- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Anche se dai protagonisti della crisi iraniana continuano ad arrivare segnali contradditori, le forze che si stanno muovendo attorno alla vicenda sembrano provocare un costante deterioramento del clima generale, fino a prospettare una pericolosa escalation del confronto tra Teheran da una parte e i governi occidentali e i loro alleati nel mondo arabo dall’altra. Questa tendenza verso il precipitare degli eventi è chiaramente visibile nella decisione della Casa Bianca di imporre sanzioni contro il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ma anche nella possibile creazione di una o più pattuglie navali per garantire la sicurezza delle petroliere in transito nelle acque del Golfo Persico.
Le misure punitive decise mercoledì contro Zarif segnano uno dei punti più bassi e imbarazzanti di quella che a stento può essere definita la politica estera dell’amministrazione Trump. Tra lo sbalordimento di diplomatici e osservatori, le sanzioni ai danni del capo della diplomazia di Teheran erano state ipotizzate già a fine giugno, in concomitanza con un altro colpo di genio della strategia iraniana di Washington, cioè le sanzioni contro la guida suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei.
Il dipartimento del Tesoro USA in quell’occasione aveva sostenuto di volere rimandare una decisione in merito allo status di Zarif per non chiudere del tutto la porta a un più che improbabile dialogo con l’Iran. Questo impegno per la pace o presunto tale era giunto dopo che l’amministrazione Trump aveva fatto di tutto per distruggere i modesti passi verso la distensione suggellati nel 2015 con l’accordo sul nucleare di Vienna (JCPOA).
- Dettagli
- Scritto da Giorgio Trucchi
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Jorge Cuc Cucul, 77 anni, è stato assassinato il 25 luglio mentre lavorava nel suo campo di mais. Cuc era presidente della struttura locale del Comitato per lo sviluppo contadino, Codeca, nel villaggio Paracaidista, Livingston. Con lui sono già 14 i dirigenti del Codeca, un movimento indigeno e contadino molto attivo a livello nazionale, assassinati in poco più di un anno.
Il primo fu Luis Marroquín, membro della direzione nazionale, ucciso con nove colpi di arma da fuoco agli inizi di maggio 2018. Il Suv con i vetri oscurati da cui sono scesi i sicari era di proprietà del sindaco di San Pedro Pinula, fedelissimo del presidente guatemalteco Jimmy Morales. A nessuno interessò e questo particolare fu presto dimenticato, come furono dimenticati gli altri omicidi per i quali non c’è una sola persona in carcere.
L'impunità regna sovrana in Guatemala e la giustizia continua a essere a doppio binario: alta velocità quando si criminalizza la protesta sociale e a passo d’uomo quando si indaga su membri dell’oligarchia guatemalteca o delle forze armate.
- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Se a Washington esistesse una vera opposizione politica contro la deriva neo-fascista dell’amministrazione Trump, i fatti che stanno accadendo in questi giorni a Portorico potrebbero facilmente ispirare una mobilitazione di massa contro un presidente profondamente impopolare e che agisce sempre più spesso in violazione dei principi costituzionali americani. Nell’isola caraibica, ufficialmente un “territorio non incorporato” degli Stati Uniti, un’ondata di manifestazioni di protesta ha infatti costretto qualche giorno fa alle dimissioni il governatore, Ricardo Rosselló, gettando l’intera classe politica in una crisi senza precedenti.
Per comprendere anche solo superficialmente i fatti, è necessario ricordare che le condizioni di vita a Portorico hanno raggiunto da tempo livelli insopportabili per ben oltre la metà di una popolazione di 3,2 milioni di abitanti. La situazione era iniziata a precipitare con il collasso della situazione finanziaria dell’isola e la successiva creazione, da parte dell’amministrazione Obama, di un vero e proprio organo dittatoriale.
- Dettagli
- Scritto da Mario Lombardo
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Dopo l’ottavo fine settimana di proteste popolari a Hong Kong, il governo cinese ha deciso lunedì di emettere per la prima volta una dichiarazione ufficiale sulla situazione sempre più delicata nell’ex colonia britannica. Le parole del portavoce dell’ufficio cinese dedicato agli affari di Hong Kong e Macao, Yang Guang, hanno confermato l’estremo nervosismo di Pechino e l’intenzione dei vertici del Partito Comunista di non fare alcuna concessione ai manifestanti, le cui azioni di questi mesi sono state interamente attribuite a interferenze straniere.
