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Una serie di eventi negli ultimi giorni ha contribuito a mostrare in tutta la sua drammaticità le condizioni in cui il governo degli Stati Uniti continua a trattare i migranti provenienti dall’America Latina, inclusi bambini e minorenni. Oltre a ciò, si sono moltiplicate le testimonianze delle tendenze razziste e violente delle autorità federali incaricate di controllare le frontiere americane e i flussi migratori, evidenziando una chiara evoluzione verso forme neo-fasciste di governo e di controllo sociale, deliberatamente incoraggiate da influenti settori dell’amministrazione Trump.
L’apice della polemica è stato raggiunto probabilmente in seguito alla visita di una delegazione di membri del Congresso democratici presso una struttura detentiva di El Paso, in Texas, gestita dall’agenzia federale CBP (“Customs and Border Protection”). Soprattutto il resoconto della deputata Alexandria Ocasio-Cortez, astro nascente dell’ala “liberal” del Partito Democratico, ha messo in evidenza sia lo stato dei detenuti sia l’atteggiamento degli agenti della polizia migratoria.
La deputata di New York ha parlato di celle super-affollate, cibo e condizioni igieniche inaccettabili, migranti tenuti senza acqua potabile e a cui è stato detto dalle guardie di servirsi dei bagni per dissetarsi. La Ocasio-Cortez ha poi raccontato di agenti della CBP che hanno tenuto atteggiamenti irrisori e minacciosi nei suoi confronti e degli altri membri del Congresso, ammettendo per questo di avere provato paura nel corso della visita.
In concomitanza con quest’ultima, il sito investigativo ProPublica ha diffuso un’indagine che rivela l’esistenza di un gruppo privato su Facebook con circa 9.500 membri, di cui fanno parte agenti della polizia di frontiera. I contenuti del gruppo risultano inquietanti, visto che includono numerosi post razzisti, sessisti e con minacce di violenza contro i migranti e i membri del Congresso del Partito Democratico più critici delle politiche dell’amministrazione Trump.
I vertici della CBP e del dipartimento della Sicurezza Interna, da cui essa dipende, hanno promesso indagini immediate, nel tentativo di dar credito alla tesi dell’esistenza soltanto di poche mele marce. In realtà, questi impulsi alla violenza e al razzismo sono ampiamente diffusi tra le forze di sicurezza di frontiera americane, le quali si sentono senza dubbio incoraggiate a esprimere le loro tendenze fasciste alla luce di quelle, pressoché identiche, manifestate alla Casa Bianca.
I vari deputati democratici protagonisti della visita a El Paso hanno tutti pubblicato sui social media immagini o spiegazioni dettagliate delle situazioni di cui sono stati testimoni. Julian Castro, ad esempio, ha riportato il racconto di una donna alla quale sono stati negati i medicinali di cui aveva bisogno e di altre detenute in celle sovraffollate per periodi anche di 50 giorni senza accesso a docce o acqua corrente per settimane. Innumerevoli sono inoltre gli episodi di famiglie separate dopo essere state fermate lungo il confine col Messico, così come i trattamenti violenti e gli insulti sistematici di cui si rendono responsabili gli agenti federali.
Sempre in Texas, nella struttura di Clint, sono emersi invece particolari riguardanti i minori tenuti in stato di detenzione. Con temperature quasi rigide nel corso della notte, i giovanissimi migranti sono stati lasciati senza coperte o letti adeguati, con cibo e acqua insufficienti, vestiti sporchi per settimane e un accesso molto limitato alle cure mediche. Bambini anche di otto o nove anni sono costretti infine a prendersi cura degli altri più piccoli, senza avere a disposizione pannolini né sapone.
Alcuni medici che si occupano dei bambini migranti rilasciati dalla detenzione in Texas hanno tenuto una conferenza stampa martedì, durante la quale hanno manifestato sorpresa per il fatto che negli ultimi nove mesi i decessi di minori sotto custodia del governo siano stati “appena” sei. Oltre alle condizioni descritte, nei lager di confine vengono spesso sottratti i medicinali salvavita che i bambini hanno con loro, mentre, quando vengono rilasciati a causa di una grave patologia, non sono accompagnati da documenti che attestino la loro storia medica durante il periodo detentivo.
