La prima vittoria in assoluto della sua carriera politica in un’elezione primaria del Partito Democratico ha permesso sabato sera a Joe Biden di ridare ossigeno a una campagna che sembrava sull’orlo del precipizio. In South Carolina, l’ex vice-presidente americano era il favorito dei sondaggi, ma l’obiettivo di unificare il voto democratico moderato, per cercare di fermare la corsa di Bernie Sanders, resta estremamente complicato e sarà messo subito alla prova tra poche ore nel tradizionale appuntamento del “supermartedì”.

I fallimenti in Iowa, New Hampshire e Nevada sembravano avere assestato un colpo letale a Biden. Sanders, uscito trionfalmente dai “caucuses” del Nevada, era dato in recupero in Carolina del Sud, anche se alla fine ha fatto la differenza l’appoggio garantito a Biden dalla maggioranza degli elettori di colore dello stato, i quali rappresentano una fetta importante dei sostenitori del Partito Democratico. Come in precedenza, Biden ha prevalso anche tra i più anziani, mentre Sanders è stato la prima scelta dei votanti sotto i trent’anni, inclusi quelli afro-americani.

Il risultato finale è stato comunque molto netto a favore di Biden, il quale ha sfiorato il 50% del totale dei consensi (48,4%), contro il 20% del senatore del Vermont. Sanders ha in ogni caso incassato un certo numero di delegati, essendo riuscito a superare la soglia minima del 15%. Nel conteggio complessivo, Sanders mantiene un vantaggio di 12 delegati su Biden, ma sarà il bottino in palio nel “supermartedì” a delineare gli equilibri della competizione in maniera quasi decisiva. Al terzo posto con l’11% si è piazzato il banchiere miliardario Tom Steyer dopo una campagna che aveva puntato tutto sulla South Carolina. Il risultato, nonostante sia stato il migliore per lui nelle quattro elezioni finora concluse, lo ha alla fine convinto ad abbandonare la corsa alla nomination.

A favore di Biden ha giocato dunque la campagna svolta a sua favore dall’establishment democratico in South Carolina e a livello nazionale. Il deputato più influente dello stato che ha votato sabato, James Clyburn, aveva assicurato il suo appoggio all’ex vice di Obama e la scelta ha probabilmente influito sull’opinione di una parte della comunità afro-americana, in particolare quella più in là con gli anni.

Il fuoco incrociato su Sanders, a causa della sua agenda politica troppo di sinistra per consentire un appeal sufficientemente ampio in un’ipotetica sfida contro Trump a novembre, può inoltre avere avuto un qualche peso, soprattutto in uno stato nel quale entrambi i principali partiti nazionali mantengono un orientamento marcatamente conservatore.

La South Carolina ha poi chiarito come altri due candidati dell’ala moderata del partito si siano probabilmente incamminati verso l’uscita dalle primarie, nonostante qualche risultato al di sopra delle aspettative nei primi tre appuntamenti elettorali dell’anno. L’ex sindaco della cittadina di South Bend, Pete Buttigieg, e la senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar, hanno infatti raccolto le briciole sabato e avranno un percorso tutto in salita nella giornata di martedì.

Entrambi potrebbero tuttavia sottrarre consensi cruciali a Biden proprio nel momento in cui entrerà in corsa anche l’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg. Quest’ultimo ha già speso circa 500 milioni di dollari del suo patrimonio personale per cercare di ritagliarsi uno spazio tra i candidati moderati del Partito Democratico e quella quota di consensi sulla quale potrebbe aver messo un’ipoteca rischia di danneggiare proprio l’ex vice-presidente.

Salvo sorprese, nel “supermartedì” dovrebbe essere Sanders a staccare gli avversari. Nei quindici stati e “territori” che voteranno il 3 marzo, il senatore del Vermont è dato in vantaggio in molti, ma soprattutto in California e in Texas, dove il bottino dei delegati in palio sarà il più consistente. Gli equilibri a sinistra sembrano d’altronde già consolidati. L’unica reale sfida a Sanders in questo senso resta quella della senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, che ha perso decisamente spinta nelle ultime settimane. Anche nel suo stato, i sondaggi danno Sanders in vantaggio e una sconfitta in Massachusetts cancellerebbe definitivamente le ambizioni di colei che per un breve periodo era stata nei mesi scorsi la favorita alla nomination democratica.

