il medesimo livello retributivo. Per il ben servito però, è solo questione di tempo. Cinque anni, infatti, ed anche il salario è oggetto di riforma. Alla drastica riduzione dello stipendio non segue alcuna modifica, né alle mansioni, né all’orario di lavoro.

E’ l’inizio di una storia senza fine. Una vera e propria odissea di leggi, decreti e provvedimenti ad hoc. Ogni governo propone la sua riforma, ma nella sostanza tutto resta impietosamente immutato nelle aule universitarie. Bisogna riguadagnare terreno. Nel ‘95 con la legge 236 i lettori divengono “Collaboratori ed Esperti Linguistici”, l’anno successivo vedono riconosciuto il proprio ruolo di “collaborazione all’apprendimento delle lingue”. Ma si tratta di piccoli passi verso il nulla. Mentre i “tecnici laureati” italiani riescono ad ottenere un riconoscimento effettivo del proprio ruolo di insegnanti, ancora una volta i lettori sono letteralmente “tagliati fuori”. Come Sigrid, sono in molti i “CEL” che ricorrono alle vie giudiziarie ed in molti riusciranno a spuntarla.

Nel frattempo arrivano i primi segnali anche dalla giustizia europea. I giudici del Lussemburgo, a partire dal 1989, emettono ben tre diverse sentenze. In particolare, in quella del 26 giugno 2001, relativa alla causa C-212/99 (Commissione Europea vs.Italia), la Corte di Giustizia Europea dichiara che le università italiane, e di conseguenza lo Stato, hanno riservato ai cittadini di altri Paesi Membri un trattamento differente rispetto ai cittadini italiani, operando, quindi, - in aperta violazione dell’art. 39 (ex art. 48) del trattato istitutivo della comunità europea - una vera e propria discriminazione sulla base della cittadinanza. Tale discriminazione, si fonda sul fatto che, mentre ai lavoratori italiani vengono riconosciuti aumenti salariali, e contributi di sicurezza sociale, i lettori sono, ancora una volta, esclusi da questi benefici.

Nonostante l’Europa faccia la voce grossa, in Italia pochi restano ad ascoltare. Resta tutto immutato sino al 2004, quando il secondo governo Berlusconi adotta d’urgenza (l’Italia rischia infatti, una sanzione di 250.000 euro al giorno) un decreto che equipara i diritti degli ex lettori a quelli dei ricercatori a tempo definito (cd. decreto Moratti). Anche il nuovo provvedimento però non soddisfa le prescrizioni della sentenza della Corte. La Commissione sostiene che l’equiparazione operata dal governo italiano “impone ai lettori uno status che per i cittadini italiani rappresenta una libera scelta”. Inoltre, lavorando a tempo pieno, le ore di lavoro svolte dai lettori sono nettamente superiori a quelle cumulate dai ricercatori a tempo definito, nonostante la retribuzione dei primi sia, mediamente, pari a circa la metà di quella percepita dai secondi. Il Dl 14/01/2004 è respinto - ancora prima della sua conversione in legge - e la stessa Commissione torna a sollecitare la Corte di Giustizia Europea affinché provveda a comminare nuove sanzioni. La corte esegue e giunge a minacciare ammende per 350 mila euro al giorno.

Dopo circa due anni d’impasse, il 18 Luglio 2006, con la sentenza C-119/04, i giudici del Lussemburgo condannano l’Italia. Inspiegabilmente la corte esclude il pagamento di una penalità, ciononostante boccia il decreto Moratti, in quanto riesce a risolvere la situazione solo per le sei università che avevano originariamente presentato ricorso (Università degli studi della Basilicata, di Milano, di Palermo, di Pisa, la “Sapienza” di Roma, l’Orientale di Napoli ndr), e condanna lo Stato italiano al pagamento delle spese.

Il Presidente della Commissione per le petizioni del Parlamento Europeo, Marcin Libicki, è costretto ad ammettere il passo falso della giustizia europea e il 21 novembre 2006, ad una settimana dalla morte di Sigrid, in una lettera sollecitata dai lettori, esorta l’allora ministro dell’Università e Ricerca, Fabio Mussi, ad “intervenire personalmente, per risolvere in via definitiva la questione”. Il successivo 7 febbraio la risposta del ministro. Mussi nicchia, si nasconde dietro la sentenza della corte europea come se questa avesse dato ragione all’Italia. “A seguito della sua nota - risponde a Libicki - in spirito di piena collaborazione con le istituzioni comunitarie, è stata mia cura sottoporre le stesse (riferendosi alle sole università di Milano, Pisa, Palermo, della Basilicata, di Roma “La Sapienza” e all’Orientale di Napoli ndr) ad una nuova verifica e posso quindi fornire ogni rassicurazione circa la regolarità della situazione riscontrata”. Il ministro, non esclude “l’esistenza di controversie tra singoli lettori e gli atenei di appartenenza”: ciononostante si limita a rimarcare che, “conformemente ai principi dell’ordinamento comunitario, tali controversie debbano essere risolte dai giudici nazionali”.

A più di un anno dall’ultimo vergognoso non possumus dello Stato italiano, nonostante le numerose pendenze giudiziarie tutt’ora in atto, l’assoluto silenzio sulla questione resta l’unica risposta fornita a questi lavoratori. Regna l’indignazione innanzi alla freddezza di un sistema-paese che, colpevolmente, quel diritto opprime e discrimina. Poter accedere ad una giusta ricompensa per le proprie prestazioni lavorative, attraverso le quali poter condurre una vita dignitosa, sono prerogative irrinunciabili che, storicamente, appartengono alla tradizione democratica del nostro Paese e costituiscono un diritto inviolabile della persona, diritto indissolubilmente estraneo a qualsiasi criterio di nazionalità.

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