Le denunce della stampa e dei membri del Congresso hanno trovato piena conferma nel rapporto dell’indagine condotta recentemente dal dipartimento della Sicurezza Interna americano in risposta alle accuse nei confronti delle condizioni dei migranti e pubblicato anch’esso questa settimana. Gli ispettori del governo hanno visitato cinque strutture detentive nella valle del Rio Grande, in Texas, durante il mese di giugno e anche le loro conclusioni hanno dipinto un quadro vergognoso e nemmeno lontanamente degno di un paese civile e democratico.
Anche in questo caso le descrizioni parlano di sovraffollamento, insufficienza di cibo, medicinali, servizi igienici, spazi, abiti e biancheria pulita. Nel rapporto si legge tra l’altro di migranti adulti rinchiusi fino a una settimana in celle dove non hanno la possibilità di sedersi o sdraiarsi e in altre con un numero di occupanti quattro o cinque volte superiore a quello massimo consentito per periodi anche di un mese.
Le reazioni politiche a queste ultime notizie non si sono ovviamente fatte attendere a Washington, visto anche il recente inizio della campagna elettorale per le presidenziali del 2020. I leader democratici hanno espresso sconcerto per i racconti provenienti dalla frontiera meridionale e annunciato audizioni e indagini nei confronti dell’amministrazione Trump e delle agenzie deputate al controllo dei confini. La “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, ha parlato di “condizioni pericolose e disumane” in cui vengono tenuti i migranti e “spregevoli e preoccupanti” i commenti degli agenti della CBP espressi sul gruppo Facebook smascherato nei giorni scorsi.
Queste manifestazioni di sdegno sono però soltanto manovre politiche in risposta alle crescenti manifestazioni di protesta nel paese contro i metodi da Gestapo promossi dall’amministrazione Trump. Infatti, lo stesso Partito Democratico è niente meno che complice della durissima offensiva anti-migranti della Casa Bianca. Solo la scorsa settimana, la Camera ha dato il via libera allo stanziamento di quasi 5 miliardi di dollari per finanziare le operazioni di repressione al confine sud-occidentale, abbandonando rapidamente, di fronte all’opposizione del Senato, un'altra proposta di legge che includeva qualche minima restrizione alle politiche ultra-autoritarie a cui si sta assistendo. La stessa Alexandria Ocasio-Cortez non è immune da colpe, visto che, pur avendo votato contro il trasferimento di fondi anti-immigrazione, dopo una discussione privata con Nancy Pelosi, aveva approvato lo stesso provvedimento in commissione consentendo il suo approdo in aula.
In assenza di una mobilitazione popolare massiccia, è inevitabile che la deriva ultra-autoritaria dell’amministrazione Trump e la guerra ai migranti si intensifichino nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. La crisi politica cronica e il senso di assedio in cui vive la Casa Bianca spingeranno il presidente e il suo staff a cercare di infiammare sempre di più la propria ristretta base di sostegno di estrema destra nel paese, in modo da ingigantire la minaccia dell’immigrazione clandestina in vista della campagna elettorale per le elezioni del 2020. Qualsiasi ragionamento sulle condizioni di vita nei paesi di provenienza e le relative responsabilità saranno completamente trascurate, così come sulla natura dei “crimini” commessi da migliaia di disperati costretti in stato di detenzione per avere cercato di sfuggire a povertà, violenze e privazioni.
Le politiche migratorie americane continuano d’altra parte a essere coordinate dai consiglieri neo-fascisti di Trump, primo fra tutti Stephen Miller, e l’escalation che ne deriverà è confermata anche dal turn-over ai vertici delle varie agenzie responsabili del controllo dei flussi in entrata. Funzionari ritenuti troppo moderati o esitanti nell’implementare direttive anti-democratiche vengono cioè rimpiazzati in continuazione da feroci estremisti con tendenze spesso al limite del patologico.
