Il rischio di un precocissimo fallimento dell’accordo di pace per l’Afghanistan, firmato meno di una settimana fa a Doha tra gli Stati Uniti e i Talebani, ha subito innescato un acceso dibattito su quale delle due parti sia da ritenere responsabile per i recenti episodi di violenza che hanno messo in crisi il fragile processo diplomatico. Poco sorprendentemente, la stampa ufficiale e il governo di Washington hanno puntato il dito contro gli “studenti del Corano” per avere violato la sorta di tregua appena negoziata. Ad uno sguardo più attento, tuttavia, appare evidente come ci si trovi di fronte a un nuovo mancato rispetto degli impegni da parte americana, col pericolo di riaccendere il conflitto proprio mentre all’orizzonte cominciava a intravedersi il miraggio di una soluzione pacifica.

L’establishment del Partito Democratico americano è riuscito in pochi giorni a ribaltare gli equilibri delle primarie, resuscitando la campagna di Joe Biden nel tradizionale appuntamento del “Supermartedì”. Dei 14 stati andati al voto, l’ex presidente ne ha conquistati sorprendentemente nove, inclusi alcuni dove sembrava partire in netto svantaggio rispetto all’ormai ex favorito, Bernie Sanders. I risultati di martedì arrivano come uno schiaffo per le speranze di chi confidava in una trasformazione in senso progressista del sistema politico degli Stati Uniti e, se mai fosse stato necessario, confermano la sostanziale futilità degli sforzi e delle speranze di cambiamento attraverso il Partito Democratico.

Alla terza elezione in dodici mesi, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha riconquistato una parte del terreno perduto per rilanciarsi come principale forza politica dello stato ebraico nonostante i serissimi guai giudiziari che lo vedono coinvolto. Se gli sforzi per la mobilitazione della destra estrema hanno dato in larga misura i frutti sperati, il Likud e il suo leader si ritrovano ancora e almeno per il momento senza la possibilità di mettere assieme una coalizione che possa contare su un numero di seggi sufficiente a garantire una maggioranza parlamentare. Un ulteriore periodo di stallo o una qualche manovra più o meno pulita per sbloccare la situazione di crisi sembrano perciò le uniche opzioni in vista.

Sono bastate poche ore dalla firma dell’accordo di pace tra il governo americano e i Talebani per avere l’ennesima conferma che il percorso diplomatico che dovrebbe mettere fine alla lunghissima guerra in Afghanistan sarà estremamente complicato. Il documento uscito dalla cerimonia organizzata sabato a Doha, in Qatar, si è infatti subito arenato dopo che il presidente afgano, Ashraf Ghani, ha frenato bruscamente sullo scambio di prigionieri con i Talebani, considerato un elemento chiave per far partire le trattative tra questi ultimi e il governo-fantoccio di Kabul. Lunedì, un attacco rivendicato dagli stessi Talebani ha poi di fatto rotto la tregua, provocando due morti e una decina di feriti.

Mentre l’attenzione dell’Europa è catalizzata dalla psicosi-coronavirus, a pochi chilometri dalle coste Ue si consuma una spaventosa tragedia umanitaria. Quella dei profughi in fuga da Idlib, capoluogo dell’ultima regione siriana controllata dai ribelli. La città, occupata dai macellai dell’ISIS, è sotto attacco da parte delle truppe di Assad, spalleggiate dalla Russia e decise a riconquistare il controllo di tutto il Paese. A sostenere i terroristi - che comprendono la coalizione jihadista di Hayat Tahir al Sham, l’ex fronte al Nusra affiliato ad al Qaeda - c’è la Turchia di Erdogan.

La tensione è arrivata al livello massimo giovedì sera, quando un attacco aereo su Bara e Balyoun, a sud di Idlib, ha provocato la morte di 33 militari turchi. La ritorsione di Ankara contro le forze di Assad nella parte nordorientale della provincia è stata immediata.

