Le elezioni presidenziali di domenica in Sri Lanka sono state seguite con estrema attenzione da numerose potenze regionali e internazionali, a cominciare dai governi di Washington, Nuova Delhi e Pechino. Da alcuni anni, questo paese-isola dell’Oceano Indiano è d’altra parte al centro della competizione strategica tra Stati Uniti e India da una parte e Cina dall’altra. La classe dirigente indigena cerca da parte sua di mediare tra le parti, conservando per quanto possibile una politica estera equilibrata, anche se gli orientamenti delle fazioni che si contendono il potere appaiono spesso inequivocabili, come appunto quello sostanzialmente favorevole alla Cina del neo-eletto presidente, Gotabaya Rajapaksa.

Fratello dell’ex presidente, Mahinda Rajapaksa, quest’ultimo ha ottenuto più del 52% dei consensi, staccando con un margine superiore a 1,3 milioni di voti il suo più immediato rivale, Sajith Premadasa, esponente del Partito Nazionale Unito (UNP) e ministro nell’attuale governo al potere a Colombo.

Il successo di Gotabaya Rajapaksa era ampiamente previsto, sia pure non con questa facilità, ed è stato giudicato come l’inevitabile risultato di una campagna elettorale e un’atmosfera nel paese asiatico segnate dal riemergere del nazionalismo buddista della maggioranza cingalese. Il nuovo presidente è anche una figura particolarmente controversa, proprio perché legato a un episodio della storia recente dello Sri Lanka segnato da gravissime violenze intercomunitarie, vale a dire la sconfitta del separatismo Tamil un decennio fa.

Gotabaya Rajapaksa aveva presieduto alla sanguinosa repressione della minoranza Tamil ricoprendo il ruolo di ministro della Difesa nel governo del fratello. Nelle fasi finali del conflitto persero la vita migliaia di civili, molti dei quali presi di mira deliberatamente dalle forze armate cingalesi. Il presidente-eletto è da tempo sospettato di avere fatto ricorso a vere e proprie squadre della morte, così come di avere svolto un ruolo cruciale nella sparizione di politici dell’opposizione, giornalisti e semplici critici della guerra contro le cosiddette Tigri Tamil (LTTE).

Queste “credenziali” di Gotabaya Rajapaksa hanno evidentemente avuto un effetto positivo sulla sua performance elettorale, saldandosi alla promozione di sentimenti anti-induisti e, soprattutto, anti-musulmani dopo gli attentati dell’aprile scorso, rivendicati dallo Stato Islamico (ISIS), contro alcune chiese e hotel che fecero quasi 300 morti. Il partito dei Rajapaksa – Fronte Popolare dello Sri Lanka (SLPP) – si era scagliato ripetutamente contro il governo per avere messo a repentaglio la sicurezza nazionale di fronte al risvegliarsi della minaccia del fondamentalismo islamista.

La retorica del SLPP ha così assunto da subito accenti ultra-nazionalisti buddisti, prevedibilmente concretizzati in una spaccatura nel paese per quanto riguarda il risultato del voto. Le aree del centro, sud e ovest del paese a maggioranza buddista hanno registrato consensi significativi per Rajapaksa, mentre Premadasa ha incassato vittorie a tratti schiaccianti nei distretti in prevalenza musulmani e Tamil, grazie all’appoggio ricevuto dai partiti che rappresentano le due minoranze. Se il neo-presidente subito dopo la diffusione dei risultati ha fatto appello all’unità del paese, il suo giuramento nella giornata di lunedì è avvenuto simbolicamente in un tempio venerato dagli estremisti buddisti cingalesi.

Il ritorno al potere in Sri Lanka di un membro della famiglia Rajapaksa ha immediatamente riacceso il dibattito sugli orientamenti strategici del paese. Nelle elezioni del 2015, i governi di India e Stati Uniti avevano coordinato assieme a una fazione filo-occidentale della classe politica cingalese un clamoroso avvicendamento alla presidenza, principalmente proprio in seguito alla collaborazione sempre più stretta del presidente, Mahinda Rajapaksa, con il governo di Pechino e svariate compagnie cinesi disponibili a investire sull’isola.

