Il fragilissimo equilibrio politico e settario dell’Iraq è messo a dura prova in questi giorni dall’improvvisa esplosione di manifestazioni di protesta anti-governative che hanno già fatto registrare un numero imprecisato di vittime. Le dimostrazioni, animate soprattutto da giovani iracheni che chiedono un rimedio alla povertà diffusa e all’assenza di prospettive per il futuro, appaiono in larga misura spontanee e sono iniziate martedì a Baghdad e in altre città a maggioranza sciita per poi diffondersi rapidamente e incontrare la reazione spesso molto dura delle forze di sicurezza.

Proteste di piazza sono state in realtà tutt’altro che infrequenti negli ultimi anni in Iraq, ma quella in corso sembra avere raggiunto rapidamente un livello di mobilitazione significativo, così come già importante risulta il bilancio di morti e feriti. Martedì erano state almeno due le vittime, una a Baghdad e l’altra a Nassiriya, mentre il giorno successivo sempre in quest’ultima località sono morte negli scontri altre tre persone, assieme a un agente di polizia.

Dopo l’avvio formale delle procedure di impeachment contro il presidente americano Trump da parte dei leader del Partito Democratico, le due parti stanno affilando i coltelli in vista di uno scontro politico che si annuncia durissimo e potenzialmente in grado di destabilizzare il sistema “democratico” degli Stati Uniti. La Casa Bianca sta opponendo una certa resistenza alle richieste iniziali dei democratici al Congresso, mentre lo stesso presidente continua a contrattaccare con toni durissimi, agitando nemmeno troppo velatamente lo spettro della guerra civile.

Il processo in fase di apertura nei confronti di Trump ha coinvolto a inizio settimana anche il segretario di Stato, Mike Pompeo, non appena si è diffusa la notizia che quest’ultimo era uno dei presenti alla telefonata del 25 luglio scorso tra il presidente USA e quello ucraino, Volodymyr Zelensky, da cui ha preso le mosse l’impeachment. Una delle commissioni della Camera dei Rappresentanti incaricate dell’indagine sul presidente ha richiesto la testimonianza di cinque funzionari ed ex funzionari del dipartimento di Stato interessati dai fatti.

L’opposizione ai suoi ordini non cresce nei consensi e mette in scena spettacoli penosi, i suoi leader si rendono patetici e i piani di destabilizzazione si rivelano fallimentari, ma l’ostilità degli Stati Uniti verso il Nicaragua non finisce. Non ha l’impeto comunicativo e operativo che viene messo in campo contro il Venezuela e non si mostra con l’odio ideologico ed anacronistico che dedica a Cuba, ma apertamente e sotto traccia l’attività di destabilizzazione contro il Nicaragua non cessa. L’uscita di scena di John Bolton è stato certamente un segnale positivo per tutto il pianeta e, dunque, anche per il Nicaragua; ma la movimentazione di personale (che ha origini e destini diversi da caso a caso) non deve essere interpretata come un cambio nella linea politica dell’impero in decadenza.

Le elezioni anticipate di domenica scorsa in Austria non hanno riservato particolari sorprese, anche se la composizione, se non la natura, del prossimo esecutivo potrebbe rimanere incerta per settimane o addirittura mesi. Il Partito Popolare Austriaco (ÖVP) dell’ex cancelliere federale, il 33enne Sebastian Kurz, si è confermato la prima forza politica del paese con un margine decisamente ampio. A pagare il prezzo più caro del caos politico registrato a Vienna negli ultimi mesi è stato invece l’ex partner di governo dei popolari, cioè il Partito della Libertà (FPÖ) di estrema destra, la cui partecipazione al nuovo gabinetto resta però un’ipotesi tutt’altro che remota.

Uno dei temi più dibattuti nel corso e a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di questa settimana è stato senza alcun dubbio l’Iran. Gli interventi e le manovre diplomatiche dei rappresentanti del governo di Teheran, di quello americano e degli alleati europei non hanno prodotto significativi miglioramenti della situazione complessiva. Anzi, la linea dura sostanzialmente riconfermata dall’amministrazione Trump e l’ambiguità dell’Europa hanno probabilmente contribuito a far aumentare il pericolo di un nuovo conflitto in Medio Oriente.

Ancora poco prima dell’appuntamento annuale al Palazzo di Vetro a New York erano rimaste in vita esigue speranze di un faccia a faccia tra il presidente americano Trump e quello iraniano, Hassan Rouhani. Questa ipotesi, già in larga misura tramontata dopo i recenti attacchi contro le raffinerie saudite, attribuiti da Washington alla Repubblica Islamica, è svanita completamente dopo il comprensibile rifiuto della delegazione iraniana di fronte alla totale indisponibilità della Casa Bianca a valutare concreti segnali di distensione.


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