Anche se Bernie Sanders dovesse uscire rafforzato dal “supermartedì”, è improbabile che i vertici del Partito Democratico accetteranno di appoggiare senza riserve la sua candidatura. Al contrario, un eventuale potente impulso alla sua sua campagna incontrerebbe un rinnovato sforzo dell’establishment per cercare una soluzione alternativa. Un articolo di qualche giorno fa del New York Times aveva riportato l’opinione di decine di “insider” democratici, arrivando alla conclusione che i leader del partito saranno disposti anche a danneggiarlo irreparabilmente a costo di impedire a Sanders di conquistare la nomination.

L’obiettivo principale, in assenza di uno sfidante “moderato” in grado di insidiare Sanders alle urne, resta quello di impedirgli di arrivare alla maggioranza assoluta dei delegati che alla convention di Milwaukee nell’estate dovranno votare per il candidato alla presidenza in base ai risultati delle primarie nei loro stati di provenienza. In questo caso, una seconda votazione vedrebbe l’intervento dei cosiddetti “superdelegati”, cioè esponenti di spicco del partito che non hanno alcun vincolo nella scelta del candidato alla nomination.

Una simile manovra finirebbe per mandare un candidato diverso da Sanders a sfidare Trump, col rischio però di spaccare il partito e assicurare virtualmente al presidente repubblicano un secondo mandato. La maggioranza dell’establishment democratico ritiene, anche se non lo esprime apertamente, più accettabile una conferma di Trump rispetto a una vittoria di Sanders, non tanto per la minaccia rappresentata da un veterano della politica di Washington, anche se nominalmente “socialista”, quanto per le aspettative in senso progressista, per non dire “rivoluzionario”, che il suo successo potrebbe suscitare.

Dopo il “supermartedì”, ulteriori indicazioni sulla forza di Sanders e sui suoi rivali arriveranno il 10 marzo con una manciata di stati al voto, tra cui il primo tra quelli fondamentali del “Midwest” industriale o post-industriale, cioè il Michigan. Una settimana più tardi toccherà poi a Illinois e, soprattutto, Ohio, stato notoriamente decisivo a novembre e dove nel 2016 il voto degli operai bianchi aveva contribuito in maniera determinante alla sorprendente vittoria di Donald Trump su Hillary Clinton.

La polizia di frontiera degli Stati Uniti è di fatto dispensata da qualsiasi conseguenza legale se, nello svolgimento delle proprie funzioni, uccide intenzionalmente o accidentalmente cittadini messicani che si trovano sul territorio del loro paese. Questo è l’esatto risultato di una sentenza della Corte Suprema USA che, basandosi su un appiglio legale, oltretutto in maniera scorretta, ha respinto l’istanza dei genitori del 15enne messicano Sergio Hernandez Guereca, assassinato da un agente americano nel 2010 mentre giocava con alcuni amici nei pressi del confine tra le città di El Paso e Ciudad Juarez.

L’episodio avvenne il giorno 7 di giugno, quando un gruppo di ragazzi messicani si trovava lungo il canale di scolo che delimita la frontiera tra Stati Uniti e Messico. L’agente della “US Border Patrol”, Jesus Mesa, era invece all’estremità del territorio americano e, a un certo punto, aveva iniziato a sparare in direzione dei giovani. Sergio Hernandez era stato colpito fatalmente da almeno due colpi nel tentativo di fuggire.

L’aggressione politica, diplomatica e commerciale al Venezuela ha nel disconoscimento dei suoi organi istituzionali uno dei punti di maggior pressione. Aver riconosciuto un impostore come Presidente e disconoscere invece il Presidente eletto è uno dei passaggi più ridicoli di una campagna di per sé vergognosa. L’Assemblea Costituente è lo strumento che il popolo venezuelano ha eletto per garantire la funzionalità istituzionale del Paese e martedì scorso, presso l'Ambasciata della Repubblica Bolivariana di Venezuela, il dottor Escarrà, presidente della Commissione Affari Costituzionali dell’Assemblea Costituente venezolana,  ha tenuto una conferenza magistrale sul tema della Costituzione bolivariana e dei lavori in corso per il suo approfondimento.

La prima visita in India da presidente degli Stati Uniti di Donald Trump è stata accompagnata questa settimana da un’accoglienza apparentemente calorosissima e, allo stesso tempo, da tensioni nemmeno troppo latenti, che hanno evidenziato sia l’importanza della partnership strategica in piena evoluzione tra Washington e Delhi sia il persistere di una serie di contese tutt’altro che trascurabili. Il presidente americano e il primo ministro indiano, Narendra Modi, hanno ostentato un’indubbia sintonia a livello personale e politico, ma l’entusiasmo che è sembrato trasparire nelle giornate di lunedì e martedì riflette soprattutto l’importanza attribuita alle relazioni bilaterali dalle classi dirigenti dei due paesi per la promozione dei rispettivi interessi su scala regionale e globale.