La Turchia ha invaso il nord della Siria per aiutare l’ISIS a tenere le posizioni, dato che se il nord della Siria fosse sottratto ai siriani, Erdogan ritiene che potrebbe divenire la sede giusta per i kurdi, che verrebbero così cacciati fuori dalla Turchia. A seguito del rovescio militare di giovedì Erdogan ha chiesto una riunione straordinaria alla Nato, di cui fa parte, invocando l’articolo 4 del Trattato, che permette a ogni Paese membro di chiedere consultazioni speciali se ritiene che la sua sicurezza sia minacciata. L’opposizione della Grecia ha reso impossibile la necessaria unanimità e il sultano ha dovuto adeguarsi. Già in passato, il governo turco aveva già chiesto l’imposizione di una “no fly zone” sull’area di Idlib, ma i Paesi dell’Alleanza Atlantica (Usa in testa) hanno evitato finora di farsi coinvolgere così a fondo nell’ultimo capitolo della guerra siriana. La possibilità di uno scontro con la Russia fa paura a tutti.

Erdogan ha però in mano un’arma formidabile, che da anni usa per ricattare l’Europa. I profughi, appunto. Nel 2016 Bruxelles accettò di pagare ad Ankara circa 6 miliardi di euro per tenere i profughi siriani sul proprio territorio. I diritti umani e civili di queste persone vengono calpestati ogni giorno, ma non interessa a nessuno: l’unico obiettivo dell’Ue (o meglio, di Angela Merkel) è tenera chiusa la cosiddetta “rotta balcanica” dei migranti, che dalla Grecia arriva dritta in Germania. Guarda caso, dopo il bombardamento subìto giovedì, la Turchia ha immediatamente minacciato di aprire i confini ai profughi.

La situazione è particolarmente grave perché ai 3,5 milioni di siriani già intrappolati in Turchia si sta aggiungendo un altro mare di persone in fuga da Idlib. La città è abitata oggi da oltre tre milioni di persone, di cui più della metà (circa 1,8 milioni) sfollata in precedenza da altre zone della Siria. Intanto, alcune isole greche traboccano di profughi in condizioni più che disperate: La Repubblica racconta che nei campi di Lesbo spesso i bambini cercano il suicidio.

Se Erdogan desse seguito alla minaccia di aprire le frontiere, l’atteggiamento dell’Europa potrebbe cambiare. Praticamente impossibile, invece, un ripensamento degli Usa, che lo scorso ottobre hanno lasciato la regione permettendo ai turchi di massacrare i curdi siriani, fino al giorno prima i maggiori alleati proprio degli americani nella lotta all’Isis.

Per inciso, vale la pena di notare che - dopo il tradimento dei curdi e l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani, principale artefice della sconfitta del Califfato - la settimana scorsa gli Usa hanno trovato un accordo in Afghanistan con i Talebani. Cioè i criminali che per tanto tempo hanno ospitato Al Qaeda e Osama bin Laden. Peraltro, l’intesa sul ritiro delle truppe Usa non impegna in alcun modo i Talebani a rispettare i diritti civili e delle donne, ferocemente repressi quando erano al potere.

Ma torniamo a Erdogan. L’ostilità con la Russia è una facciata dietro cui si nascondono intese ai massimi livelli. I turchi hanno acquistato da Mosca il sistema missilistico S-400 e sono diventati il principale partner dei russi nel mercato del gas. Questo dopo che le truppe di Ankara - insieme a vari estremisti fedeli al Sultano - sono sbarcate a Tripoli, violando l’embargo internazionale, per difendere il governo di Fayez al Sarraj. Anche in quel caso dall’altra parte della barricata c’è la Russia, alleata di Khalifa Haftar, generale della Cirenaica. Se a prevalere sarà la ragione e la convenienza, Erdogan verrà a patti con Putin sia in Libia che in Siria. Con l’Europa, invece, nulla gli impedisce di continuare a giocare. Come sempre, sulla pelle di milioni di disperati.


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