L’assassinio del leader dello Stato Islamico (ISIS), Abu Bakr al-Baghdadi, avvenuto presumibilmente nella mattinata di domenica in Siria, servirà a poco o nulla per stabilizzare la situazione nel paese in guerra o a mettere il Medio Oriente e il resto del pianeta al riparo dalla minaccia del fondamentalismo islamista. Il raid delle forze armate americane solleva però moltissimi dubbi e interrogativi, a cominciare dalla coincidenza dell’operazione con un periodo di profondi mutamenti degli scenari siriani.

Per la prima volta dal 2009, questa settimana un leader politico israeliano diverso da Netanyahu ha ricevuto l’incarico per formare un nuovo governo. Nella serata di mercoledì, il presidente Reuven Rivlin, ha chiesto al numero uno dell’opposizione, l’ex generale Benny Gantz, di fare un tentativo per mettere assieme una maggioranza in parlamento (“Knesset”) ed evitare il terzo voto anticipato in meno di un anno.

Il testimone è passato a Gantz dopo il fallimento annunciato del primo ministro in carica. Se l’uscita di scena di Netanyahu ha un significato simbolico particolare, non è detto che essa sia però definitiva. Il leader della coalizione “Blu e Bianca” si ritroverà davanti infatti gli stessi ostacoli politici e aritmetici incontrati da Netanyahu e l’eventuale estromissione di quest’ultimo dal governo di Israele richiederà scelte complicate e tutt’altro che banali.

Sono decine i morti, centinaia i feriti e quasi duemila gli arrestati. Notizie di violenze ai danni dei prigionieri si succedono e pare che le donne siano i bersagli preferiti. Le forze armate cilene mostrano al mondo la loro meritata fama di aguzzini. Sparano ad altezza d’uomo a ogni essere umano che si muove. Senza nessuna distinzione tra chi protesta pacificamente e chi cerca di difendersi dalla violenza cieca di militari privi di ogni coraggio ed ogni dignità. Le forze armate cilene sono la vergogna del Cile intero.
Ma non di sola ferocia da sbirraglia si tratta. Rendono chiaro chi comanda politicamente quando correggono il presidente Pinera, che è del resto espressione delle elites economiche del paese andino, abituate a chiedere ai militari di salvaguardare la distanza che intercorre tra il loro arricchimento e le sorti del popolo cileno. L’ipoteca generale che i militari hanno sulla cosiddetta democrazia cilena si rivela in molteplici aspetti. Il primo di questi è determinato dalla loro ingiudicabilità e inquestionabilità, ovvero dall'impunità generale per le loro azioni, ammesso che qualcuno pensi un giorno di chiedergliene conto.

E’ una relazione di dipendenza totale, del resto, quella che lega le elites cilene alle forze armate. E’ in loro nome e per loro conto che nel 1973 si rivoltarono contro il governo di Unidad Popular guidato dal socialista Salvador Allende. Una dipendenza che si accoppia a quella nei confronti degli Stati Uniti, che ispirarono il golpe e la transizione successiva e che ora hanno ordinato di fare quel che sia necessario affinché l’ordine regni a Santiago.
La catena di comando cilena è semplice quanto circolare: oltre che della collocazione geopolitica del Cile, le multinazionali statunitensi dispongono delle sue notevoli risorse di suolo e sottosuolo e le elites del Paese, razziste ed ignoranti, dedite al cumulo di vizi e privilegi, svolgono il ruolo di interessati addetti alla tutela del patrimonio. Riassumendo: i militari, che dispongono del Paese, impongono al governo l’agenda di lavoro ma, a loro volta, prendono ordini dal Pentagono. Tutti insieme formano il "modello".

Che offre il modello? Presto detto. Il 30 per cento dei suoi introiti della bilancia commerciale arrivano nelle tasche dell’uno per cento della popolazione e il Cile risulta tra i 15 paesi con più diseguaglianza del mondo. Dunque succede che uno dei paesi con il PIL più alto dell’America Latina è invivibile per il 70 per cento della sua popolazione, dal momento che offre salari africani e prezzi europei. Il debito procapite delle famiglie cilene per arrivare alla fine del mese raggiunge il 48% del PIL. Gli studenti che vogliono laurearsi devono ricorrere a prestiti bancari, dato che le università cilene sono le più care del continente. L’accesso all’acqua è in mano ai privati. Il sistema pensionistico è privato e, nonostante la cifra che verserà il contribuente sarà oltre il doppio di quanto percepirà, i gruppi finanziari che gestiscono i fondi pensione rifiutano le anticipazioni. La sanità è completamente privatizzata per le prestazioni di livello medio alto, essendoquella pubblica solo oggetto di tagli di spesa e destinata quindi a sanità di emergenza.

Trent’anni di tagli ad ogni servizio sociale sono la manifestazione esantematica di questa struttura della dipendenza: se il pubblico scompare, il privato entra e vince. Se il welfare diventa impronunciabile, la speculazione finanziaria sui servizi alla persona diviene il business più redditizio. E’ questa l’essenza del modello, la cifra autentica di un sistema che ha bisogno dell’impoverimento di massa per generare ricchezza per le elites.

Ma non è solo la nostalgia canaglia a muovere gli uniformati cileni, non c’è solo l’istinto criminale a guidarli, c’è una bella fetta di business che li anima. Vi sono diversi elementi che vanno evidenziati nel comprendere l’ardore con il quale i militari sostengono convenientemente questo modello. Il primo è che in un paese dove il sistema pensionistico è completamente privatizzato, i militari sono l’unica categoria a godere di pensioni pubbliche. Quando, nel 1981, Pinochet impose la privatizzazione del sistema pensionistico, le forze armate cilene ottennero l’esonero dalla privatizzazione e continuarono a godere di ciò che è tuttora vigente: un sistema di sicurezza sociale pubblico finanziato e garantito dallo Stato. Dunque sparano addosso a chi chiede per tutti quello che è previsto solo per loro.