A partire da venerdì scorso, vari gruppi di protesta avevano nuovamente attraversato la città registrando una partecipazione che, secondo i dimostranti, avrebbe superato le 300 mila unità. Seguendo una tendenza già mostrata nelle ultime settimane, le manifestazioni sono state portate nei luoghi più frequentati da cittadini stranieri e, soprattutto, provenienti dalla Cina, come ad esempio nell’aeroporto internazionale, in modo da cercare di sensibilizzare e di coinvolgere nella mobilitazione il maggior numero possibile di persone non residenti a Hong Kong.
Com’è noto, le proteste erano iniziate ai primi di giugno con l’obiettivo di costringere le autorità locali, appoggiate da Pechino, a cancellare una proposta di legge che avrebbe introdotto l’estradizione da Hong Kong alla Cina dove, secondo gli oppositori del provvedimento, i diritti legali fondamentali degli accusati non sarebbero stati rispettati. Dopo il ritiro della legge, le manifestazioni non sono però cessate, ma si sono anzi rapidamente allargate a richieste più ampie, collegate alla piena garanzia di diritti democratici, alla lotta contro la corruzione e alle condizioni economiche e sociali della maggior parte della popolazione di Hong Kong.
Il governo di Pechino aveva finora mantenuto una posizione cauta nei confronti di quanto sta accadendo nella metropoli tornata sotto il proprio controllo nel 1997 con la formula di “un paese, due sistemi”. Il contingente militare cinese di stanza a Hong Kong è rimasto perciò nelle caserme, lasciando i compiti di ordine pubblico alla polizia locale, anche se recentemente è stato protagonista di un’insolita esercitazione che in molti hanno giudicato come un avvertimento ai rivoltosi.
Decisamente più esplicito è apparso invece il monito lanciato lunedì da Pechino. Il portavoce dell’ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao, come già anticipato, ha espresso la piena solidarietà del governo della madrepatria alle forze di sicurezza della città e ha avvisato che la Cina non permetterà ai tentativi di destabilizzazione in atto di raggiungere i propri scopi. Questi tentativi sarebbero opera di “persone irresponsabili” che, in Occidente, stanno adottando una “strana logica” per cui atti “criminali violenti” suscitano “simpatia e approvazione”, mentre la polizia nello svolgimento delle proprie funzioni viene duramente criticata.
Lo stesso portavoce è andato poi al cuore delle preoccupazioni cinesi quando ha spiegato che le intenzioni di paesi occidentali non meglio precisati sono di “provocare il caos a Hong Kong”, rendendo la città semi-autonoma un problema per Pechino, così da aggiungere un altro tassello alla strategia di “contenimento dello sviluppo cinese”.
La Cina, in sostanza, ha compreso da tempo che nella crisi di Hong Kong è in gioco una parte della propria legittimità a porsi come potenza planetaria in grado di coinvolgere un bacino sempre più ampio di paesi negli ambiziosi progetti di sviluppo economico e commerciale in fase di implementazione. Questa minaccia è chiaramente da ricondurre alle manovre soprattutto americane per contenere la crescita cinese e impedire che il paese diventi un pericolo per la supremazia militare e strategica di Washington in Asia e nel resto del pianeta.
La lettura ufficiale della situazione di Hong Kong da parte di Pechino è dunque prevedibilmente quella di una protesta orchestrata e alimentata da governi stranieri ostili, riconducibile in larga misura al paradigma delle cosiddette “rivoluzioni colorate”. Questa interpretazione è almeno in parte corretta. Infatti, governi e media occidentali stanno dando parecchio spazio alle manifestazioni e assumendo posizioni critiche nei confronti delle autorità filo-cinesi di Hong Kong e dello stesso governo cinese. Ancor più, svariati leader di opposizione e gruppi coinvolti nell’organizzazione delle dimostrazioni hanno legami ben documentati con il governo americano o, più precisamente, con soggetti ufficialmente impegnati nella promozione della democrazia ma in realtà poco più che strumenti della CIA, come il National Endowment for Democracy (NED).
Nel corso delle proteste di queste settimane si sono potuti osservare ad esempio invocazioni esplicite al ritorno al periodo coloniale britannico oppure manifestanti che sventolavano bandiere americane e chiedevano un intervento diretto di Washington e Londra. In altri casi, poi, sono apparse chiare inclinazioni reazionarie di stampo nazionalista e con toni marcatamente anti-cinesi che, in definitiva, rientrano anch’essi in un disegno, per quanto illusorio, di fare di Hong Kong una sorta di avamposto occidentale alle porte della Cina.
