di Giuseppe Zaccagni

E’ stato ed è un simbolo della cinematografia dell’Est: uomo di marmo e uomo di ferro. Icona morale e intellettuale per la storia e la vita del suo paese con il quale ha un rapporto di particolare intensità. E’ considerato come uno dei principali esponenti del cinema mondiale. Ed ora eccolo il polacco Andrzej Wajda - classe 1926 - all’attacco dei paesi dell’ex campo del socialismo reale. Perchè “Katyn” - il suo ultimo lavoro di regista presentato a tre milioni di spettatori polacchi e poi nella capitale tedesca sulla Marlene-Dietrich-Platz, all’ultima edizione della “Berlinale” - sta per spiccare il volo verso capitali che si chiamano Budapest e Sofia, Praga, Bucarest ma, soprattutto, Mosca. E così si ripropone, con forza e drammaticità una riflessione critica sulla vicenda storica di uno dei tabù dell'Europa dell'Est: il massacro di migliaia di prigionieri di guerra polacchi - ufficiali, in gran parte - avvenuto nel 1940 in una foresta russa nei pressi di Smolensk. Qui, le truppe tedesche in ritirata scoprirono, nell'aprile 1943, i resti di 4321 militari polacchi sepolti in fosse comuni. Secondo la versione tedesca, generalmente accolta in un Occidente segnato (non dimentichiamolo...) dall’antisovietismo, si trattava di una parte dei circa 14.300 ufficiali polacchi catturati dall’Armata Rossa nell'ottobre 1939. La conseguente tesi dell'eccidio da parte sovietica venne però respinta dall'Urss, che addossò ogni colpa alla Germania. Le risultanze storiche successive hanno solo sfiorato il nervo scoperto relativo a quel passato. Confermando però - pur se con qualche margine di incertezza - le responsabilità sovietiche. Ed ora centoventiquattro minuti di immagini raccontano ciò che sarebbe accaduto nella foresta di Katyn.

Il film di Wajda, in Polonia, è stato visto da oltre quattro milioni di spettatori. In Russia circola solo grazie a videocassette registrate in occidente. E così il regista pensa di raggiungere i russi in grande stile. Una “prima” che potrebbe segnare una svolta tra i due paesi superando gli anni della censura ma sapendo pur sempre che la pacificazione polacco-russa resta molto indietro rispetto a quella polacco-tedesca. Perchè i fantasmi del passato si agitano ancora in un vortice di testimonianze e prove imbarazzanti, che non convinsero la commissione di Norimberga. Sullo sfondo restano le ombre relative a quell’Armata Rossa accusata di aver assistito, senza reagire, all’insurrezione di Varsavia nell’autunno del 1944. Pesano ancora versioni di parte.

Mentre a Mosca un intellettuale come Nikolaj Gubenko (prestigioso attore e regista, ex ministro della Cultura della Russia) punta a riportare la verità - in versione russa - presentando testimonianze e documenti che mettono in evidenza che l’Armata Rossa fu sempre dalla parte della Polonia, mentre l’insurrezione della capitale fu decisa unilateralmente dal governo polacco in esilio a Londra che non informò lo stato maggiore sovietico. Si riapre, quindi, una dura polemica di ordine storico e militare, mentre è in arrivo il film di Wajda. Lo fa sulla base dell’ormai ampia documentazione cui gli storici possono avere accesso, dopo l’apertura degli archivi sovietici. Intanto a Mosca si ricorda che fu Eltsin, a rendere pubblici gli atti di Katyn, sui quali il silenzio era stato tenuto fino all’ultimo anche da Gorbaciov, per le evidenti ricadute che – non solo la storia quanto i meccanismi messi in moto per il suo occultamento – avrebbe avuto nei rapporti russo-polacchi.

Ed ecco i giornalisti russi che chiedono al regista un giudizio su quanto avveniva ieri e quanto si potrebbe verificare oggi. Wajda risponde notando che i rapporti che esistevano tra gli intellettuali dei due paesi erano di vera amicizia e sincerità. C’era solo la patina della censura che rovinava tutto. Ma fu sempre l’intellighentsija che contribuì ad abbattere le cortine di ferro che separavano i due paesi. Il regista sostiene poi che tutta la vicenda di Katyn è stata “manipolata” soprattutto nel periodo della guerra fredda. E’ servita, spesso, per rinfocolare odi e gettare ombre sulla verità storica. Ma Wajda va anche più a fondo. Dice che gli alleati del periodo della seconda guerra mondiale abbandonarono la Polonia subito dopo la fine della guerra lasciando che i fatti di Katyn venissero sepolti. E anche Gomulka - dirigente massimo della Polonia - si rifiutò di aprire la pagina su Katyn nonostante che Krusciov gli avesse avanzato una specifica richiesta.

Ora, comunque, il film sulla tragedia di quel bosco torna sotto gli occhi di tutti. Ma non è - dice il regista - un’opera di carattere documentario: “Io non faccio documentari - precisa - e ho solo voluto spezzare un tabù. Ma so anche che ci sono forze ben precise che puntano a sostenere che il mio film sarebbe un film antirusso. Non è vero. Io ho fatto questo film da uomo che si sente polacco e russo allo stesso tempo. Ho ripercorso la storia con l’occhio della ragione sapendo bene che in quel bosco di Katyn sono morti polacchi, bielorussi e russi...”.

Wajda respinge poi la definizione di “film politici” che viene data alle sue opere. “Io - dice - non sono un regista politico. Tutti i film che ho girato sono sulla vita degli uomini e non hanno colore. Anche quando ho fatto “L’uomo di ferro” guardavo a Walesa come uomo, ma nel film c’erano anche altri uomini”. E con questa dichiarazione - che fa parte del suo codice di comportamento - Wajda lascia gli ulteriori giudizi ai nuovi spettatori. Ma è chiaro che l’eco di Katyn - e il rapporto dell’Urss con la Polonia nel periodo della seconda guerra mondiale - agiterà ancora le attuali società dell’Est.

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