Con le dimissioni del primo ministro, Saad Hariri, la crisi politica e sociale in Libano è entrata in una fase nuova e decisamente delicata. Il capo del governo di Beirut, di fede sunnita, si è ritrovato senza molte altre scelte dopo le quasi due settimane di proteste oceaniche nel paese dei cedri. L’intensità della rivolta in atto contro l’intera classe politica libanese è tale però che cambiamenti cosmetici o trascurabili potrebbero non essere sufficienti a ristabilire l’ordine. Allo stesso tempo, la precarietà dell’economia, le turbolenze regionali e, soprattutto, un’impalcatura costituzionale rigorosamente settaria rendono complicato qualsiasi reale progresso sul piano politico e sociale.

La violenta repressione con la quale il regime cileno e quello ecuadoriano hanno reagito all’insorgere delle proteste sociali, fa emergere la crisi strutturale di un modello economico e politico che si è venduto come il migliore possibile, generatore unico di ricchezza e stabilità; a ben vedere, però, la ricchezza é per pochi e la stabilità è obbligata con le armi. La crisi profonda del modello è lo sfondo sul quale si è impantanata l’operazione di reconquista del continente da parte degli Stati Uniti, iniziata con Obama e proseguita con passi più aggressivi da Tump. Identico l’obiettivo: riportare nell’orbita USA l’America Latina, le sue ricchezze ed il ruolo geopolitico di un continente che affaccia su due oceani ed è situato nella più grande biosfera e nella maggiore riserva d’acqua del pianeta. Recuperarla agli interessi dominanti delle multinazionali statunitensi ed al controllo militare e politico di Washington è stata considerata la missione da compiere, la reconquista dei Paesi che avevano scelto il governo dei loro interessi e non quelli statunitensi.

Se le ragioni per mettere il presidente degli Stati Uniti in stato di impeachment sarebbero molteplici, quelle scelte dai leader del Partito Democratico americano risultano senza dubbio tra le più deboli da un punto di vista legale. Non solo, al di là delle modalità e dell’eventuale presenza di un comportamento ricattatorio, le pressioni di Trump sul governo ucraino per riaprire le indagini sull’ex presidente, Joe Biden, e suo figlio, Hunter, appaiono per molti versi giustificate. La stampa ufficiale negli USA, tuttavia, ha in larga misura insabbiato queste vicende, bollandole, assieme a quelle relative alle interferenze del regime di Kiev nelle elezioni del 2016 a favore di Hillary Clinton, come il prodotto di teorie cospirazioniste ampiamente screditate.

L’assassinio del leader dello Stato Islamico (ISIS), Abu Bakr al-Baghdadi, avvenuto presumibilmente nella mattinata di domenica in Siria, servirà a poco o nulla per stabilizzare la situazione nel paese in guerra o a mettere il Medio Oriente e il resto del pianeta al riparo dalla minaccia del fondamentalismo islamista. Il raid delle forze armate americane solleva però moltissimi dubbi e interrogativi, a cominciare dalla coincidenza dell’operazione con un periodo di profondi mutamenti degli scenari siriani.

Per la prima volta dal 2009, questa settimana un leader politico israeliano diverso da Netanyahu ha ricevuto l’incarico per formare un nuovo governo. Nella serata di mercoledì, il presidente Reuven Rivlin, ha chiesto al numero uno dell’opposizione, l’ex generale Benny Gantz, di fare un tentativo per mettere assieme una maggioranza in parlamento (“Knesset”) ed evitare il terzo voto anticipato in meno di un anno.

Il testimone è passato a Gantz dopo il fallimento annunciato del primo ministro in carica. Se l’uscita di scena di Netanyahu ha un significato simbolico particolare, non è detto che essa sia però definitiva. Il leader della coalizione “Blu e Bianca” si ritroverà davanti infatti gli stessi ostacoli politici e aritmetici incontrati da Netanyahu e l’eventuale estromissione di quest’ultimo dal governo di Israele richiederà scelte complicate e tutt’altro che banali.


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