Su un piano più generale, è evidente che gli scrupoli occidentali per il trattamento dei dimostranti di Hong Kong e per le loro aspirazioni democratiche sono a dir poco fasulli. Infatti, è quasi superfluo ricordare come l’indignazione di media e politici in Occidente sia come al solito altamente selettiva e di fatto introvabile in occasione di altre durissime repressioni, come ad esempio nel caso dei “gilet gialli” in Francia o delle proteste contro le brutalità della polizia esplose in varie città americane negli anni scorsi.
Se le interferenze straniere, reali o potenziali, sono indubbiamente un fattore, allo stesso tempo ridurre gli eventi di Hong Kong soltanto a una cospirazione occidentale appare come una scorciatoia per eludere problemi complessi di natura economica, sociale e politica che affliggono la realtà dell’ex colonia britannica.
Anche solo pensare che la mobilitazione di centinaia di migliaia di persone, su una popolazione di circa 7,5 milioni di abitanti, sia il semplice frutto di suggestioni fomentate da Washington appare quanto meno una forzatura. Più di una rilevazione statistica in queste settimane ha evidenziato d’altra parte come la protesta incontri l’approvazione della maggioranza degli abitanti della città. Inoltre, leader politici di opposizione e personalità del mondo degli affari, solitamente collegati agli organizzatori delle manifestazioni o considerati come simpatizzanti di queste ultime, più recentemente hanno essi stessi espresso apprensioni e riserve per un movimento che rischia di mettere a repentaglio la stabilità dell’intero sistema.
Se è fuori discussione che il movimento di protesta contro le autorità filo-cinesi e, in particolare, contro la numero uno del governo di Hong Kong, Carrie Lam, abbia un carattere multiforme e, per certi versi, confuso, le manifestazioni spesso oceaniche affondano in buona parte le radici nelle difficoltà che incontrano milioni di abitanti della metropoli nel soddisfare i propri bisogni primari.
Hong Kong è una delle città con le disuguaglianze sociali e di reddito più profonde di tutto il pianeta e la forbice tra una ristretta cerchia di super-ricchi e il resto della popolazione ha continuato ad allargarsi dopo il 1997. Numerosi studi e reportage giornalistici hanno documentato le difficoltà anche di residenti con un elevato tasso di scolarizzazione a raggiungere un livello di vita appena dignitoso, come dimostra tra l’altro la piaga diffusa delle abitazioni letteralmente di una manciata di metri quadrati in cui molti lavoratori sono costretti a vivere, spesso assieme alle loro famiglie.
Questa realtà vissuta da milioni di persone a Hong Kong contribuisce a spiegare sia la rapidità con cui hanno raccolto consensi le manifestazioni sulla legge dell’estradizione sia l’allargarsi delle proteste ad altre questioni. Queste ultime non sono ovviamente solo quelle economiche e sociali, ma anche politiche nella misura in cui il progressivo assorbimento di Hong Kong da parte della Cina continentale comporta un restringimento o una liquidazione degli spazi democratici per ora garantiti alla città.
I fatti di Hong Kong non sono d’altronde un evento isolato a livello globale, ma si inseriscono in una tendenza fatta di aumentate tensioni sociali che praticamente in tutti i continenti si stanno manifestando con proteste e scioperi contro gli effetti generalizzati della crisi del capitalismo e i tentativi delle varie classi dirigenti di farne pagare le conseguenze ai lavoratori.
In questa prospettiva, le denunce delle interferenze occidentali da parte delle autorità di Pechino nascondono un timore forse ancora maggiore, quello cioè che quanto accade a Hong Kong possa contagiare la Cina, dove le tensioni sociali covano sotto le ceneri e dietro un’apparente solidità di un regime nominalmente “comunista”. Questa paura che attraversa la dirigenza cinese, assieme allo spettro di una “rivoluzione colorata” eterodiretta, rende ancora più minacciose le prese di posizione di lunedì del governo di Pechino, da dove è del tutto possibile sia già in fase di studio un prossimo intervento per riportare l’ordine e la calma nella città ribelle.