Numerosi commentatori hanno ricordato come la trasferta indiana di Trump sia stata anche un evento elettorale. La popolazione di origine indiana negli Stati Uniti ammonta a circa quattro milioni, è cresciuta del 38% tra il 2010 e il 2017 e vanta un peso economico e politico sempre più rilevante. Il New York Times ha spiegato inoltre che nella comunità indiano-americana figurano non pochi finanziatori del presidente repubblicano, molti dei quali provenienti dallo stato di Gujarat, base di potere del premier Modi e prima destinazione del viaggio di Trump.

Decisamente più importante è stato però l’obiettivo della Casa Bianca di ribadire e rafforzare il legame con Delhi, dopo che negli ultimi sei anni il governo Modi ha impresso una svolta decisiva alle priorità strategiche dell’India. Modi e il suo partito (BJP) hanno raccolto e accelerato le prime nuove indicazioni di politica estera del Partito del Congresso, integrando l’India, sia pure tra contraddizioni e resistenze, nei piani asiatici americani diretti al contenimento della Cina.

Sull’identità di vedute tra Washington e Delhi ha così insistito Trump nei suoi interventi pubblici e, ancor più, nel celebrare il trionfo delle democrazie americana e indiana. Un’esaltazione, quella delle proprie credenziali democratiche e del governo Modi, che ha peraltro poca o nessuna aderenza con la realtà dei fatti. L’esecutivo indiano di estrema destra, guidato da un politico con oscuri precedenti da probabile facilitatore di sanguinosi pogrom anti-musulmani, è oggetto di condanne e manifestazioni di protesta in questi mesi, in particolare per due iniziative profondamente anti-democratiche.

La prima è la recente legge che modifica le norme sul riconoscimento della cittadinanza indiana e che discrimina in maniera pesantissima la popolazione di fede musulmana. Ripetute dimostrazioni anti-governative sono andate in scena in vari stati dell’India nelle ultime settimane e anche nel corso della visita di Trump si sono registrati scontri con la polizia. A Delhi è esplosa la violenza contro gli indiani musulmani, con un bilancio provvisorio addirittura di 13 morti e oltre 150 feriti tra lunedì e martedì.

L’altra misura che pesa su Modi e gli ambienti fondamentalisti indù dietro al BJP risale alla scorsa estate e consiste nella cancellazione unilaterale dell’autonomia garantita dalla Costituzione allo stato di Jammu e Kashmir, l’unico a maggioranza musulmana di tutta l’India. La decisione di Modi era stata seguita da una dura repressione contro ogni genere di resistenza e da restrizioni delle comunicazioni e di molte altre attività dello stato che solo recentemente sono state in parte allentate.

Massicce manifestazioni di protesta sono andate in scena anche contro le politiche economiche del governo Modi, fatte di austerità e “riforme” del mercato del lavoro in senso ultra-liberista. L’8 gennaio scorso, ad esempio, uno sciopero generale in tutto il paese aveva coinvolto decine di milioni di lavoratori. L’arrivo di Trump in India è stato sfruttato perciò dal primo ministro per esibire il buono stato dei rapporti del suo paese con la prima potenza del pianeta e provare a recuperare una parte di consensi tra la popolazione indiana, al di là della classe media e imprenditoriale che continua ad appoggiarlo a larga maggioranza.

Il valore dell’India per gli Stati Uniti è facilmente spiegato se si pensa alla posizione di questo paese gigantesco all’incrocio di rotte navali e terrestri che collegano il vicino oriente e l’Europa con l’Asia centrale e orientale. La Cina è poi un elemento fondamentale della partnership indo-americana. Mentre per Washington l’India rappresenta un contrappeso all’espansionismo cinese, rafforzato dalle dimensioni territoriali e dal possesso di ordigni nucleari, Delhi intende puntare sull’alleanza con gli Stati Uniti per avanzare ambizioni economiche e militari da grande potenza, nel tentativo di ridurre le differenze tra il proprio livello generale di sviluppo e quello di Pechino.

I legami tra India e Stati Uniti hanno dato una vera e propria scossa agli equilibri della regione, non solo in relazione alla Cina. La partnership strategica festeggiata da Trump e Modi ha infatti aggravato anche le tensioni tra India e Pakistan, con quest’ultimo paese che ha visto a sua volta peggiorare la qualità dei rapporti con Washington, rimediati in parte solo di recente, e rilanciare invece di riflesso la storica alleanza con la Cina.