Sfruttando l’impopolarità del presidente e le accuse di crimini di guerra contro la minoranza Tamil, la defezione e la successiva promozione di un suo ministro, Maithripala Sirisena, aveva alla fine avuto successo e il cambio alla guida dello Sri Lanka si era subito tradotto in un riavvicinamento a Washington e Delhi. Sirisena aveva rimesso in discussione alcuni accordi e concessioni con la Cina relativi a importanti opere pubbliche. Ben presto era apparso tuttavia chiaro come India e USA non fossero in grado di competere con le opportunità offerte da Pechino.

La competizione per esercitare la propria influenza sul governo cingalese si è spostata perciò nuovamente a favore della Cina, che vede l’isola come uno snodo cruciale nella cosiddetta “Nuova Via della Seta” e, parallelamente, un’occasione per penetrare un’area dell’Oceano Indiano tradizionalmente considerata sotto il controllo di Delhi.

A una dinamica simile si era già assistito nel recente passato per le Maldive, dove attualmente è però al potere un presidente filo-indiano. Altrove, invece, gli sforzi di Delhi sono stati frustrati dalle manovre cinesi, come ad esempio in Nepal. In previsione della possibilità di perdere nuovamente terreno in Sri Lanka, il primo ministro indiano, Narendra Modi, è stato tra i primi a complimentarsi per il successo di Gotabaya Rajapaksa, anche se i toni amichevoli potranno difficilmente sostituirsi ai vantaggi economici, finanziari e strategici offerti a Colombo dalla Cina.

Al di là delle questioni strategiche e della leva del nazionalismo buddista, a influire sull’esito del voto di domenica in Sri Lanka è stato anche un altro fattore. L’amministrazione del presidente Sirisena e il candidato a essa collegato hanno pagato cioè l’implementazione di pesanti misure di austerity, come al solito richieste dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) in cambio di un programma di aiuti per 1,5 miliardi di dollari da erogare in quattro anni.

Il voto contro il governo del UNP ha avuto dunque anche risvolti da collegare alla situazione economica del paese. Rajapaksa, da parte sua, aveva promesso in campagna elettorale un sostanzioso taglio al carico fiscale per stimolare la crescita, penalizzata in particolare dal crollo del settore turistico dopo gli attentati della scorsa primavera. Il peggioramento del quadro complessivo e l’impennata del deficit di bilancio lasceranno però poco spazio a misure diverse da quelle di rigore imposte dal FMI.

In linea generale, il ritorno dei Rajapaksa al potere, con l’ex presidente Mahinda indicato come probabile prossimo primo ministro, prospetta un aggravarsi delle tendenze autoritarie, peraltro già evidenziate in più di un’occasione dall’amministrazione uscente, forse anche attraverso alcune modifiche alla Costituzione. Nel mirino del nuovo governo ci saranno prevedibilmente le minoranze Tamil e musulmana, ma gli affanni dell’economia cingalese e il conseguente aumento delle tensioni sociali minacciano, nel prossimo futuro, l’adozione di misure repressive lungo linee di classe oltre che etniche e razziali.

Un Paese dove il legittimo presidente è costretto all'esilio e un’illegittima figura svolge il ruolo di presidente è vittima di un colpo di Stato. Quando l'esilio del Presidente è deciso dai militari c’è un colpo di Stato. Quando una qualunque parlamentare, senza il voto di nessuna delle due Camere, si autonomina Presidente ad interim con i militari che le pongono la fascia, il Paese è in preda ad un colpo di Stato. Un Paese nel quale si impedisce a Camera e Senato di riunirsi per rifiutare il voto all’impostore autonominata subisce un colpo di Stato. Un Paese dove gli elettori protestano per le strade contro il tradimento delle forze armate e della polizia e vengono uccisi a grappoli, è dove é in corso un colpo di Stato. Quando un Paese straccia di fatto la sua Costituzione è in corso un colpo di Stato. Questo paese è la Bolivia. Il suo autonominato governo è una giunta golpista.
Il quadro è chiaro a chiunque voglia vedere. In Bolivia nessun Senato e nessuna Camera dei Deputati ha mai deposto Evo Morales. La sua rinuncia e quella del vicepresidente Alvaro Garcia Linera è stata forzata e comunque apre una successione in termini di sussidiarietà dei ruoli, che vedono nell’ordine la presidente del Senato e quello della Camera, che di fronte alle rispettive assemblee devono porre a votazione le loro dimissioni. Tutto questo non è mai successo. Ovviamente, risultando impossibile governare il paese dall’esilio, vanno delegati alle figure di Presidente del Senato prima e della Camera poi le funzioni di Capo dello Stato pro-tempore. Sono loro che hanno l’esclusivo mandato costituzionale per indire elezioni e, in attesa del nuovo Esecutivo che dovrà uscire dal voto, garantire il disbrigo degli affari correnti per il governo.

