Le elezioni anticipate di domenica scorsa in Austria non hanno riservato particolari sorprese, anche se la composizione, se non la natura, del prossimo esecutivo potrebbe rimanere incerta per settimane o addirittura mesi. Il Partito Popolare Austriaco (ÖVP) dell’ex cancelliere federale, il 33enne Sebastian Kurz, si è confermato la prima forza politica del paese con un margine decisamente ampio. A pagare il prezzo più caro del caos politico registrato a Vienna negli ultimi mesi è stato invece l’ex partner di governo dei popolari, cioè il Partito della Libertà (FPÖ) di estrema destra, la cui partecipazione al nuovo gabinetto resta però un’ipotesi tutt’altro che remota.

Uno dei temi più dibattuti nel corso e a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di questa settimana è stato senza alcun dubbio l’Iran. Gli interventi e le manovre diplomatiche dei rappresentanti del governo di Teheran, di quello americano e degli alleati europei non hanno prodotto significativi miglioramenti della situazione complessiva. Anzi, la linea dura sostanzialmente riconfermata dall’amministrazione Trump e l’ambiguità dell’Europa hanno probabilmente contribuito a far aumentare il pericolo di un nuovo conflitto in Medio Oriente.

Ancora poco prima dell’appuntamento annuale al Palazzo di Vetro a New York erano rimaste in vita esigue speranze di un faccia a faccia tra il presidente americano Trump e quello iraniano, Hassan Rouhani. Questa ipotesi, già in larga misura tramontata dopo i recenti attacchi contro le raffinerie saudite, attribuiti da Washington alla Repubblica Islamica, è svanita completamente dopo il comprensibile rifiuto della delegazione iraniana di fronte alla totale indisponibilità della Casa Bianca a valutare concreti segnali di distensione.

La decisione era nell’aria da alcuni giorni. Il Partito Democratico americano era tornato infatti ad agitare l’ipotesi impeachment dopo le ultime rivelazioni su Donald  Trump. Alla fine, la “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, ha annunciato il lancio formale della procedura di incriminazione del presidente degli Stati Uniti davanti al Congresso di Washington.

Che Trump sia responsabile di avere accelerato l’implementazione di forme di governo autoritarie, spesso in diretta violazione della Costituzione, è innegabile. Che il processo innescato dalla leadership del partito di opposizione negli USA rappresenti uno sforzo genuino per ripristinare la democrazia e il diritto, tuttavia, è quanto meno discutibile.

La minaccia dell’impeachment pendeva su Trump ancora prima del suo insediamento alla Casa Bianca, tanto che a tutt’oggi ci sono sei commissioni della Camera dei Rappresentanti che continuano a indagare su casi relativi alla condotta del presidente. La vicenda che ha però convinto i leader democratici a rompere gli indugi riguarda il presunto tentativo di Trump di convincere il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, a favorire l’incriminazione dell’ex presidente americano, Joe Biden, nel paese dell’Europa orientale.

Con un verdetto che rappresenta una nuova devastante sconfitta per il primo ministro Boris Johnson, martedì la Corte Suprema del Regno Unito ha giudicato “illegale” la sospensione di cinque settimane del Parlamento di Londra che lo stesso capo del governo aveva imposto per cercare di mandare in porto la Brexit con o senza un accordo con l’Unione Europea. La sentenza potrebbe rafforzare il ruolo del potere legislativo nel decidere le modalità dell’uscita del paese dall’UE ma, soprattutto, aggrava ulteriormente la crisi politica in atto, lasciando a Johnson l’opzione di farsi da parte o di ricorrere a manovre ancora più anti-democratiche di quella appena bocciata in maniera clamorosa dal più alto tribunale d’appello britannico.

Un nuovo caso di abuso di potere da parte del presidente americano Trump ha riacceso in questi giorni il dibattito su un possibile imminente procedimento di impeachment nei confronti dell’inquilino della Casa Bianca. Senatori e deputati del Partito Democratico, in parallelo ai media ufficiali di orientamento “liberal”, si sono rapidamente mobilitati dopo l’ennesima fuga di notizie che ha raccontato di come Trump avesse discusso con un leader straniero, poi identificato nel neo-presidente ucraino Volodymyr Zelensky, di informazioni giudicate sensibili dall’intelligence USA e, soprattutto, si fosse adoperato per ottenere vantaggi in chiave elettorale.


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