Il carattere illegale e persecutorio del procedimento in atto a Londra contro Julian Assange è stato nuovamente dimostrato nelle ultime settimane con l’emergere di rivelazioni riguardanti un ordine di sorveglianza di tutte le attività del fondatore di WikiLeaks durante la sua permanenza forzata all’interno dell’ambasciata ecuadoriana nel Regno Unito. La notizia, diffusa dal quotidiano spagnolo El País, smonta o dovrebbe smontare definitivamente l’incriminazione di Assange, i cui basilari diritti democratici sono stati ancora una volta fatti a pezzi in maniera deliberata.

Gli iscritti del Partito Social Democratico tedesco (SPD) hanno respinto nel fine settimana la linea dell’austerity e la collaborazione con la CDU (Unione Cristiano Democratica) della cancelliera Angela Merkel, per scegliere una nuova leadership che rappresenta almeno sulla carta una qualche alternativa progressista. La coppia che dovrebbe guidare il partito, formata dai finora poco conosciuti Norbert Walter-Borjans e Saskia Esken, ha infatti battuto piuttosto nettamente nel ballottaggio decisivo i candidati preferiti dall’establishment socialdemocratico, Klara Geywitz e, soprattutto, il vice-cancelliere e attuale ministro delle Finanze, Olaf Scholz.

Il voto era stato indetto dopo le dimissioni offerte lo scorso mese di giugno dall’allora leader della SPD, Andrea Nahles, in seguito alla pessima prestazione del suo partito nelle elezioni europee. I candidati alla successione si erano presentati in coppie, composte da un uomo e una donna, e le due che si sono affrontate sabato erano quelle con i maggiori consensi ricevuti dopo il primo turno.

Mentre Scholz e Geywitz erano dati come i favoriti in senso assoluto, la necessità del ballottaggio, a causa del mancato ottenimento della maggioranza assoluta al primo turno, li ha penalizzati per via del compattamento dei voti che si erano spartiti i loro rivali. A dire il vero, il 55% ottenuto da Borjans ed Esken testimonia della crescente insofferenza per la deriva della SPD, arrivata a tal punto che la maggioranza dei circa 425 mila iscritti ha finito per premiare due membri del partito semi-sconosciuti grazie a una piattaforma in teoria diametralmente opposta al candidato di gran lunga più noto su scala nazionale, oltre che tra i politici più potenti a livello federale.

Norbert Walter-Borjans ha ricoperto la carica di ministro delle Finanze nel governo dello stato della Renania Settentrionale-Vestfalia dal 2010 al 2017. La sua partner nella segreteria del partito, invece, è un membro del parlamento federale per la SPD. La nuova leadership dovrà essere confermata dal congresso del partito, in programma tra venerdì e domenica. Se vi sono pochi dubbi sul fatto che i delegati ratificheranno la scelta degli iscritti, c’è molta attesa per la mozione programmatica che sarà votata, in particolare per quanto riguarda il futuro della “grosse Koalition” guidata dalla Merkel.

Borjans ed Esken avevano impostato la loro campagna elettorale su una possibile uscita dal governo con la CDU e i cristiano-sociali bavaresi (CSU) se non dovesse esserci una revisione dell’accordo che aveva fatto nascere l’ennesimo gabinetto Merkel nel 2017. Ufficialmente, i due partiti di destra dovrebbero accettare l’introduzione nel programma di governo di iniziative di carattere progressista, come ad esempio l’aumento del salario minimo, una tassa sulle grandi ricchezze e un pacchetto contro i cambiamenti climatici.

Com’è ovvio, la Merkel non ha alcuna intenzione di spostare a sinistra, sia pure in maniera trascurabile, il baricentro politico del proprio governo. Il muro contro muro che si prospetta ha spinto così in questi giorni i media tedeschi e non solo a ipotizzare un voto anticipato nei prossimi mesi. Il ritiro della fiducia al governo di Berlino da parte della SPD appare tuttavia improbabile. I vertici del partito sono fermamente contrari a una crisi di governo. Per cominciare, la SPD, in caso di elezioni federali, andrebbe con ogni probabilità incontro a una nuova batosta, come sembrano confermare i sondaggi che danno il partito attorno al 14%, cioè in netta discesa dopo il già deludente 20,5% del 2017.