Dopo il bagno di folla nella città di Ahmedabad lunedì, Trump e Modi hanno discusso delle questioni più calde martedì a Delhi. Gli argomenti su cui hanno concentrato l’attenzione i media indiani e internazionali sono stati soprattutto le frizioni commerciali e la stipula di nuovi accordi per la fornitura di armi americane all’India. Su quest’ultimo fronte, Trump ha annunciato la firma di contratti per oltre tre miliardi di dollari.

Il capitolo armamenti non ha un risvolto soltanto economico, comunque rilevantissimo visto il livello di spesa dell’India nell’ultimo decennio, ma anche e soprattutto strategico. Infatti, Delhi ha dai tempi della Guerra Fredda un rapporto privilegiato con la Russia in questo ambito. Gli sforzi americani hanno dato comunque solo alcuni dei frutti sperati, dal momento che per ora, nonostante la minaccia di sanzioni, il governo Modi non ha mostrato alcuna intenzione di rinunciare all’acquisto del sofisticato sistema di difesa anti-aereo russo S-400, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti.

Sul piano militare, Washington ha fatto ad ogni modo passi importanti per coinvolgere l’India nei propri piani asiatici. Delhi ha accettato di partecipare ad esempio al “dialogo strategico” quadrilaterale, che include Giappone e Australia, oltre naturalmente agli USA, quasi esclusivamente in funzione anti-cinese. Negli ultimi anni, India e Stati Uniti hanno inoltre siglato vari accordi militari, mentre altri sono in fase di studio, che hanno intensificato le relazioni e gli scambi tra le rispettive forze armate, consentendo sempre più una presenza militare “temporanea” americana sul territorio o nelle acque del paese asiatico.

Per quanto riguarda lo scontro innescato dalla guerra commerciale lanciata dall’amministrazione Trump, il vertice tra i due leader non ha prodotto invece risultati degni di nota. L’auspicio della Casa Bianca era di annunciare un qualche accordo, anche parziale o preliminare, durante la visita del presidente, ma egli stesso ha dovuto alla fine ammettere che le trattative per un accordo di libero scambio sono ancora “alle battute iniziali”.

Il dissidio in ambito commerciale si era aggravato lo scorso mese di giugno con la decisione americana di cancellare lo status preferenziale accordato ad alcune importazioni dall’India. Il valore economico dell’iniziativa non era enorme, ma altro discorso andava fatto per quello simbolico, tenendo in considerazione soprattutto che Washington intendeva fare pressioni su Delhi per cancellare i dazi imposti su decine di prodotti importati dagli Stati Uniti.

Non solo, la misura sembrava un’accelerazione della strategia americana volta a sganciare l’India dai legami economici, militari ed energetici consolidati con paesi rivali di Washington. Primo fra tutti l’Iran, da cui l’India importava e continua a importare petrolio, anche se in misura ridotta, malgrado la reimposizione delle sanzioni USA. Tutti questi nodi restano da sciogliere e non ci sono indicazioni concrete che la visita di questa settimana di Trump in India abbia contribuito a farlo.

In generale, il persistere di una certa ruggine tra i due paesi, a fronte di un riallineamento strategico inequivocabile, è il riflesso di almeno due fattori intrecciati tra loro. Da un lato, una parte della classe dirigente indiana vede con sospetto l’abbraccio con Washington, non tanto per reminiscenze da Guerra Fredda, quando il “non allineamento” di Delhi si risolveva nel concreto con l’instaurazione di solidi rapporti con Mosca, quanto per il rischio di perdere le opportunità di crescita offerte da un’eventuale apertura alla Cina e dall’integrazione euro-asiatica in atto sotto forma di “Nuova Via della Seta”.

Dall’altro, non pochi in India ritengono rischioso, se non controproducente, puntare tutte le carte su una potenza che continua a mostrare segni inquietanti di un’avanzata involuzione ultra-nazionalista e anti-democratica e che, in ultima analisi, risulta minacciosa per i suoi stessi alleati se questi ultimi mostrano di voler conservare anche solo un minimo di indipendenza nella gestione della propria politica estera.

La vittoria schiacciante di Bernie Sanders nei “caucuses” del Nevada ha messo di fronte l’establishment del Partito Democratico e i media “liberal” negli Stati Uniti alla possibilità concreta che la marcia verso la nomination del 78enne senatore del Vermont non possa ormai più essere arrestata con metodi leciti. In attesa che le primarie della South Carolina di sabato prossimo e, ancora di più, il “supermartedì” tre giorni più tardi diano maggiori indicazioni sullo stato della competizione, la galassia moderata del partito continua a percorrere due altre strade per cercare di ostacolare la corsa di Sanders, quella del fango e dell’isteria “anti-socialista”.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy