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- Scritto da Fabrizio Casari
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Evo Morales è giunto in Messico a bordo di un aereo militare inviatogli da Andrès Manuel Lopez Obrador. Perù ed Ecuador hanno negato il diritto di sorvolo all’aereo messicano e la cialtronata rende bene l’idea di cosa siano i governi di Lima e Quito. Evo è stato costretto all’esilio per fermare la caccia all’uomo che i golpisti avevano previsto, che sarebbe terminata solo con la morte del presidente legittimo della Bolivia e del suo vice, Alvaro Garcia Linera.
La stampa ufficiale e i suoi megafoni europei parlano di dimissioni, ma tra dimettersi ed essere costretto a dimettersi c’è una differenza che si chiama Colpo di Stato. E quello avvenuto in Bolivia è, semplicemente, indiscutibilmente, un colpo di Stato. Solo che chiamarlo con il suo nome otterrebbe una condanna da parte di tutti, anche di quelli che ora si fregano le mani, quindi è gara aperta per i possibili eufemismi con cui definire quanto accaduto.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Il fatto che Amazon e gli altri giganti dell’economia americana controllino la politica praticamente a ogni livello non rappresenta ormai più una vera notizia. Che la compagnia di Jeff Bezos venga sconfitta nel tentativo di imporre i propri candidati in una determinata competizione elettorale è invece un evento di rilievo proprio perché inconsueto. In quest’ultimo caso rientra il voto di settimana scorsa per il rinnovo parziale del consiglio comunale della città di Seattle, nello stato americano di Washington, dove l’enorme quantità di denaro sborsato da Amazon per “influenzare” le scelte degli elettori non ha prodotto i risultati sperati.
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- Scritto da Michele Paris
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La disintegrazione degli equilibri politici post-franchisti in Spagna sembra avere raggiunto un punto talmente avanzato da rendere introvabile una soluzione alla crisi in atto anche attraverso il ripetuto ricorso allo strumento fondamentale della democrazia liberale, vale a dire l’esercizio del voto. Alla chiusura del quarto appuntamento con le urne in altrettanti anni nel paese iberico, infatti, le contraddizioni e gli ostacoli alla formazione di un nuovo esecutivo non solo non sono diminuiti rispetto ai mesi scorsi, ma si sono addirittura aggravati.
Il dato più clamoroso e preoccupante delle elezioni anticipate di domenica è stato senza dubbio l’avanzata dell’estrema destra spagnola, dopo che a lungo questo paese era stato considerato più o meno immune dal contagio di “malattie” come populismo e ultra-nazionalismo. Il partito Vox ha invece quasi raddoppiato il numero dei propri seggi nella camera bassa del parlamento di Madrid, passando dai 24 ottenuti dopo il voto dello scorso aprile ai 52 odierni. Il numero di consensi intercettati è aumentato però soltanto di circa un terzo dalla precedente consultazione.
Vox ha inevitabilmente beneficiato di una campagna elettorale e, più in generale, di un clima politico influenzati dalla retorica nazionalista e reazionaria in relazione al persistere della questione catalana. Nel corso della campagna elettorale, il dibattito politico in Spagna è stato d’altra parte caratterizzato da una sorta di competizione tra i leader dei principali partiti nazionali per mostrare l’atteggiamento più duro possibile nei confronti dei separatisti catalani.
Anche tra coloro che chiedevano e continuano a chiedere il dialogo con Barcellona, non sono mai mancati gli appelli tossici al patriottismo e le promesse di applicare in maniera rigorosa la legge spagnola, tradottisi nell’approvazione pressoché unanime dei recenti pesantissimi verdetti contro i leader indipendentisti, arrivati al termine di processi-farsa, per avere organizzato il referendum del 2017. In questo quadro, Vox e il suo numero uno, Santiago Abascal, hanno ricevuto legittimità politica e una copertura mediatica eccezionale, consegnando al partito di ultra-destra un successo elettorale senza precedenti.
Il Partito Socialista (PSOE) del primo ministro, Pedro Sanchez, ha comunque ottenuto ancora una volta il maggior numero di voti (28%) e di seggi (120). Il tentativo di rafforzare la propria posizione con un altro voto anticipato dopo le infruttuose trattative dei mesi scorsi per formare un governo di coalizione o di minoranza è però fallito totalmente. Sia il PSOE sia l’altra principale forza di “sinistra” spagnola, Unidas Podemos, hanno infatti perso terreno.
La strada, auspicata anche nella serata di domenica da Sanchez, verso un gabinetto “progressista” appare perciò ancora più accidentata rispetto ad aprile. I due partiti, già incapaci di stipulare un qualche accordo, per raggiungere la maggioranza assoluta di 176 seggi necessari a governare, si ritroverebbero ancora più dipendenti da quelli regionali, primi fra tutti quelli catalani, usciti rafforzati dalle elezioni e le cui aspirazioni indipendentiste il PSOE ha promesso di estinguere.
La destra, nel suo complesso, ha dunque ripreso fiato, sia pure grazie a un riallineamento del proprio elettorato di riferimento piuttosto che a un allargamento del numero totale dei consensi. L’esplosione di Vox e il guadagno di 22 seggi da parte del Partito Popolare (PP) sono stati cioè in primo luogo la conseguenza di uno spostamento a destra di buona parte di coloro che in primavera avevano votato per il partito relativamente moderato Ciudadanos, il quale ha perso ben 47 dei 57 seggi di cui disponeva.
A favorire la destra è stata anche l’impennata dell’astensionismo. Lo stallo politico e i continui round di inconcludenti negoziati, soprattutto tra PSOE e Unidas Podemos, hanno fatto in modo che il 30% degli elettori spagnoli, cioè sei punti percentuali in più rispetto ad aprile, abbiano rinunciato a recarsi alle urne.
L’ulteriore flessione di Unidas Podemos, in particolare, è probabilmente il risultato della crescente sfiducia di giovani e lavoratori. Questo partito teoricamente anti-austerity ha corteggiato per mesi Sanchez e il PSOE, mostrandosi però esitante nell’entrare in una coalizione di governo o nell’appoggiare dall’esterno un esecutivo a guida socialista in assenza di determinate garanzie.
Le ragioni di questa incertezza sono da ricercare nel timore di essere identificato da un lato con la repressione dei separatisti catalani e dall’altro con le misure economiche in preparazione sul fronte interno di natura non esattamente progressista. Nelle scorse settimane, infatti, Sanchez aveva presentato a Bruxelles la proposta del prossimo bilancio spagnolo che conteneva, tra l’altro, pesanti tagli alla spesa pubblica. I tentennamenti di Unidas Podemos hanno così influito sulla performance del partito, anche se il suo leader, Pablo Iglesias, dopo la chiusura delle urne è subito tornato a chiedere il dialogo col PSOE per mandare in porto un governo che dovrebbe presumibilmente fare da argine alla destra.
In apparenza, le prime dichiarazioni del premier socialista hanno fatto intravedere ancora una volta una possibile preferenza per un gabinetto di minoranza. Questa soluzione, già naufragata nei mesi scorsi, resta tuttavia improbabile. Se le prossime settimane faranno più chiarezza sulle intenzioni delle varie forze politiche, è apparsa subito evidente una certa convergenza sulla proposta di un governo di “unità nazionale” tra PSOE e PP.
Sanchez ha già lanciato segnali in proposito, richiamando le altre forze politiche alla “responsabilità” per uscire dal pantano attuale. Il numero uno dei popolari, Pablo Casado, è stato ancora più esplicito, nonostante i prevedibili attacchi contro il PSOE. A suo dire, la “palla è ora nel campo di Sanchez”, mentre il PP resta in attesa di una proposta concreta da parte del primo ministro. Per rompere lo stallo prolungato, i popolari sarebbero perciò pronti a mostrare tutto il loro senso di “responsabilità”.
La stampa ufficiale spagnola ha da parte sua già dato la propria benedizione a una soluzione di questo genere. Editoriali e commenti favorevoli a una collaborazione PSOE-PP sono stati numerosi già tra la serata di domenica e la giornata di lunedì. In tutti i casi, alla luce del caos di questi ultimi anni e del deteriorarsi della situazione economica e sociale spagnola, un esecutivo con un’ampia maggioranza viene visto come l’unico in grado di stabilizzare il quadro generale e contenere le molteplici forze centrifughe.
Lunedì, al termine di una riunione del comitato esecutivo del PSOE, alcuni esponenti di spicco del partito si sono detti scettici circa un governo col PP. Una simile presa di posizione a livello ufficiale è comprensibile in questo momento, vista l’impopolarità di un eventuale intesa con la destra. Se non dovessero emergere altre soluzioni percorribili, però, è estremamente probabile che i due partiti possano andare in questa direzione.
Uno stretto collaboratore di Sanchez, citato dalla testata on-line Politico.eu, ha confermato come un governo sul modello della “grosse Koalition” tedesca sia l’ipotesi più probabile per sventare un’altra pericolosa elezione anticipata. La fonte anonima ha assicurato che “Casado faciliterà l’investitura di Sanchez”, visto che i due principali partiti spagnoli non possono permettersi di andare nuovamente al voto di qui a pochi mesi. Se così dovesse accadere, ha aggiunto il consigliere del premier, “Vox finirà per demolire entrambi”.
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- Scritto da Atilio Boron
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La tragedia boliviana insegna eloquentemente alcune lezioni che i nostri popoli e le nostre forze sociali e politiche popolari devono imparare e registrare per sempre nelle loro coscienze. Qui, una breve enumerazione, al volo, e come preludio a un trattamento più dettagliato in futuro. In primo luogo, non importa quanto l'economia sia gestita in modo esemplare come ha fatto il governo Evo, la crescita, la ridistribuzione, il flusso di investimenti sono garantiti e tutti gli indicatori macro e microeconomici sono migliorati, il diritto e l'imperialismo non accetteranno mai un governo che non serve ai suoi interessi.
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- Scritto da Carlo Musilli
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Il Brasile recupera un pezzetto di dignità. Dopo 580 giorni di carcerazione illegale, venerdì scorso l’ex presidente Lula è uscito di galera. Non è stato assolto: la Corte Suprema ha però stabilito che non si può rinchiudere un imputato prima della condanna definitiva, e il leader della sinistra brasiliana è ancora in attesa del giudizio finale. Per cui hanno dovuto farlo uscire. Come prima tappa, Lula si è diretto alla sede del suo sindacato, dove ha definito "vergognosi" i media brasiliani, rei di non dare spazio alle accuse emerse negli ultimi mesi contro il ministro della Giustizia, Sergio Moro, che quando era giudice è stato protagonista del complotto contro di lui.
“Non abbiamo vinto nulla ma adesso ho tutte le prove per dimostrare che Moro è stato un bugiardo - ha detto Lula - ed esigo che la Corte suprema annulli tutti i processi. Ho 74 anni ma me ne sento 30. E per 20 ancora lotterò per restituire al Brasile il governo che merita. Si può governare per i poveri e i più bisognosi. Se lavoreremo bene, per il 2022 questa cosiddetta sinistra che fa tanta paura a Bolsonaro sconfiggerà l’estrema destra. Il Brasile si merita di meglio e di più”.
La scarcerazione di Lula è stata accolta con soddisfazione da tutti i leader della sinistra sudamericana: “Viene restituito un uomo diventato un simbolo”, ha commentato l’ex presidente uruguayano Pepe Mujica.
In effetti, Lula è davvero il simbolo di tutto ciò che le destre (e gli Stati Uniti) non sopportano in America Latina. Ex operaio metallurgico e sindacalista, fondatore del Partito dei Lavoratori (PT) e presidente del Brasile per due mandati consecutivi, dal 2003 al 2011, Lula ha portato fuori dalla povertà 32 milioni di persone, aumentando la scolarizzazione nelle aree più depresse e varando riforme per aiutare gli ultimi. Con lui il Brasile - uno dei Paesi dove le disuguaglianze sociali sono più estreme a livello globale - divenne una potenza economica con tassi di crescita a due cifre, capofila dei paesi in via di sviluppo conosciuti come Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).
Per evitare una nuova rielezione di Lula, alle elezioni presidenziali del 2018 la destra non aveva altra possibilità che impedire all’avversario di presentarsi. Ci è riuscita con una macchinazione giudiziaria basata sul nulla: l’ex presidente è stato giudicato colpevole di corruzione per una presunta tangente immobiliare. Secondo l’accusa, Lula avrebbe ricevuto un appartamento dall’azienda Oas in cambio di una serie di favori che avrebbero garantito all’impresa alcuni contratti con Petrobras, la compagnia petrolifera statale brasiliana. Peccato che, tanto in primo quanto in secondo grado, gli inquirenti non siano stati in grado di provare alcunché. L’unico documento esibito dalla Procura è un contratto di acquisto o cessione di un appartamento senza intestazione e senza firma: non compare né il nome di Oas, né quello di Lula o di persone a lui riconducibili.
“All’oligarchia non interessa né la democrazia né la giustizia” aveva commentato il presidente boliviano, Evo Morales, dopo la condanna di Lula. “La vera ragione per la quale si condanna il fratello Lula è per impedire che torni ad essere il presidente del Brasile. La destra non gli perdonerà mai di aver tolto dalla miseria a 30 milioni di poveri”.
Si compiva così il golpe iniziato con la destituzione di Dijlma Roussef e concluso con l’elezione dell’impresentabile Bolsonaro, presidente fascista, razzista, sessista, armaiolo, amico di chi dà fuoco alla foresta amazzonica e vassallo degli Usa di Donald Trump.
La scarcerazione di Lula è senz’altro un bagliore di speranza nel buio pesto che avvolge il Brasile di oggi, ma la verità è che l’ex presidente potrebbe comunque tornare in carcere. La sentenza della Corte Suprema non impedisce infatti al Parlamento di modificare la Costituzione in tema di processi e detenzione. E ci sono già due proposte di legge in questo senso che aspettano solo di essere votate.