Molti commentatori escludono perciò che la nuova leadership socialdemocratica possa decidere di tenere una linea dura con CDU-CSU, fino a forzare un’elezione anticipata. Con la legge di bilancio per il 2020 già approvata, oltretutto, la Merkel potrebbe più o meno agevolmente restare alla guida di un governo di minoranza fino al prossimo appuntamento elettorale del 2021.

L’opzione voto anticipato è poi ancora meno probabile se si considera che la Germania assumerà la presidenza dell’Unione Europea il prossimo 1° luglio e praticamente tutti gli schieramenti intendono evitare scosse politiche in concomitanza con questo evento. Simili scenari potrebbero dunque rendere superflue anche eventuali trattative per imbarcare nel gabinetto federale altre forze politiche in sostituzione della SPD, dai Verdi all’ex partner di governo della CDU-CSU, il Partito Liberal Democratico (FDP).

La Merkel e il suo partito potrebbero piuttosto decidere di accettare alcune proposte dei nuovi segretari della SPD ritenute non troppo destabilizzanti, magari sul fronte delle politiche ecologiste. Ciò potrebbe bastare ad allentare momentaneamente le pressioni e a convincere il duo Borjans-Esken a mettere in stand-by le richieste-chiave del loro programma, rilanciandole in occasione della campagna elettorale del 2021.

Indicazioni più chiare sul futuro del Partito Social Democratico e del governo Merkel emergeranno probabilmente dopo il congresso della SPD nel fine settimana. La crisi di questo partito resterà comunque una questione aperta e, anzi, rischia di aggravarsi proprio in seguito all’elezione della nuova leadership.

I due neo-segretari fanno parte di quella fazione della SPD, composta in particolare dalla sezione giovanile del partito, che vede in un riorientamento verso sinistra, in verità più apparente che sostanziale, l’unico modo per recuperare consensi tra la propria base elettorale di riferimento. La necessità di ritrovare un riferimento politico alternativo alle politiche di austerity senza fine e al pensiero unico neo-liberista è infatti alla base del voto del fine settimana a favore di Norbert Walter-Borjans e Saskia Esken o, più precisamente, contro il ministro delle Finanze Olaf Scholz.

Milioni di lavoratori, giovani e disoccupati tedeschi hanno abbandonato la SPD in parallelo allo spostamento a destra di questo partito, responsabile, fin dalle “riforme” del welfare del governo Schroeder oltre un decennio fa, dell’implementazione di politiche anti-sociali e a difesa dei grandi interessi economico-finanziari che, in definitiva, hanno contribuito all’avanzata dell’estrema destra.

In una situazione che sembra per certi versi quella del Partito Laburista britannico, la SPD odierna si ritrova con i vertici in buona parte favorevoli alla deriva verso destra in atto da tempo e la propria base che spinge invece in direzione contraria. L’approdo alla guida della SPD di due leader teoricamente allineati a quest’ultima tendenza fa dunque intravedere l’esplosione di un conflitto aperto nel partito, già alimentato negli ultimi anni dai ripetuti rovesci elettorali.

Le probabilità che il Partito Social Democratico torni a guardare a sinistra, al di là delle decisioni che verranno prese circa la permanenza nella “grosse Koalition”, sono comunque minime, per non dire inesistenti. La SPD è ormai un partito integrato nel sistema di potere tedesco e, in quanto tale, è stato parte attiva nella contro-rivoluzione operata in questi anni per garantire il salvataggio del capitalismo indigeno.