- Dettagli
- Scritto da Fabrizio Casari
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Managua. Riavvolte le bandiere, spenti gli altoparlanti, le celebrazioni per il quarantennale della vittoria sandinista si sono completate nella loro parte scenografica. Non in quella emotiva, però: la eco di una manifestazione grande come da dieci anni non si vedeva, lo scorrere nelle vene di tanta mistica ritrovata dopo l’aggressione subìta, continua a circolare nell’aria. La respirano con orgoglio i militanti sandinisti ricompattati, che hanno visto nel 19 Luglio non solo la celebrazione dei quarant’anni che furono ma di quelli che verranno. Non vi saranno altre sottovalutazioni. Si può dire che la fine della manifestazione abbia segnato l’inizio della campagna elettorale più lunga della storia nicaraguense, perché si voterà nel Novembre del 2021 ma le prime mosse sono già allo studio.
Il FSLN resta il gigante con cui destra, chiesa, Usa e UE devono fare i conti quando sul tavolo c’è il Nicaragua. Come se ci fosse un FSLN di lotta e uno di governo, sembra conservare decisamente la sua identità guerrigliera mentre delega al suo governo i grandi passi avanti nel tessuto socioeconomico. Radicato in ogni angolo del Paese, ha dimostrato di avere forza politica e militare, disciplina assoluta nei confronti del suo Comandante, fiducia cieca nella sua leadership. Sono elementi, questi, che fanno del sandinismo un partito unico nel quadro della sinistra internazionale; per quanto possano darsi posizioni contrastanti, sensibilità diverse, l’elemento determinante, alla fine, è l’obbedienza assoluta al suo Comandante. Come lo furono Fidel per i cubani e Chavez per i venezuelani, Daniel Ortega per i sandinisti è molto più che un leader: è il Comandante in Capo.
I soliti alzatori professionali di sopracciglia potranno ritenere tutto questo un delinearsi della versione tropicale del culto della personalità, un fattore di rischio per il politicamente corretto che sprofonda nei divani, aspetti inaccettabile per i mai paghi di sconfitte; ma il fatto è che Daniel Ortega è idolatrato dalla sua gente e viene considerato dal sandinismo, ed anche oltre le sue fila, un padre della Patria più che un Presidente.
E qui, in una parte di mondo dove i sofismi evaporano, dove con maggior violenza si soccombe alle intemerate golpiste della destra, il politicamente corretto viene visto come un esercizio verboso per intellettuali garantiti. Qui, dove tra il tutto e il niente, tra pace e guerra scorre un voto, partecipare assume il valore di un gesto dovuto, di una nobiltà ideale, ma vincere è imperativo categorico, è destino irremovibile, capolinea del tragitto tra vivere o perire. Sarà Daniel a guidare il suo popolo alla prossima tornata elettorale, ogni eredità risulterebbe anzitempo. Ci si aspetta quindi una mobilitazione generale di tutta la destra internazionale per colpire quella che è, senza ombra di dubbio, una icona per la sinistra latinoamericana, l’ultimo Comandante guerrigliero della storia rivoluzionaria e socialista di questo lembo di mondo.
La destra che lo sfiderà è tutta da decifrare. Politicamente analfabeta ma carica di odio, non ha altra idea di futuro che non sia la vendetta e sogna l’intervento statunitense come panacea delle sue incapacità. L’identità è classista e razzista. Nessun programma, nessun contenuto, nessun leader. Al suo interno è scontro tra l’opposizione storica che raccoglie liberali, conservatori, social cristiani e il nuovo partito fondato dalla gerarchia ecclesiale: Alleanza civica. Quest’ultima sostiene di essere l’unica opposizione credibile, la sola autorizzata a muovere sullo scacchiere politico, mentre i partiti tradizionali non lo sarebbero. Immagina il tessuto politico del paese come un immenso inciucio tra sandinisti e tutte le forze politiche, ritenendosi essa, invece, la voce autentica del popolo. Che poi i suoi dirigenti siano solo latifondisti e alti prelati, banchieri e padroni, è solo una fortuita coincidenza. Un luogo strano appare il Nicaragua ad un visitatore di primo arrivo: il governo fa crescere l’economia e gli imprenditori si dedicano a danneggiarla, il FSLN chiede la conciliazione e la chiesa fonda partiti e benedice golpisti.