Alcuni esponenti del golpismo internazionale (cioè quella corrente ultraliberista che ritiene le elezioni valide solo se le si vince), affermano che la presidente del Senato avrebbe dichiarato di volersi dimettere. Mettiamo per un attimo da parte la sua lurida storia personale, le sue parentele con il narcotraffico e le sue affermazioni razziste che, sole, ne impedirebbero persino il godimento dei diritti politici, figuriamoci le funzioni presidenziali. Ma l’istituzionalità di un Paese si misura con l’adesione alle procedure stabilite ed al rispetto delle norme previste per il funzionamento dei suoi organi costituzionali e dei suoi codici. Dunque non sono possibili libere interpretazioni di dichiarazioni, estratti di interviste o parole in libertà a poter determinare ruoli, funzioni ed autorità delle cariche dello Stato, dalla prima all’ultima, ovvero dal Presidente della Repubblica fino all’ultimo civil servant.

Dunque, affinché le dimissioni dei presidenti dei due rami del Parlamento possano essere confermate, la procedura impone presentarle al voto dell’Assemblea che può accettarle o respingerle rendendole nulle o, eventualmente, decidere la figura cui assegnare la funzione. Ciò non è avvenuto, le procedure non sono state rispettate, anzi  addirittura impedite: quindi la signora autoproclamatasi presidente non dispone di nessuna autorità giuridico-politica per assumere il ruolo di presidente ad interim. Nemmeno lo stesso Guaidò era arrivato a tanto, nel senso che almeno lui era stato votato come Presidente di una Camera, pure in seguito insubordinatasi contro il dettato costituzionale.
Averla sostenuta è dimostrazione franca di golpismo da parte della destra boliviana e dei militari, ed averle consentito di presentarsi pubblicamente rappresenta anche una ennesima vergogna per le istituzioni internazionali come l’OSA ed alcuni paesi latinoamericani come Cile, Ecuador, Perù e Brasile. Costoro confermano come i rispettivi governi al servizio di militari golpisti e oligarchie razziste disegnino una realtà di dipendenza assoluta dal volere degli Stati Uniti. Dimostrano, altresì, una disponibilità alla cessione di sovranità che ne qualifica la servitù di fronte al padrone del Nord. Proprio questa servitù è lo specchio fedele della repressione e dell’odio di classe che esprimono contro il 99%, a maggior ragione contro la parte più debole ed indifesa. Incapaci di immaginare relazioni di parità tra eguali, concepiscono solo il ruolo di padroni e servi: padroni con il loro paese, servi con gli Stati Uniti.

Ridicole, prive di decenza, carenti di ogni fondamento, sono le acrobazie verbali con le quali gli alleati internazionali del golpismo boliviano cercano di disegnare con inchiostro simpatico gli avvenimenti che hanno portato al colpo di stato, progettato da un anno ed eseguito con la complicità dei paesi di destra vicini. Peraltro, che le elezioni le avesse vinte Evo Morales nemmeno i golpisti lo negano. Si può discutere sulla distanza con Meza, ma non sul fatto che le abbia stravinte. Dunque?
Straordinario il silenzio dell’Unione Europea, che nella vicenda venezuelana si era alzata a difesa della centralità del Parlamento (illegittimo) e che in quella boliviana sceglie di ignorare il Parlamento (legittimo) bloccato. I due pesi e le due misure certifichino come a Strasburgo e a Bruxelles non vi sia nessuna attenzione agli aspetti formali e sostanziali dei processi costituzionali nei rispettivi paesi, ma solo lo schieramento politico che identifica nella guerra totale ai paesi di orientamento socialista lo scopo unico delle sue deliberazioni.

