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La Costa Rica non smette mai di stupire. Presentata come la nazione latinoamericana ‘verde’, ‘ecologica’ e ‘pacifica’ per eccellenza, e collocata dall’Onu al dodicesimo posto dei paesi più felici al mondo e al primo tra quelli dell’America latina, la novella “Svizzera centroamericana” ha però parecchi scheletri nell’armadio. È di pochi giorni fa l’ennesima notizia sulle tragiche conseguenze dell’espansione senza controllo delle monocolture su larga scala. Insegnanti e studenti della scuola primaria “La Ceiba” di Platanar, distretto di Florencia, sono rimasti intossicati a causa della fumigazione con pesticidi della piantagione di ananas Bella Vista che circonda la scuola. Delle 22 persone che hanno cominiciato ad avere mal di testa, nausea e vertigini, 16 sono bambini che frequentano la scuola.
A Congo di Guácimo, provincia di Limón, gli abitanti subiscono ogni giorno gli effetti dell’esposizione alle fumigazioni aeree di pesticidi, mentre nella scuola “El Jobo” di Los Chiles, gli studenti sono stati esposti per anni a sostanze agrotossiche usate nelle piantagioni di ananas che circondavano l’edificio scolastico, solo per fare due esempi.
Tutto ciò avviene sotto gli occhi delle autorità che da una parte promuovono la Costa Rica come un paradiso in terra e dall’altra non si sforzano nemmeno per fissare distanze minime tra una piantagione e le aree abitate, né per regolamentare le fumigazioni con pesticidi in prossimità di centri abitati, scuole e ospedali, né per proteggere la popolazione da una sempre più pressante campagna delle multinazionali che controllano il mercato mondiale delle sementi e dei pesticidi, per l’apertura incontrollata alle coltivazioni transgeniche.
Ben pochi sanno poi che la Costa Rica ha vantato il record mondiale nel consumo di pesticidi per ettaro (18,2kg/Ha). Durante il 2017 sono stati importati 18,6 milioni di chilogrammi di principi attivi, una tonnellata in più dell’anno precedente (fonte Sfe).
Nel 2018 la nazione centroamericana ha importato insetticidi, erbicidi e funghicidi per un totale di 155 milioni di dollari, vale a dire il 23,5% del totale importato dalla regione centroamericana e da Panama (fonte Sieca). Anche se non si raggiungono certo i livelli di criminalizzazione e persecuzione di nazioni vicine come l’Honduras e il Guatemala, chi difende la terra e i beni comuni non ha vita facile. Secondo il movimento ecologista costaricano (Fecon) in quasi 40 anni (1970-2019) si sono registrati almeno 26 omicidi di persone vincolate alla lotta per l’ambiente. Il crimine più recente è stato perpetrato lo scorso marzo contro il dirigente indigeno e difensore dei territori del popolo Bribri, Sergio Rojas Ortíz. Dopo sei mesi il delitto rimane ancora impunito.
Antisindacalismo duro
Ma in Costa Rica non si fa solo a pezzi l’ambiente. La nazione centroamericana è anche tra le più antisindacali dell’intero continente latinoamericano. Secondo dati del Ministero del lavoro (2015) solo il 10% dei lavoratori è iscritto a un sindacato. Nel settore pubblico, dove lavora solamente l’8% degli occupati, il 34% è sindacalizzato, mentre nel settore privato, che raccoglie il restante 92% di lavoratori e lavoratrici, la percentuale è inferiore al 3% e il diritto alla libertà sindacale e alla contrattazione collettiva (Conv. 87 e 98 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, Oil) è praticamente inesistente.
Uno dei settori più combattivi è quello dell’istruzione. L'anno scorso l’Associazione nazionale degli educatori e delle educatrici (Ande) è stata la punta di lancia di un movimento popolare che, per tre mesi, ha bloccato il paese contro una riforma fiscale imposta dal governo. Meno di un anno dopo, il settore istruzione è ancora in piazza, questa volta per difendere il diritto allo sciopero.