La prossima fase della repressione si avrà probabilmente già dopo i festeggiamenti del 4 luglio. Per il fine settimana o poco più tardi, infatti, Trump ha annunciato l’esecuzione in tutto il paese di operazioni di polizia con pochi o nessun precedente che, dopo essere state recentemente rimandate, porteranno in carcere e poi all’espulsione migliaia se non decine di migliaia di immigrati “irregolari” e le loro famiglie, inclusi coloro che vivono e lavorano da anni negli Statti Uniti d’America.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Il progressivo svuotamento dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) è proseguito in questi giorni con la certificazione ufficiale del superamento dei limiti di uranio arricchito che, secondo lo stesso trattato del 2015, la Repubblica islamica avrebbe facoltà di immagazzinare sul proprio territorio. Se questi ultimi sviluppi rischiano di aggravare ancora di più il clima attuale, la responsabilità non è di Teheran, bensì, in primo luogo, dell’amministrazione Trump, uscita unilateralmente dall’accordo di Vienna oltre un anno fa, ma anche dell’Europa, incapace di sostenere coi fatti l’appoggio espresso alle posizioni dell’Iran e agli scenari venutisi a creare dopo la firma del JCPOA.
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- Scritto da Michele Paris
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Lo storico incontro tra il presidente americano Trump e il leader nordcoreano, Kim Jong-un, lungo la linea di confine del 38esimo parallelo è sembrato dare un impulso improvviso al moribondo processo diplomatico in atto tra Washington e Pyongyang. Al di là dello show, le posizioni dei due paesi nemici restano però molto lontane e la probabile imminente ripresa dei negoziati rischia di finire in fretta nel pantano degli ultimi mesi, alla luce soprattutto delle mire strategiche della Casa Bianca su un paese decisivo per le proprie manovre in chiave anti-cinese.
Le dichiarazioni rilasciate domenica da Trump e Kim durante e dopo il loro terzo faccia a faccia hanno insistito sulla portata storica dell’evento e sui progressi che sono stati fatti nei rapporti bilaterali a partire dalla prima metà dell’anno scorso. Nella sostanza nulla è stato invece concordato, se non la programmazione di un nuovo round di discussioni che il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, ha affermato potrebbero avere luogo già alla metà di luglio.
A livello non ufficiale, il dato più significativo del dopo vertice potrebbe essere comunque un parziale cambiamento delle posizioni americane. Alcuni giornali d’oltreoceano hanno parlato di un’amministrazione Trump che starebbe valutando l’ipotesi di accettare una sorta di congelamento della situazione attuale sulla penisola di Corea, con il regime di Kim sostanzialmente legittimato a conservare la gran parte del suo arsenale nucleare.
La novità di questo approccio, fermamente smentito dalla Casa Bianca, consisterebbe nel riconoscere come mossa decisiva da parte di Kim per lo sblocco delle trattative il solo smantellamento di Yongbyon, storico impianto nordcoreano di produzione di materiale necessario alla realizzazione di testate nucleari. In cambio, Washington sospenderebbe le sanzioni economiche più dure tuttora applicate contro la Corea del Nord, anche se ormai l’industria nucleare del paese asiatico non è più confinata al complesso di Yongbyon.
Anche senza entrare nello specifico di un’ipotesi che per il momento non trova conferme né negli USA né a Pyongyang, è interessante registrare le reazioni a essa degli ambienti di potere e dei media americani solitamente critici dell’amministrazione Trump. In molti, soprattutto tra i candidati democratici alla Casa Bianca, hanno subito attaccato il presidente per la sua possibile intenzione di fare marcia indietro sulla richiesta di “denuclearizzazione” totale prima di fare qualsiasi concessione alla Corea del Nord.
Una posizione così intransigente, che è ancora a tutti gli effetti quella ufficiale di Washington, è però precisamente la causa dello stallo dei negoziati, visto che il regime di Pyongyang, in maniera più che comprensibile, non è disponibile a rinunciare all’unico strumento che possa garantire la propria sopravvivenza in assenza di rassicurazioni da parte di una potenza, come gli Stati Uniti, pronta in qualsiasi momento a fare carta straccia degli impegni presi.