E visto che si spara per convenienza, giova sottolineare che il 10% degli introiti dell’industria estrattiva del rame va proprio alle forze armate, che non hanno nemmeno l’obbligo di rendicontazione del denaro che intascano. Il Cile ne è il primo produttore al mondo e con la sua esportazione ottiene all’incirca il 20 per cento delle entrate complessive del Paese. Certo che si scagliano con ferocia su chi vorrebbe cambiare il modello: pecunia no olet. Ottimo business quello dei militari ma davvero una macabra ironia della sorte: il rame, che venne statalizzato da Salvador Allende, è rimasto di proprietà pubblica ma è ora la prima fonte di guadagno proprio per quei militari codardi che tradirono, lui, il popolo e la Costituzione.

Nel silenzio di tomba delle Nazioni Unite, dell'Unione Europea e, neanche a dirlo, della ridicola OSA, il mondo assiste senza profferire verbo alla mattanza cilena. Scatenati contro qualunque paese che difende la sua sovranità e muti contro chi difende la sua sottomissione a Washington, i famosi attivisti di ONG finanziate dalla USAID e i noti operatori umanitari sostenuti da Freedom House, così attenti al Nicaragua e al Venezuela, guardano con attenzione da altre parti. Un caso di presbiopia politica accentuata. 

Il Cile affronta con i mitra in mano la crisi del suo modello. Il Paese non è mai davvero uscito dal pinochettismo, la morte del dittatore non ha eliminato l’ipoteca pesante di forze armate golpiste e genocide che sostengono - e da cui a loro volta sono sostenute - una casta padronale parassitaria. L’impianto giuridico-politico è la degna cornice di un sistema concepito per pochi eletti. Diversamente da quanto avvenuto nell’Argentina dopo il ritorno della democrazia, dove non venne permesso né il perdono né l’oblio, in Cile la Costituzione vigente è quella pinochettista, promulgata il 21 ottobre del 1980, La cosiddetta "era democratica" non ha avuto la forza e la volontà di scriverne una nuova. Il che descrive bene la tipologia del regime, visto che risulterebbe complicato associare alla Costituzione di una dittatura militare fascista un sistema politico democratico. Il suo governo si ispira ideologicamente a Pinochet e le forze armate traditrici e genocide restano con la stessa impronta. 

E’ di scena la versione 2.0 di ciò che conoscemmo l’11 Settembre del 1973, quando un esercito fellone bombardò la sua presidenza, aprì il fuoco contro le sue stesse sedi istituzionali e la sua stessa gente, assassinò il suo Presidente, imprigionò, torturò ed assassinò a decine di migliaia di cileni, annullò i diritti civili e politici ed aprì i suoi forzieri alle multinazionali statunitensi. Dall’oasi del modello alla guerra, il passo di Pinera è stato breve: padroni che si fanno presidenti e oppositori che si accucciano al governo; politicanti che s’improvvisano soldati e soldati che dirigono la politica. Per evitare l’incongruenza, per risparmiarci il paradosso, la realtà cilena si presenta com’è: la fine ingloriosa di un modello feroce tenuto in piedi da militari criminali.

L’accordo sul nord-est della Siria raggiunto martedì a Sochi da Erdogan e Putin potrebbe avere creato, per la prima volta in oltre otto anni di guerra, le condizioni per una risoluzione definitiva del conflitto nel paese mediorientale. A mettere il sigillo sui nuovi scenari che si stanno delineando è stato lo stesso presidente della Turchia, i cui interessi, come ha ben compreso il suo omologo russo, sono stati decisivi per creare un equilibrio sostanzialmente favorevole anche a Mosca e Damasco. Erdogan, cioè, ha salutato dal Mar Nero l’ingresso in una “nuova fase”, pianificata per portare finalmente la pace in tutta la Siria.

In un delicato gioco diplomatico, i leader di Russia e Turchia sono riusciti a far quadrare il cerchio nonostante le posizioni teoricamente opposte sullo scacchiere siriano. Con l’approssimarsi dello scadere del cessate il fuoco, ufficialmente negoziato settimana scorsa dal vice-presidente USA Pence ad Ankara, Erdogan e Putin hanno concordato una serie di punti attorno ai quali si deciderà probabilmente la sorte del conflitto.

Gli elettori canadesi hanno dato lunedì un’altra chance di governo al primo ministro, Justin Trudeau, e al suo progressismo di facciata. Il Partito Liberale non è però riuscito a evitare una sensibile flessione dei consensi né la perdita della maggioranza assoluta in parlamento, tanto che il premier sarà costretto a cercare almeno un alleato per continuare a governare a Ottawa anche nei prossimi quattro anni.

Secondo i dati che arrivano dal Canada, il Partito Conservatore di opposizione avrebbe addirittura superato i liberali nel voto popolare. Il sistema elettorale maggioritario del paese nordamericano ha garantito comunque al partito di Trudeau un netto vantaggio in termini di seggi. I liberali restano relativamente lontani dai 170 necessari a governare in autonomia, come successo dal 2015 a oggi, ma con 157 seggi, contro i 121 dei conservatori, sono di gran lunga la prima forza parlamentare canadese. Nella precedente tornata elettorale, il Partito Liberale ottenne 177 seggi, sull’onda del sentimento di repulsione diffuso nei confronti del governo conservatore uscente.


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