Nell'ottobre 2018, il presidente del parlamento, Carlos Ricardo Benavides, presentò un disegno di legge (numero 21049) il cui obiettivo era quello di restringere il diritto di sciopero. Un mese dopo, la deputata conservatrice Yorleni León presentó un nuovo disegno di legge (21097) in cui si negava tale diritto a settori considerati “essenziali”, tra questi l'istruzione pubblica. Venivano inoltre applicate detrazioni salariali a quei lavoratori che avessero aderito a uno sciopero dichiarato poi illegale dalle autorità e si decretava la proibizione di scioperare contro le “politiche pubbliche”.
Il 9 agosto di quest’anno i due disegni sono stati accorpati e la nuova legge è stata alla fine approvata contro venti e maree. La piazza ha reagito. La Ande e altre organizzazioni del settore hanno decretato uno sciopero intermittente e indefinito e hanno chiesto l’intervento immediato del direttore dell’Oil per aprire un tavolo di trattativa.
“Ci siamo riuniti e abbiamo raggiunto vari accordi, tra cui quello di escludere il settore istruzione da quelli considerati essenziali. Purtroppo in parlamento sono poi state presentate varie mozioni che hanno modificato il testo dell’accordo. Non ci hanno lasciato altra scelta e siamo tornati in piazza”, racconta Gilberto Cascante, presidente dell'Ande.
Le organizzazioni di settore hanno inoltre presentato un ricorso per sollevare questione di legittimità costituzionale della nuova legge approvata in prima lettura nei giorni scorsi. Per farlo hanno dovuto raccogliere le firme di dieci deputati e presentare ricorso alla Corte Costituzionale, che ora avrà 30 giorni per pronunciarsi. “Non possiamo cedere, non possiamo perdere il diritto di scendere in piazza a protestare quando vogliono togliere la dignità a lavoratori e lavoratrici. Non possiamo perdere il diritto di sciopero che è un diritto costituzionale”.
I soliti noti
Per Cascante ciò che sta accadendo, non solo in Costa Rica ma nella maggior parte dei paesi dell'America Latina e del mondo, fa parte di “un piano macabro” ordito dal Fmi (Fondo monetario internazionale), dalla Banca mondiale e dall'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). “Criminalizzano la protesta sociale, precarizzano la sanità e l'istruzione e ci trasformano in manodopera a basso costo esposta allo sfruttamento. Siamo di fronte a un modello che peggiora la qualità della vita delle persone, toglie il diritto alla salute, all'istruzione e a un lavoro dignitoso e contribuisce ad arricchire ancora di più i colossi economici nazionali e multinazionali”.
Un'offensiva che gode del sostegno pressoché assoluto dei principali organi d’informazione, come parte integrante della campagna di stigmatizzazione e criminalizzazione dei lavoratori organizzati e della protesta sociale.
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- Scritto da Mario Lombardo
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A pochi giorni da un cruciale appuntamento con le urne, la posizione del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è quella di un animale braccato, con le spalle al muro. In affanno come non mai nei sondaggi, minacciato da procedimenti giudiziari, costretto a fare i conti con la prospettiva di un clamoroso negoziato tra USA e Iran e a districarsi con le pressioni opposte dei potenziali alleati di governo, “Bibi” sta cercando di salvare la sua carriera politica com’è sempre stato solito fare, agitando lo spettro della guerra e attaccando frontalmente ciò che resta dei diritti del popolo palestinese.