Se una strategia americana esiste per il “problema” Corea del Nord, essa è ad ogni modo rivolta a isolare la Cina e non tanto a ristabilire a tutti gli effetti la pace nella penisola o a liberare quest’ultima dalla minaccia nucleare. In un gioco nel quale si alternano incentivi e minacce, la Casa Bianca punta piuttosto a convincere la leadership di Pyongyang a sganciarsi da Pechino, prospettando un futuro sviluppo economico generato dall’afflusso di capitali dagli Stati Uniti e da altri paesi loro alleati, a cominciare dalla Corea del Sud.
L’idea stessa di un incontro imprevisto tra Trump e Kim presso la località di Panmunjom, nella cosiddetta “Zona Demilitarizzata”, ha molto probabilmente a che fare anche con i recenti sviluppi diplomatici che coinvolgo la Cina in quest’area del pianeta. L’entourage del presidente americano è sembrato cioè improvvisare l’evento alla vigilia della sua trasferta al G20 di Osaka e in Corea del Sud come risposta alla visita del presidente cinese, Xi Jinping, a Pyongyang del 20 e 21 giugno scorso.
Quello di Xi era stato il suo primo viaggio in assoluto in Corea del Nord e anche il primo di un leader cinese dal 2005. Il vertice con Kim, in precedenza già più volte ospitato a Pechino, aveva offerto l’occasione per ribadire l’importanza strategica di Pyongyang per la Cina e l’intenzione di quest’ultimo paese di continuare a svolgere un ruolo di primo piano nel processo di pace con Washington. Il tutto in un complicato intreccio che include anche la guerra commerciale e le trattative in corso in questo ambito tra USA e Cina.
Più in generale, la Corea del Nord sta da qualche tempo strizzando l’occhio ai piani di sviluppo e di integrazione economica ed energetica asiatici promossi da Cina e Russia, di cui potrebbe appunto diventare uno snodo importante. In questo quadro va intesa anche la visita di Kim a Vladivostok, in Russia, dove nel mese di aprile aveva incontrato il presidente Putin. Durante il colloquio privato con il leader nordcoreano è perciò ipotizzabile che Trump abbia messo in guardia Kim dal prendere iniziative che portino il suo paese saldamente nell’orbita di Pechino e Mosca.
Il vero ostacolo alla pace tra Pyongyang e Washington consiste quindi nella diversità di vedute dei due governi in merito al futuro della penisola di Corea. Mentre per Kim l’apertura agli Stati Uniti, così come a Seoul, non esclude la possibilità di afferrare il treno dello sviluppo russo-cinese, per Trump si tratta al contrario di un gioco a somma zero, nel quale la pedina nordcoreana serve pressoché unicamente a rafforzare la presenza americana in Asia nord-orientale nel quadro della competizione strategica con Pechino, così come con Mosca.
Da questa angolazione, nonostante la valenza simbolica, il fatto che per la prima volta un presidente americano in carica abbia messo piede in territorio nordcoreano e che grazie a ciò potranno ripartire i negoziati non si traduce necessariamente in un abbattimento del rischio di guerra sulla penisola di Corea. Infatti, la nuova offensiva diplomatica della Casa Bianca minaccia di costringere Kim e il suo regime a fare prima o poi una scelta netta tra Washington e Pechino.
In assenza di ciò, la situazione potrebbe ripiombare in fretta nei toni ostili che avevano caratterizzato l’anno 2017, con il rilancio del tentativo di sottomettere la Corea del Nord con la forza. D’altronde, una parte dell’amministrazione Trump, quella che fa riferimento ai falchi Pompeo e John Bolton, vede già con sospetto, se non aperta ostilità, qualsiasi forma di dialogo che non si risolva rapidamente in una sottomissione totale di Kim agli Stati Uniti.