Da parte degli USA non c’è solo l’intenzione di riprendersi gli idrocarburi e il litio boliviano, anche se disporre del coltan venezuelano e del litio boliviano consentirebbe a Washington di ridurre le distanze con la Cina sul mercato della telefonia mobile, dunque di tentare di porre un ostacolo migliore e maggiore all’avanzamento cinese sul G5. C’è anche l’aspetto ideologico di un sistema liberista ormai incapace di riformarsi, di tentare un’ulteriore sviluppo in funzione degli interessi generali. Anzi, la crescente riduzione della platea destinataria di ogni ricchezza riduce inevitabilmente il consenso di massa con conseguenti ripercussioni sugli scenari elettorali continentali. Non a caso lo stesso strumento democratico delle elezioni risulta ormai incompatibile con il mantenimento del sistema.
Questo è quello che succede in Bolivia come pure in Ecuador e in Cile. L’impossibilità di riformare un sistema fallito trova immediata applicazione per le strade. Gli indigeni boliviani sono falciati dalla polizia, una delle entità più corrotte dell’intera America Latina che, con l’autonominata presidente è tornata alla sua specialità storica: abbracci ai governi di destra e fuoco sulle opposizioni di sinistra in piazza. Sull'impossibilità di riconoscere come legittimo questo governo golpista si è in attesa di un pronunciamento del governo italiano. Sulla diffusione della verità circa il governo scandaloso di Quito attendiamo invece le righe dei media di riferimento governativi e dei giornalisti fedeli alla causa dei loro editori. Sarà meglio armarsi di pazienza. Tradurre dall’inglese comporta tempo.

Managua, 16 novembre (Altrenotizie/LINyM).Dal 1° al 3 novembre a L'Avana, Cuba, si è svolto l’incontro di solidarietà antimperialista, per la democrazia e contro il neoliberismo. Per tre giorni, più di 1300 delegate e delegati di 789 organizzazioni, movimenti, reti, piattaforme, comitati,  partiti politici, provenienti da tutti gli angoli del mondo (86 paesi rappresentati), si sono incontrati per discutere, dibattere, condividere esperienze, coordinare lotte, nello sforzo, non sempre facile, di realizzare unità d'azione.

Alla già affollata corsa alla Casa Bianca per il Partito Democratico americano potrebbe a breve aggiungersi un nuovo nome pesante, quello dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg. Il 77enne multimiliardario e fondatore dell’omonima agenzia di stampa si è detto scontento del campo di partecipanti e sembra temere le difficoltà che sta incontrando il candidato democratico “moderato” Joe Biden, insidiato sempre più seriamente da quelli dell’ala “progressista” del partito: Bernie Sanders e, soprattutto, Elizabeth Warren.

Quello che sta accadendo a Gaza in questi giorni sembra essere una nuova aggressione militare israeliana, istigata da Netanyahu, utile ai calcoli politici del primo ministro in un momento cruciale per le sorti del prossimo governo a quasi due mesi dalle inconcludenti elezioni dello scorso mese di settembre. L’ennesima crisi nella striscia era iniziata martedì mattina con la rottura della tregua da parte dello stato ebraico e l’assassinio mirato di uno dei leader dell’organizzazione della resistenza palestinese, Jihad Islamica (JI), nella sua abitazione di Gaza city.

Baha Abu al-Ata era il comandante del gruppo appoggiato dall’Iran per il territorio settentrionale di Gaza. La sua sorte era stata segnata, almeno secondo i media israeliani, dal lancio di missili contro la città di Ashkelon alla vigilia delle elezioni mentre era in corso un comizio di Netanyahu, costretto in quell’occasione a interrompere il suo discorso per trovare un qualche rifugio. Nel bombardamento israeliano di martedì è rimasta uccisa anche la moglie di al-Ata, colpita, secondo alcune ricostruzioni, all’interno di una scuola vicina alla casa del leader di JI. Almeno sette sono stati i feriti, tra cui 4 bambini.