Mentre, da un lato, i socialdemocratici o una parte di essi cercano di evitare di scivolare nell’irrilevanza politica, i vertici del partito continuano a operare per la promozione di politiche reazionarie sul fronte interno e aggressive su quello internazionale. A dimostrazione della natura del partito, proprio alla vigilia del voto per la nuova leadership socialdemocratica, il parlamento aveva approvato il bilancio federale per il 2020 firmato dal ministro delle Finanze, nonché candidato sconfitto alla guida della SPD, Olaf Scholz.

In esso è previsto, tra l’altro, un sensibile aumento della spesa militare che, in un solo anno, salirà di ben 12 miliardi di euro, nel quadro di un adeguamento alle direttive NATO che prevedono un livello pari al 2% del PIL dei paesi membri. Inevitabilmente, queste risorse dovranno in ultima analisi essere sottratte alla spesa sociale, per andare a finanziare, ovunque gli interessi del capitalismo tedesco siano in gioco, il rilancio di politiche da grande potenza, promosse da tempo e in primo luogo proprio dai leader del Partito Social Democratico.

Il 14 ottobre 2019, in un’intervista alla televisione Giga Vision, il presidente Evo Morales dichiarò di possedere registrazioni comprovanti la preparazione di un colpo di Stato da parte di esponenti dell’estrema destra e di ex militari, da mettere in atto qualora avesse vinto le elezioni. Quel che poi è accaduto non è un vero e proprio colpo di Stato: è un rovesciamento del presidente costituzionale. Niente induce a credere che il nuovo regime saprà stabilizzare il Paese. Sono i primordi di un periodo di caos.
Le rivolte che si sono susseguite dal 21 ottobre hanno indotto a fuggire, l’uno dopo l’altro, il presidente, il vicepresidente, il presidente del senato, il presidente dell’Assemblea nazionale, nonché il primo vicepresidente del senato. Le sommosse non sono però cessate con l’intronizzazione alla presidenza ad interim, il 12 novembre scorso, della seconda vicepresidente del senato, Jeanine Áñez. Il partito di Áñez ha solo quattro deputati e senatori su 130. In compenso, la nomina di un nuovo governo senza indigeni ha spinto gli indios a scendere in piazza in sostituzione dei sicari che hanno cacciato il governo Morales. Ovunque si registrano violenze interetniche. La stampa locale riferisce delle umiliazioni pubbliche e degli stupri. E conta i morti.
Se è evidente che la presidente Áñez ha il sostegno dell’esercito, non si sa invece chi abbia cacciato Morales: potrebbe essere una forza locale o una società transnazionale, oppure entrambe. L’annullamento di un mega-contratto per lo sfruttamento delle miniere di litio potrebbe aver spinto un concorrente a investire nel rovesciamento del presidente. Una cosa soltanto è certa: gli Stati Uniti d’America, che adesso si rallegrano per il corso preso dagli avvenimenti, non li hanno provocati, sebbene cittadini e funzionari USA vi siano probabilmente implicati, come ha affermato il direttore dell’SVR [Servizio d’intelligence internazionale] russo, Sergueï Narychkine.
La pubblicazione della registrazione di una conversazione tra la ministra degli Esteri della Colombia, Claudia Blum, e l’ambasciatore colombiano a Washington, Francisco Santos, in un caffè della capitale statunitense, non lascia dubbi: in questo momento il segretario di Stato USA Mike Pompeo è contrario a ogni intervento in America Latina; ha già mollato l’autoproclamatosi presidente del Venezuela, Juan Guaidó, facendo precipitare nello sgomento la Colombia anti-Maduro, e rifiuta ogni contatto con i numerosi apprendisti putschisti latino-americani.
Sembra che la nomina di Elliot Abrams come rappresentante speciale USA per il Venezuela non sia stata soltanto il prezzo della chiusura dell’inchiesta russa del procuratore Robert Mueller, ma anche un mezzo per farla finita con i neo-conservatori dell’amministrazione. Questo “diplomatico” si è comportato talmente male che in pochi mesi ha distrutto ogni speranza d’intervento imperialista USA in America Latina.