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- Scritto da Michele Paris
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Il brusco licenziamento da parte del presidente americano Trump del suo consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, ha fatto trarre un sospiro di sollievo a quanti temevano che gli Stati Uniti fossero sul punto di scatenare una nuova rovinosa guerra di aggressione in qualche parte del pianeta. Soprattutto la crisi iraniana potrebbe trovare un qualche spiraglio per una soluzione diplomatica dopo l’addio alla Casa Bianca di uno dei falchi più irriducibili degli ambienti politici d’oltreoceano. I conflitti e le contraddizioni interne all’apparato di potere USA restano tuttavia fortissimi e le posizioni di Bolton, anche se spesso non espresse in maniera così radicale, sono condivise da molti nella classe dirigente americana.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Un’oscura vicenda di spie sull’asse Washington-Mosca è stata riproposta in questi giorni dalla stampa americana probabilmente con lo scopo di screditare ancora una volta il presidente Trump e ridare una qualche attendibilità alla caccia alle streghe del “Russiagate”. CNN e New York Times, nella serata di lunedì, hanno raccontato dell’esistenza di un informatore della CIA, inserito ad altissimo livello al Cremlino, e di come fosse stato fatto uscire dalla Russia nel 2017 perché a rischio di essere “bruciato”, tra l’altro, dall’imprudenza di Trump e dalla sua attitudine troppo tenera nei confronti di Vladimir Putin.
Tutt’altro che casualmente, le due testate americane che hanno dato notizia della presunta super-spia americana al Cremlino sono state tra le più attive in questi anni nel promuovere le macchinazioni del “Russiagate”. Le rivelazioni o presunte tali, inoltre, sono come sempre non il frutto del lavoro investigativo dei giornalisti di CNN e Times, bensì di imbeccate dell’intelligence a stelle e strisce, di cui il network e il principale giornale “liberal” americano svolgono spesso e volentieri la funzione non ufficiale di portavoce.
La CIA, dunque, avrebbe reclutato il funzionario russo in questione “decine di anni fa”, quando ricopriva un incarico di “medio livello” nell’apparato di governo del suo paese. Il suo avanzamento di carriera sarebbe stato poi folgorante, fino a consentirgli di ottenere una prestigiosa e influente posizione “ai massimi livelli del Cremlino”. L’informatore russo non faceva parte però della ristretta cerchia di consiglieri e collaboratori di Putin, ma aveva comunque accesso ai processi decisionali del governo di Mosca.
Questa straordinaria fonte di informazioni ultra-riservate provenienti dal Cremlino si era ritrovata improvvisamente in pericolo dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti e l’esplosione della campagna mediatica relativa alle “interferenze” russe nelle elezioni americane che, nel novembre del 2016, avrebbero appunto favorito la vittoria del magnate newyorchese sull’ex segretario di Stato, Hillary Clinton.
La posizione ormai precaria della “talpa” al Cremlino aveva spinto così i vertici della CIA a procedere con la sua “estrazione” dalla Russia, in modo da garantirgli il trasferimento in tutta sicurezza in territorio americano. Il funzionario aveva però declinato l’invito a lasciare il suo paese, suscitando per qualche tempo il sospetto di essere una doppia spia, per poi invece accettare qualche mese più tardi, quando le circostanze erano forse diventate estremamente pericolose a Mosca.
Questa è in sintesi la versione della storia proposta da CNN e New York Times. Pur non essendoci modo di verificare le informazioni degli articoli pubblicati lunedì, visto che l’intera ricostruzione si basa su rivelazioni di membri dell’intelligence USA, i motivi per dubitare della notizia sono molteplici.
In particolare, i reporter del Times sostengono che le informazioni di gran lunga più preziose fornite alla CIA dall’informatore del Cremlino, anzi le uniche informazioni passate agli americani di cui si parla nell’articolo, hanno a che fare guarda caso col “Russiagate”. L’informatore sarebbe stato cioè determinante nel dimostrare come Putin abbia “ordinato e orchestrato” la campagna di interferenze nei processi elettorali USA per favorire l’elezione di Trump. Una delle modalità con cui questo disegno sarebbe stato delineato a Mosca è l’hackeraggio del server del Comitato Nazionale del Partito Democratico che avrebbe rivelato e-mail imbarazzanti sul tentativo dei vertici di questo partito di boicottare la candidatura di Bernie Sanders, principale sfidante di Hillary Clinton nelle primarie.
Queste accuse, date per certe dal New York Times, sono state ampiamente screditate e, malgrado la presunta esistenza di prove irrefutabili provenienti direttamente dal Cremlino, di esse non è mai emersa traccia in tre anni di indagini giornalistiche e procedimenti giudiziari.