Poco dopo questo attacco, Israele ha con ogni probabilità anche compiuto un blitz in un quartiere di Damasco, in Siria, contro un altro esponente di primo piano di JI, Akram al-Ajouri. L’incursione non ha in questo caso colpito l’obiettivo, ma ha ucciso uno o forse due dei suoi figli. Ajouri era il numero uno dell’ufficio siriano di JI e, secondo il sito Debka File, notoriamente legato alle forze di sicurezza israeliane, curava i rapporti tra la sua organizzazione a Gaza e il comandante delle “brigate al-Quds” iraniane, generale Qassem Soleimani. Per quest’ultima operazione in Siria, in ogni caso, Israele non ha rilasciato conferme né smentite.

I nuovi assassinii decisi da Netanyahu sono stati seguiti dalle promesse di vendetta di Jihad Islamica. Nell’arco di poche ore sono infatti partiti missili diretti contro alcune località nel centro e nel sud di Israele, tra cui Tel Aviv. Alcuni edifici avrebbero subito danni, ma al momento non sono segnalate vittime israeliane. Il sistema difensivo anti-missile dello stato ebraico, noto col nome di “Iron Dome” o “Cupola di Ferro”, ha abbattuto numerosi ordigni prima che raggiungessero i loro obiettivi.

In risposta alla ritorsione di JI, le forze armate israeliane hanno a loro volta bombardato Gaza. Pur avendo l’intera responsabilità del riaccendersi delle tensioni, Israele ha colpito con una durezza nemmeno lontanamente paragonabile a quella dei gruppi palestinesi. Mercoledì il numero dei morti a Gaza ha superato quota venti e le vittime sono state come al solito in maggioranza civili. Secondo le autorità palestinesi, martedì mattina un missile israeliano avrebbe anche colpito l’edificio che ospita la Commissione Indipendente per i Diritti Umani a Gaza city, provocando il ferimento di alcune persone che vi stavano lavorando.

Qualche commentatore ha fatto notare come l’iniziativa israeliana abbia messo in una posizione scomoda Hamas, l’organizzazione rivale ma talvolta alleata di JI che controlla Gaza dal 2006, in un momento nel quale erano emersi segnali di una ritrovata unità palestinese, tanto da fare intravedere la possibilità di tenere elezioni attese da tempo nella striscia.

I leader dell’ala politica di Hamas hanno mostrato un atteggiamento cauto dopo l’assassinio di al-Ata, sia pure condannando Israele e promettendo vendetta. Hamas non ha espresso l’intenzione di unirsi alla rappresaglia di JI, anche se un eventuale intensificarsi dello scontro lascerebbe poche alternative. L’interesse di Netanyahu è evidentemente quello di mantenere e alimentare le divisioni a Gaza e, più in generale, su tutto il fronte palestinese, in modo da impedire una lotta comune contro l’occupazione israeliana.

Sempre per Debka File, i vertici militari di Israele avrebbero anche inviato messaggi alla leadership di Hamas per assicurare che l’operazione contro il comandante di JI non rappresenta un ritorno alla campagna di assassinii mirati contro membri di rilievo della resistenza palestinese. Ciò dovrebbe convincere Hamas a restare fuori dal conflitto e a prendere le distanze da JI, così come a chiarire che Netanyahu non desidera una nuova guerra su vasta scala a Gaza. La contemporanea operazione a Damasco sembra smentire questa notizia, che potrebbe in realtà servire a confondere le acque, con l’obiettivo di allontanare i sospetti circa le motivazioni politiche dell’ultima iniziativa criminale di Tel Aviv.