Del resto, il dipartimento di Stato USA è un cumulo di macerie: alti diplomatici hanno testimoniato contro il presidente Trump davanti alla commissione della Camera dei Rappresentanti incaricata dell’impeachment. Ma chi conduce il gioco se non è l’amministrazione Trump a farlo? Evidentemente ci sono ancora residui importanti delle reti create dalla CIA negli anni dal 1950 al 1970. Dopo quarant’anni sono ancora presenti in numerosi Paesi dell’America Latina e possono agire autonomamente, con pochi appoggi esterni.

Le ombre del passato

Quando gli Stati Uniti decisero di arginare l’URSS, il primo direttore della CIA, Allen Dulles, e il fratello, il segretario di Stato John Foster Dulles, esfiltrarono miliziani dell’Asse un po’ ovunque nel mondo per combattere i partiti comunisti. Furono riuniti in un’associazione, la Lega Anticomunista Mondiale (WACL), che organizzò in America Latina il “piano Condor” per una cooperazione fra i regimi filo-USA e per assassinare i leader rivoluzionari, ovunque si rifugiassero. Il generale-presidente boliviano Alfredo Ovando Candia (1965-1970) affidò al nazista Klaus Barbie (il “macellaio di Lione”) la caccia all’argentino Che Guevara. Barbie riuscì ad eliminarlo nel 1967, come nel 1943 aveva fatto con il capo della Resistenza francese, Jean Moulin. Durante le dittature del generale Hugo Banzer Suárez (1971-1978) e di Luis Garcia Meza Tejada (1980-81), Klaus Barbie, assistito da Stefano Delle Chiaie (membro di Gladio, che organizzò in Italia il tentativo del colpo di Stato del principe Borghese), ristrutturò la polizia e i servizi segreti boliviani.
Dopo le dimissioni del presidente statunitense Richard Nixon, gli Stati Uniti si dedicarono alla grande operazione di trasparenza con le commissioni Church, Pike e Rockefeller sulle attività segrete della CIA. Il mondo scoprì soltanto le increspature di superficie, che erano comunque troppo. Nel 1977 il presidente Jimmy Carter nominò l’ammiraglio Stansfield Turner a capo della CIA, con l’incarico di ripulirla dai collaboratori dell’Asse e di trasformare i regimi filo-americani da dittature in democrazie. È perciò legittimo chiedersi come abbiano potuto Klaus Barbie e Stefano delle Chiaie supervisionare fino al 1981 il sistema repressivo della Bolivia.

Evidentemente Barbie e Delle Chiaie erano riusciti a organizzare la società boliviana in modo da prescindere dal sostegno di Casa Bianca e CIA. Gli bastava il sostegno discreto di qualche alto funzionario statunitense e il denaro di qualche multinazionale. Allo stesso modo hanno probabilmente agito i putschisti del 2019. Durante il periodo anticomunista, Barbie favorì l’installazione in Bolivia di croati ustascia che avevano facilitato la sua fuga dall’Europa. Quest’organizzazione terrorista, creata nel 1929, rivendicava in primo luogo un’identità cattolica e aveva il sostegno della Santa Sede nella lotta contro i sovietici.
Nel periodo tra le due guerre compì numerosi assassinii politici, fra gli altri quello, in Francia, del re ortodosso Alessandro I di Jugoslavia. Con la seconda guerra mondiale gli ustascia si allearono con fascisti e nazisti, pur conservando la propria specificità. Massacrarono gli ortodossi e arruolarono i mussulmani. In contraddizione con il cristianesimo cui in origine si riferivano, promossero una visione razzista del mondo e non consideravano gli slavi e gli ebrei come esseri umani a pieno titolo. Alla fine della seconda guerra mondiale gli ustascia e il loro capo Ante Pavelić fuggirono dall’Europa e si rifugiarono in Argentina, dove furono accolti dal generale Juan Perón. Alcuni di loro però rifiutarono la sua politica e si staccarono: il gruppuscolo più intransigente emigrò in Bolivia.