Le rivelazioni di questa settimana, forse proprio perché con poco o nessun fondamento, contengono svariati riferimenti alla loro sensibilità e importanza. Sempre secondo il Times, ad esempio, il materiale passato a Washington dalla spia americana a Mosca era così delicato che nel 2016 l’allora direttore della CIA, John Brennan, aveva deciso di non discuterlo durante i briefing giornalieri con Obama e i suoi consiglieri, ma lo inviava separatamente al presidente in buste accuratamente sigillate.
Il punto più controverso degli articoli citati riguarda però la possibile causa alla base della decisione di “estrarre” la spia del Cremlino dalla Russia. La CNN sostiene che ciò fu dovuto “in parte” alla predisposizione di Trump e della sua amministrazione a utilizzare in maniera inopportuna le informazioni di intelligence. In altre parole, la CIA temeva che il presidente potesse rivelare al governo russo l’esistenza di una “talpa” con accesso a Putin.
Anche questa tesi è stata abusata negli ultimi anni e, per riproporla al pubblico americano, il Times e la CNN riprendono un altro episodio spesso al centro delle accuse dei sostenitori del “Russiagate”, vale a dire un incontro alla Casa Bianca del maggio 2017, quando Trump ospitò Sergey Lavrov e Sergey Kislyak, rispettivamente ministro degli Esteri russo e ambasciatore di Mosca a Washington. Dopo questo evento furono accesissime le polemiche contro Trump, accusato da più parti di avere fornito alla delegazione russa informazioni riservate.
In definitiva, la rivelazione sulla spia piazzata ad altissimo livello al Cremlino sembra servire soprattutto a ravvivare la campagna contro Trump per i suoi legami inopportuni con Mosca. La strategia non è peraltro nuova. Come hanno fatto notare alcuni commentatori indipendenti, la pubblicazione su giornali come New York Times o Washington Post di notizie relative a spie americane in Russia ricorre in più occasioni, dall’estate del 2017 a oggi, e, in tutti i casi, si rendeva conto delle preoccupazioni ai vertici dell’intelligence USA per la possibile scoperta dei propri informatori proprio mentre il loro lavoro veniva rivelato dalla stampa “mainstream”. Il tutto, ancora una volta, per screditare la Casa Bianca e creare un clima di ostilità nei rapporti tra Washington e Mosca.
Che poi gli Stati Uniti dispongano di spie o informatori all’interno dell’apparato dello stato in Russia, e viceversa, è pressoché certo. Il prestigio delle posizioni che essi ricoprono e la qualità delle informazioni che sono in grado di ottenere restano però tutte da verificare. A giudicare dalla reazione di Mosca alle notizie circolate nei giorni scorsi, l’importanza attribuita alla “talpa” americana al Cremlino potrebbe essere decisamente esagerata.
Martedì, il governo russo ha infatti identificato nella spia al centro del racconto di Times e CNN l’ex funzionario governativo Oleg Smolenkov. Per il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, quest’ultimo lavorava per l’amministrazione Putin ma è stato licenziato parecchi anni fa e in nessun modo aveva accesso al presidente.
Il nome di Smolenkov è stato fatto dal governo di Mosca dopo che era apparso in rete a seguito alle rivelazioni di New York Times e CNN, anche se i media americani non ne avevano riportato il nome. I sospetti su Smolenkov erano stati fortissimi già nel 2017. Nel mese di luglio di quell’anno, infatti, era scomparso nel nulla da una località del Montenegro dove si era recato in vacanza con la famiglia. Le autorità russe avevano sostenuto di avere indagato la vicenda come un possibile omicidio, ma era stato da subito chiaro che si era in presenza di una probabile storia di spionaggio.
Per il giornale russo Kommersant, i servizi segreti di Mosca avevano ben presto abbandonato le indagini dopo avere scoperto che Smolenkov e la sua famiglia erano vivi e, utilizzando il loro nome, risiedevano all’estero in una località dello stato americano della Virginia, non distante dal quartier generale della CIA.
