Che un politico come Boris Johnson abbia potuto ottenere una vittoria schiacciante per il suo partito nelle elezioni anticipate di giovedì è la prova più clamorosa della profondissima crisi politica e sociale che sta attraversando il Regno Unito alla vigilia di una Brexit ormai praticamente certa. I Conservatori hanno letteralmente devastato lo stato sociale britannico in questi anni, mentre il loro attuale leader ha manovrato, mentito, gettato fango ed eluso le proprie responsabilità. Ciononostante, i “Tories” sono stati in grado di incassare la loro vittoria più pesante da oltre tre decenni a questa parte. Il successo di individui come Johnson non dipende d’altra parte dalla capacità di rispondere agli elettori, quanto dalla fedeltà e dal servilismo nei confronti della classe di cui difendono gli interessi.

Sembra uscito dalle cronache internazionali, messo in ombra dalla drammaticità di quanto avviene negli altri paesi latinoamericani, ma il Venezuela, nella morsa del brigantaggio statunitense che oltre ad assediarla con un blocco inumano gli ha già sottratto 7 miliardi di Euro dai suoi conti bancari e sequestrato una società (residente negli USA) per la distribuzione del carburante del valore di 42 miliardi di dollari, continua a svolgere un ruolo di grande interesse internazionale ed è per molti versi un paradigma dello scontro in corso tra modelli alternativi. Il Viceministro della Comunicazione William Castillo, in visita in Italia per incontri e colloqui con forze politiche e sociali, nel corso di una densa conferenza stampa ha illustrato l’attualità del quadro socio-politico venezuelano ed il contesto internazionale che lo riguarda.

Con la presentazione ufficiale degli “articoli di impeachment” che la Camera dei Rappresentanti americana intende contestare a Donald Trump, è ormai certo che il procedimento di incriminazione nei confronti di quest’ultimo sfocerà in un voto dell’aula e nel successivo processo al Senato che dovrà decidere l’eventuale rimozione del presidente degli Stati Uniti. La strategia scelta dal Partito Democratico sembra riflettere la debolezza delle accuse contro l’inquilino della Casa Bianca, la cui permanenza al potere dovrebbe essere oltretutto garantita dalla maggioranza repubblicana alla camera alta del Congresso, tanto da sollevare un più che legittimo interrogativo sulle ragioni che hanno innescato un’operazione destinata con ogni probabilità al fallimento.

Il Washington Post ha pubblicato lunedì una serie di documenti classificati che in molti negli Stati Uniti hanno definito come la versione afgana dei “Pentagon Papers”, apparsi sullo stesso giornale nel 1971 e che documentavano le manovre del governo di Washington in relazione alla guerra in Vietnam. Con le dovute differenze, anche quelli appena rivelati all’opinione pubblica americana e internazionale contribuiscono in effetti a dimostrare come il più lungo conflitto della storia USA sia fondamentalmente un’impresa criminale basata su una montagna di menzogne.

Le circa duemila pagine di documenti in questione contengono interviste e testimonianze di esponenti militari e del governo statunitense, consultati dall’ufficio del cosiddetto Ispettore Speciale Generale per la Ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR). Quest’ultimo è un organo creato nel 2008 con l’incarico di analizzare tutti gli aspetti della guerra nel paese centro-asiatico e di offrire un quadro della situazione attraverso rapporti periodici.

Il processo diplomatico in atto tra Stati Uniti e Corea del Nord continua ad avanzare a grandi passi verso il definitivo fallimento e il probabile imminente ritorno alla situazione di estrema tensione che regnava prima dell’improbabile disgelo tra Donald Trump e Kim Jong-un. La situazione si è aggravata nel fine settimana dopo un test dai contorni non ancora del tutto chiari condotto dal regime di Pyongyang, accompagnato da un avvertimento del presidente americano che è apparso tra i più minacciosi degli ultimi due anni.

Già da qualche mese vengono in realtà registrate quelle che la stampa internazionale definisce per lo più come “provocazioni” da parte della Corea del Nord. Esse servirebbero a fare pressioni sulla Casa Bianca per ottenere qualche concessione nel quadro dei negoziati, in primo luogo l’allentamento delle sanzioni tuttora imposte al paese dell’Asia nord-orientale in cambio dei passi non del tutto trascurabili fatti dallo stesso Kim.


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