 

Gli ustascia in Bolivia

Quali che siano le ragioni etiche, è sempre difficile rinunciare a uno strumento offensivo. Così non bisogna meravigliarsi che collaboratori cacciati dal presidente Carter dalla CIA collaborarono con il vicepresidente di Ronald Reagan ed ex direttore della CIA, George Bush senior. Alcuni di loro formarono l’Antibolchevik Bloc of Nations; si trattava soprattutto di ucraini, baltici e croati. Tutti criminali oggi al potere. Gli ustascia boliviani hanno mantenuto legami con i fratelli d’armi in Croazia, in particolare durante la guerra del 1991-1995, in cui sostennero il partito cristiano-democratico di Franjo Tudman. In Bolivia hanno creato l’Unione Giovanile Cruceñista, milizia nota per le violenze antirazziali e le uccisioni d’indios aymara. Uno dei vecchi capi, l’avvocato e uomo d’affari Luis Fernando Camacho, è oggi presidente del Comitato Civico pro-Santa Cruz. È lui che apertamente dirige i sicari che hanno cacciato dal Paese l’aymara Evo Morales. Sembra che anche il nuovo comandante in capo dell’esercito, Iván Patricio Inchausti Rioja, provenga dagli ustascia di Croazia. È lui che guida la repressione contro gli indios, munito della licenza d’uccidere della presidente Jeanine Áñes.
La forza degli ustascia boliviani non è nel numero. Sono solo un gruppuscolo. Eppure sono riusciti a cacciare il presidente Morales. La loro forza sta nell’ideologia: strumentalizzare la religione per giustificare il crimine. In un Paese cristiano nessuno osa opporsi spontaneamente a persone che si richiamano a Cristo.Tutti i cristiani che hanno letto o sentito la nuova presidente annunciare il ritorno al governo della Bibbia e dei Quattro Vangeli - lei non sembra fare distinzione tra i due testi - e denunciare i «riti satanici degli indios» ne sono stati scioccati. Tutti hanno pensato fosse adepta di una setta. No, è soltanto una fervente cattolica.
Da molti anni mettiamo in guardia contro i partigiani al Pentagono della strategia Rumsfeld/Cebrowski, che vogliono fare nel Bacino dei Caraibi quanto fatto nel Medio Oriente Allargato. Sotto l’aspetto tecnico, il loro piano si è sempre scontrato con l’assenza di una forza latina, comparabile ai Fratelli Mussulmani e ad Al Qaeda. Tutte le macchinazioni partivano dalla tradizionale opposizione dei “capitalisti liberali” ai “socialisti del XXI secolo”. Non è più così. Ora una corrente interna al cattolicesimo predica la violenza in nome di Dio. Essa rende fattibile il caos. I cattolici latini si trovano nella stessa situazione dei sunniti arabi: devono con urgenza condannare questi individui per non essere travolti dalla loro violenza.

I pochi giorni che mancano al summit di settimana prossima a Londra che celebrerà il 70esimo anniversario della NATO si annunciano particolarmente tesi. Le acque all’interno del Patto Atlantico continuano a essere agitate soprattutto dalle tendenze centrifughe che stanno interessando la Turchia, mentre, su un piano più generale, l’alleanza soffre dello scontro tra gli Stati Uniti di Donald Trump e i principali paesi dell’Europa occidentale, i cui interessi appaiono sempre più divergenti da quelli di Washington.

A giudicare da quanto sostengono i media ufficiali e buona parte della classe dirigente britannica, un’eventuale vittoria del Partito Laburista nelle elezioni anticipate del 12 dicembre prossimo potrebbe rappresentare una vera e propria catastrofe per i circa 300 mila abitanti di fede ebraica del Regno Unito. Una prospettiva di questo genere appare assurda da ogni punto di vista, ma si è infilata in maniera prepotente nel dibattito politico del paese, trasformandosi in un’autentica caccia alle streghe che ha come obiettivo primario quello di impedire l’ingresso a Downing Street del numero uno laburista, Jeremy Corbyn.


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