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- Scritto da Michele Paris
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I negoziati tra il governo americano e i Talebani per mettere fine al conflitto in Afghanistan sono stati ufficialmente sospesi dall’intervento del presidente Trump su Twitter nella serata di sabato. Il motivo della rottura sarebbe un attentato, condotto settimana scorsa a Kabul dagli stessi Tabelani, che ha fatto una dozzina di vittime tra cui un soldato americano. Al di là delle apparenze, gli ostacoli a una soluzione diplomatica per la guerra in corso da quasi 18 anni sembrano avere però motivazioni più profonde che vanno collegate sia alle divisioni all’interno dell’apparato di potere USA sia alla precarietà della posizione di Washington nel paese centro-asiatico.
Secondo i “tweet” di Trump, il presidente afgano, Ashraf Ghani, e una delegazione della leadership talebana avrebbero dovuto essere ospitati per un evento in programma domenica presso la residenza presidenziale di Camp David, nello stato del Maryland. Non è del tutto chiaro quale avrebbe dovuto essere l’obiettivo del clamoroso summit, ma è facile ipotizzare che Trump intendeva attribuirsi il merito di uno storico accordo di pace dopo mesi di trattative.
L’attentato che avrebbe fatto saltare l’incontro era avvenuto giovedì scorso, quando nella capitale afgana un’esplosione rivendicata dai Talebani aveva ucciso dodici persone, inclusi un militare americano e uno del contingente romeno facente parte delle forze di occupazione NATO. Trump ha motivato la sua decisione improvvisa di cancellare il summit di Camp David, del quale non vi era stata notizia in precedenza, con l’impossibilità di condurre trattative o finalizzare un’intesa di pace con un’organizzazione sanguinaria, pronta a massacrare innocenti solo “per conquistare una posizione di forza” nei negoziati.
Considerando la situazione complessiva del teatro di guerra afgano, questa spiegazione non ha semplicemente senso. L’escalation della violenza nel paese è in corso da mesi e ha anzi seguito il procedere stesso delle trattative a Doha, in Qatar. I Talebani hanno continuato a mettere in atto operazioni in molte aree strategiche, da Kabul a Kunduz, senza che i colloqui subissero anche solo rallentamenti.
All’inizio della scorsa settimana, ad esempio, un’operazione nella “zona verde” di Kabul, sede di numerose ONG e delle rappresentanze diplomatiche occidentali, aveva fatto 18 vittime e provocato non poche proteste tra la popolazione. Praticamente in concomitanza della strage, tuttavia, l’inviato americano per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, aveva annunciato il raggiungimento di un accordo “di principio” con i Talebani. Esso prevedeva il ritiro entro cinque mesi di oltre 5 mila soldati USA da alcune basi attualmente occupate e, in seguito e a due condizioni, degli altri 8 mila. La prima condizione era il raggiungimento di un accordo tra i Talebani e il governo di Kabul, mentre la seconda l’impegno che l’Afghanistan non avrebbe più ospitato sul proprio territorio gruppi terroristici intenti a colpire gli Stati Uniti.
Le stesse forze di occupazione hanno a loro volta intensificato le operazioni di guerra nel corso del 2019. Nonostante la stampa occidentale risulti quasi sempre molto vaga in proposito, sono svariati i segnali dell’implementazione di una campagna decisamente più aggressiva contro gli “insorti”. Le statistiche delle Nazioni Unite danno un’idea di quanto accaduto in questi mesi, visto che, ad esempio, nei primi tre mesi dell’anno le forze USA-NATO hanno causato un numero maggiore di vittime civili rispetto ai Talebani.
La realtà è dunque quella di una situazione nella quale entrambe le parti nel conflitto hanno dato un impulso alle operazioni di guerra precisamente per posizionarsi in maniera favorevole nel corso dei negoziati e per ottenere condizioni migliori in un eventuale accordo di pace.