Il discorso politico a destra langue. Di che parlano? Di censura e repressione, di inesistenti prigionieri politici e fantomatiche persecuzioni; invocano sanzioni e punizioni straniere per il proprio paese reo di non assecondarne i desiderata. Un disco rotto, alla ricerca di qualcuno che all’estero dia credito ad un disegno basato sulla reiterazione continuata della menzogna. Del resto, tutto si muove in funzione del denaro che parte dagli USA e atterra qui: se non c’è repressione non c’è resistenza, se non c’è resistenza non ci sono i fondi per sostenerla. Per questo ogni tanto inventano uno show con 30-40 persone: i media di proprietà della famiglia corrono, inventano la mobilitazione, inviano i video manipolati a Miami e i loro editori passano all’incasso. Principio dei vasi comunicanti in salsa tropicale.
Circolando per Managua si avverte è che il narrare oppositore è una truffa ma, nonostante il clima tranquillo, che l’aria sia più tesa e che l’incertezza abbia guadagnato spazio non lo si può negare. Alcuni ristoratori dicono che gli affari vanno male ma espongono prezzi europei per i pranzi dei nicaraguensi. Le storie sui locali deserti e la gente chiusa in casa sono fake news: i locali sono pieni, nei mercati i prodotti straripano e uscire da Managua il fine settimana obbliga a file di ore sulle carreteras. Certo, la crisi economica derivata dal tentativo di colpo di stato ha lasciato ferite: dopo anni di ininterrotta crescita alla media del 4,5 annuale, il 2019 e 2020 avranno il segno meno: 1800 milioni di dollari di danni all’economia non si ripianano così rapidamente in un paese che ha un PIL che ammonta a un terzo di questa cifra.
Quanto avvenuto, il timore che possa ripetersi, ha in qualche misura disincentivato gli investimenti esteri e la grande impresa (che forma il 30% del PIL) denuncia i suoi indicatori al ribasso. Non così la piccola e media impresa e quelle a conduzione familiare, che insieme allo Stato contribuiscono per il 70% al PIL. La crisi della grande impresa e del latifondo ha un sapore più politico che economico: il ricorso massiccio ai licenziamenti non ha certamente migliorato l’economia del paese. Ma non ci sono solo finalità di bilancio, si tratta in buona parte di terrorismo socio-economico. Si licenzia per generare un senso di inquietudine collettiva circa il destino dell’economia. Non come risposta alla crisi ma per determinarla. La famosa responsabilità sociale dell’impresa giace sotto il manuale di Gene Sharp sul golpe blando.
Perché il tentato colpo di stato è finito ma la dinamica sovversiva di destra, impresa e gerarchia ecclesiale, prosegue. Solo si è trasformata in strategia di destabilizzazione economica. Si invita inutilmente il piccolo commercio a chiudere gli esercizi, si indicono scioperi generali che non riescono, si lanciano allarmi su una dimensione della crisi economica che è totalmente artificiosa e priva di riscontri. L’intento di sovvertire il Paese ha solo cambiato metodologie e obiettivi intermedi, non certo lo spirito e l’obiettivo finale.
La speranza della destra è che il 2020 porti nuove sanzioni statunitensi ed europee. Che si delinei un quadro sistemico che veda il Nicaragua andare alle urne nel 2021 assediato dalle sanzioni internazionali, con una crescita minore - se non con una crisi vera e propria - e con una popolazione che riveda il film dell’aggressione alla Rivoluzione con alcuni degli strumenti utilizzati già negli anni ’80.
Abbondano i suoi possibili candidati, quasi tutti autonominati: stile Guaidò, per intenderci. Alcuni leaderini improvvisati nutrivano ambizioni eccessive ma hanno fatto male i loro conti. Scarso lignaggio per osare la prima fila. Perché quando le armi tacciono, emergono dai rifugi coloro che davano ordini nascosti; i camerieri del golpismo apparecchiano, ma è l’oligarchia che si siede a capotavola.
L’ambasciatore USA a Managua, Kevin Sullivan, ha dato ordine di riunirsi tutti sotto le insegne di Ciudadanos por la libertad e di scegliere il ticket Felix Maradiaga e Cristiana Chamorro per la sfida elettorale. Chi sono? Maradiaga, uno dei proprietari delle ONG golpiste, si è formato e addestrato negli USA e a Belgrado, dove la Otpor gli ha insegnato le tecniche del “golpe blando” di Gene Sharp. E’ intelligente ma privo di carisma, tanti soldi ma poco popolo: dicotomia non semplice da risolvere. Cristiana Chamorro è invece l’ennesimo prodotto della nidiata Chamorro’s, la famiglia oligarchica che ha sempre visto il Nicaragua come una gigantesca fattoria di proprietà.