Gli intrecci politici delle operazioni militari in corso a Gaza sono però evidentissimi. Netanyahu ha da qualche settimana rimesso al presidente israeliano, Reuven Rivlin, il mandato per la formazione di un nuovo esecutivo, dopo avere fallito per la seconda volta consecutiva nel tentativo di mettere assieme una maggioranza in parlamento (“Knesset”). La palla è ora nelle mani del leader dell’opposizione, l’ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz, la cui coalizione “Blu e Bianca” si era aggiudicata un seggio in più del Likud di Netanyahu nelle elezioni anticipate di settembre.

Anche considerando i loro alleati, nessuno dei due schieramenti è in grado di governare autonomamente. Le ipotesi che si stanno discutendo sono perciò essenzialmente tre. La prima, per la quale spinge il presidente Rivlin, è un governo di “unità nazionale” tra Gantz e Netanyahu, con una rotazione dei due leader nella carica di primo ministro. L’ostacolo principale a questa soluzione è il rifiuto di Gantz e dei suoi alleati ad accettare un accordo con il Likud sotto la guida di un Netanyahu minacciato da svariate indagini per corruzione e abuso di potere che potrebbero portare a breve a una sua incriminazione formale.

La seconda opzione è un governo di minoranza guidato da Gantz. Questa strada sembrava la più percorribile nei giorni scorsi e prevedeva quasi certamente l’appoggio esterno di almeno una parte dei deputati della “Lista Comune” che rappresenta la minoranza araba israeliana. L’ultima ipotesi, infine, è un governo, guidato da Netanyahu oppure Gantz, che riceva l’appoggio del partito dell’estrema destra laica Yisrael Beitenu dell’ex ministro della Difesa, Avigdor Lieberman.

Quest’ultimo, in realtà, aveva come obiettivo un gabinetto formato dal Likud e dalla coalizione “Blu e Bianca” di Gantz. Le condizioni di Lieberman sono state considerate tuttavia inaccettabili da entrambi i partiti. Soprattutto Netanyahu si trova nella posizione di non potere liquidare i partiti ultra-ortodossi con cui ha da tempo un accordo di governo e che, in caso di permanenza al potere, gli garantirebbero l’approvazione dell’immunità necessaria a evitargli i processi che sembrano attenderlo a breve. Nei giorni scorsi, Lieberman ha comunque ammorbidito la sua posizione, quando ha fatto sapere che, nel caso uno dei due leader dovesse nuovamente respingere le sue condizioni, garantirà il suo appoggio all’altro.

Vista la crisi sul fronte interno e la sua posizione sempre più precaria, sono in molti a pensare che Netanyahu abbia creato ancora una volta un’emergenza nazionale per i propri interessi politici. Sostanzialmente, la mossa del premier ha l’obiettivo di consolidare le credenziali sul piano della sicurezza nazionale del suo partito e dei suoi alleati, facendo appello agli elettori della destra e di quelli moderati, messi nuovamente davanti a una minaccia creata a tavolino. A preparare il campo in questo senso era stata la recente nomina a ministro della Difesa di uno dei leader del partito Nuova Destra, Naftali Bennett, noto da sempre per le sue posizioni ultra-radicali riguardo la questione palestinese.

Più precisamente, il messaggio di Netanyahu consiste nel dipingere Benny Gantz come inaffidabile per la sicurezza di Israele perché, nel pieno degli attacchi palestinesi, sta valutando la possibilità di allearsi o di collaborare nella formazione di un nuovo governo con la minoranza araba. Infatti, esponenti del Likud e commentatori di destra stanno già criticando Gantz a questo proposito e, spesso, denunciando i deputati della “Lista Comune” araba come una sorta di quinta colonna dei “terroristi” palestinesi.

L’aggravarsi delle tensioni a Gaza e, possibilmente, con l’Iran potrebbe anche beneficiare in un altro modo Netanyahu, attraverso cioè il compattamento della classe politica israeliana attorno alla necessità di un governo di “unità nazionale”. In un clima di isteria collettiva, le pressioni su Benny Gantz potrebbero alla fine risultare tali da convincere il leader del “centro-sinistra” a rinunciare alla condizione finora imposta per governare con il Likud, aprendo così la strada a un nuovo mandato di Netanyahu alla guida dello stato ebraico.


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