A impedire un esito positivo delle trattative sono anche le posizioni divergenti all’interno dell’amministrazione Trump circa la strategia da perseguire in Afghanistan. La stampa americana ha parlato di uno scontro tra una fazione favorevole a un accordo con i Talebani, che fa capo al segretario di Stato Mike Pompeo, e un’altra contraria riferibile in particolare al consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Bolton.
Un recente articolo del Washington Post aveva rivelato come lo stesso presidente e gli ambienti vicini a Pompeo avessero cercato di emarginare Bolton in merito all’agenda afgana, così da evitare che il super-falco “neo-con” potesse boicottare i negoziati. Le posizioni di Bolton devono essere però condivise anche da altri ai vertici militari e della diplomazia americana, visto che la cancellazione dell’evento di Camp David ha segnato una vittoria almeno momentanea dei fautori della linea dura nei confronti dei Talebani.
La questione della permanenza di un contingente militare o di uomini della CIA in Afghanistan dopo un eventuale accordo con gli “studenti del Corano” è un altro fattore irrisolto e fonte di divisioni a Washington. Esso si sovrappone alla diatriba interna sull’approccio ai Talebani, i quali infatti non sembrano disposti ad accettare nulla di meno di un’evacuazione completa delle forze di occupazione dal loro paese.
Come su altri temi internazionali, a cominciare dalla Corea del Nord, il vero problema sembra essere la mancanza di una linea unitaria e coerente da parte americana. Sull’amministrazione Trump continuano d’altra parte ad avere influenza forze contrastanti e i ripetuti conflitti interni sono il riflesso di politiche imperialiste distruttive che, dopo molti anni dal loro lancio, hanno creato scenari estremamente complessi e contradditori, nonché di difficilissima soluzione.
Nel caso dell’Afghanistan va anche aggiunta la freddezza del governo di Kabul nei confronti di un accordo finora negoziato solo tra Washington e i Talebani e che non avrebbe probabilmente dato alcuna garanzia di sopravvivenza alla classe politica coltivata dagli Stati Uniti dopo l’invasione del 2001. Il presidente afgano Ghani, infatti, già venerdì scorso aveva fatto sapere che la sua visita programmata negli USA non avrebbe avuto luogo.
Questo e altri elementi emersi dopo i “tweet” di Trump hanno fatto pensare a molti al di fuori dei circuiti della stampa ufficiale che lo stesso vertice di Camp David fosse un’invenzione del presidente, il quale avrebbe deciso di rivelare il summit e contemporaneamente annullarlo per ragioni di opportunità politica. Alcuni residenti della contea del Maryland dove sorge la residenza presidenziale hanno fatto notare come non ci fosse alcun segno dei preparativi che solitamente caratterizzano eventi importanti come quello annunciato da Trump. Inoltre, la coincidenza dell’arrivo negli Stati Uniti di una delegazione di Talebani con l’anniversario dell’11 settembre avrebbe sollevato fortissime polemiche contro la Casa Bianca.
La questione cruciale per l’immediato futuro è comunque ora quella della sorte dei negoziati di pace. Il fatto stesso che Trump abbia rivelato un vertice segreto mai andato in porto, quindi teoricamente senza bisogno di darne notizia, lascia intendere che la sua amministrazione resti aperta al dialogo, nonostante la quasi certa sospensione delle trattative per qualche settimana o mese.
Le probabilità di un esito positivo restano però molto basse, a giudicare dal quadro generale del paese centro-asiatico. Trump vorrebbe mantenere la promessa di chiudere un conflitto interminabile e impopolare per favorire la sua rielezione, ma l’unica via d’uscita sembra essere un accordo con i Talebani, i quali a loro volta si sentono sufficientemente forti da poter respingere la richiesta degli Stati Uniti di mantenere un contingente militare in Afghanistan per garantire i propri interessi strategici.
In questa situazione di sostanziale stallo, ciò che appare scontato è ancora e sempre la prosecuzione delle operazioni di guerra per il prossimo futuro e il conseguente inevitabile aggravamento del bilancio delle vittime civili.