Compito non semplice quello statunitense: provarono senza successo già nel 2006 ad unificare l’antisandinismo per impedire la vittoria di Daniel Ortega. Non ci riuscirono perché ogni tanto anche i servi si danno arie da padroni. A Washington pensano che oggi l’occasione sia più propizia ma è da vedere, perché il livello di litigiosità interna alla destra viene da lontano ed è tutt’altro che sopito. In questo contesto il ruolo del MRS, riconosciuto professionista del tradimento, rappresenta l’incognita più ardua del percorso unitario. Gli adepti di Sergio Ramirez e Dora Maria Tellez ufficialmente non vogliono CxL ma fondano una sigla al giorno per così sedersi con maggiori chanches al tavolo della coalizione e raggranellare posti. Controllano una buona parte delle finte ONG, l’ala militare del golpismo e i rapporti con la cosiddetta “sinistra” europea, ma non vanno oltre il 2% dei consensi se gli va bene e liberali e i conservatori non gli perdonano il passato sandinista.
A scompaginare il quadro potrebbe arrivare il cosiddetto “Papa nero”, che al secolo è possibile identificare in Silvio Baez, il Monsignore del golpismo richiamato a Roma proprio per il suo ruolo nel tentativo di colpo di stato del 2018. Intercettato mentre affermava che voleva inviare Daniel Ortega e Rosario Murillo alla fucilazione e rivendicando a se stesso ed alla chiesa l’invenzione dell’Alleanza Civica, potrebbe in qualche modo rappresentare il trade union della destra. Colto, appartie ai Carmelitani ma è stretto alleato dell’Opus Dei e dei Legionari di Cristo. Espressione delle gerarchie ecclesiali latinoamericane, nemiche acerrime di Papa Francisco e impregnate di ideologia fascista, potrebbe autosospendersi dall’abito talare per correre alla presidenza. In fondo, mal che va, lo stipendio di deputato è più alto di quello da Vescovo. L’ambizione politica non gli manca, anzi, così come non gli fa difetto l’ego, davvero ipertrofico. Ma la superbia e l’arroganza di cui dispone frena le possibili alleanze e c’è anche da considerare che la sua candidatura otterrebbe l’effetto di mobilitare gli evangelici a favore del FSLN, dato che la sua sconfitta equivarrebbe ad una sconfitta delle gerarchie ecclesiali nicaraguensi, aspetto questo particolarmente interessante per le chiese evangeliche.
Ma se pensa che la famiglia Chamorro si farà da parte, il Monsignore sbaglia. La candidata sarà comunque Cristiana Chamorro. Perchè è lei a poter riassumere in sè il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, la leadership della borghesia e del latifondo parassitario del paese e la proprietà di Ong e mezzi di comunicazione, ovvero gli elementi fondamentali per dare il via alla guerra per riportare nelle mani del padronato e nella sfera d'influenza di Washington il Nicaragua. La campagna elettorale sarà una fase della guerra di classe che l'oligarchia scatenerà. Welfare, spesa pubblica, investimenti per la guerra alla povertà ed allo squilibrio sono blasfemie intollerabili: trasformare i diseredati e dimenticati in soggetti di diritto politico un affronto imperdonabile alla casta.
Alla fine, però, il principale problema della destra sarà quello di spiegare cosa vorrebbero fare. I loro sedici anni di governo, che gettarono il Nicaragua nella miseria nera, non sono abbastanza lontani da scivolare verso l’oblio. Ma comunque per il FSLN non sarà una passeggiata; il sandinismo ha amici dal cuore grande ma nemici dai denti aguzzi. Vogliono lo scalpo di un nemico mai sconfitto e cercheranno ogni mezzo, lecito e soprattutto illecito, per aver ragione dell’indomabile.
Il FSLN dovrà mobilitare tutto il suo popolo, evidenziare e rivendicare quanto fatto. Il Nicaragua oggi è esempio di modernizzazione ed equità sociale, di crescita dei diritti e limitazione dei privilegi. Porta luce e strade nel buio dei cammini un tempo bui e dissestati, mette tetti sulle teste di chi subiva la furia del cielo, offre pavimenti nuovi dove c'era terra e polvere, fa sognare il futuro a chi prima lo temeva. Raffrontare e ricordare sarà necessario: guardare e giudicare è già prendere la rincorsa per andare votare e stabilire, una volta per sempre, che il sogno si è fatto sistema e che, quaranta anni dopo la vittoria, Sandinismo e Nicaragua sono ormai sinonimi dell’identico animo.