L’esempio iraniano è a questo proposito illuminante. La Casa Bianca solo pochi giorni fa era arrivata vicinissima ad attaccare militarmente la Repubblica Islamica e contro questo paese continua a condurre una politica di “massima pressione” malgrado non disponga né abbia in programma di dotarsi di armi nucleari. Con una potenza nucleare accertata come la Corea del Nord, invece, Trump ostenta un atteggiamento amichevole e all’apparenza rassicurante.
La ragione di questa schizofrenia è da ricercare dunque non nel fattore nucleare, come ripetono a oltranza media ufficiali e politici di ogni schieramento, bensì nella risposta ai diktat americani delle classi dirigenti dei due paesi, con l’Iran per nulla intenzionato a piegarsi e la Corea del Nord invece aperta quantomeno a valutare ipotesi di distensione per rompere il proprio isolamento internazionale.
La differenza tra guerra e pace nella penisola di Corea dipende così dal grado in cui saranno soddisfatti gli interessi strategici di Washington. Anche in presenza di un accordo di ampio respiro con Pyongyang, però, le prospettive in quest’area resterebbero cupe. Qualsiasi eventuale intesa, partnership o alleanza che dovesse nascere tra i due paesi, oggi ancora formalmente nemici, sarebbe inevitabile da parte degli Stati Uniti l’utilizzo del regime di Kim per esercitare ulteriori pressioni su Pechino o, vista la continua escalation del confronto tra le due potenze, del territorio nordcoreano come base di lancio di una futura guerra contro la Cina.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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Un secchio d’acqua gelata sulla testa. Più o meno questo l’effetto sulla destra nicaraguense della riunione OSA, che non ha votato l’applicazione al Nicaragua della Carta Democratica (che prevede sanzioni e persino la possibile espulsione del Paese che ne viene fatto oggetto). Per quanto l’ostilità della destra continentale verso il governo sandinista sia decisa e sebbene continui il sostegno della parte peggiore di essa al golpismo nicaraguense, non vi sono i numeri sufficienti ad aprire un procedimento contro Managua.
Nell’occasione, pur sostenuti da USA e Canada, Colombia e Cile, golpisti e alleati hanno ottenuto solo una generica - e non vincolante - “esortazione alla ripresa del dialogo tra governo e opposizione”. Esortazione ridicola: il governo è seduto al tavolo quasi un anno e la cosiddetta “opposizione”, divisa al suo interno, si alza e si siede a giorni alterni per dimostrare che esiste. Il tentativo di svolgere un ruolo attraverso ricatti e pressioni dall'estero non funziona: erano e restano irrilevanti per qualunque processo di riforme.
Leggi tutto: Nicaragua, una destra triste, solitaria y final
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- Scritto da Michele Paris
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Le ultime drammatiche immagini di migranti latinoamericani morti mentre cercavano di entrare negli Stati Uniti stanno alimentando un sentimento di orrore diffuso nei confronti delle politiche repressive e di stampo apertamente fascista dell’amministrazione Trump. Mentre l’indignazione continua a crescere in America e non solo, il Congresso di Washington è però sul punto di approvare un nuovo stanziamento di fondi per l’apparato repressivo della Casa Bianca, il tutto in uno spirito sostanzialmente bipartisan.
I segnali dell’opposizione popolare nei confronti del trattamento degli immigrati da parte del governo americano stanno iniziando a diffondersi nel paese. Queste manifestazioni, assieme a svariati sondaggi sul gradimento delle politiche migratorie dell’amministrazione repubblicana, sembrano testimoniare dell’assenza di una base di massa per le inclinazioni neo-fasciste di Trump. Mercoledì, ad esempio, centinaia di persone hanno protestato a Boston contro la società di vendita online di articoli di arredamento Wayfair, fornitrice di una struttura di detenzione per minori immigrati in una località del Texas. Bank of America, invece, come già avevano fatto altre compagnie finanziare, ha dovuto annunciare lo stop ai prestiti concessi a società private che gestiscono per conto del governo federale le carceri riservate ai migranti fermati dalle autorità di frontiera.