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Il brusco licenziamento da parte del presidente americano Trump del suo consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, ha fatto trarre un sospiro di sollievo a quanti temevano che gli Stati Uniti fossero sul punto di scatenare una nuova rovinosa guerra di aggressione in qualche parte del pianeta. Soprattutto la crisi iraniana potrebbe trovare un qualche spiraglio per una soluzione diplomatica dopo l’addio alla Casa Bianca di uno dei falchi più irriducibili degli ambienti politici d’oltreoceano. I conflitti e le contraddizioni interne all’apparato di potere USA restano tuttavia fortissimi e le posizioni di Bolton, anche se spesso non espresse in maniera così radicale, sono condivise da molti nella classe dirigente americana.
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Un’oscura vicenda di spie sull’asse Washington-Mosca è stata riproposta in questi giorni dalla stampa americana probabilmente con lo scopo di screditare ancora una volta il presidente Trump e ridare una qualche attendibilità alla caccia alle streghe del “Russiagate”. CNN e New York Times, nella serata di lunedì, hanno raccontato dell’esistenza di un informatore della CIA, inserito ad altissimo livello al Cremlino, e di come fosse stato fatto uscire dalla Russia nel 2017 perché a rischio di essere “bruciato”, tra l’altro, dall’imprudenza di Trump e dalla sua attitudine troppo tenera nei confronti di Vladimir Putin.
Tutt’altro che casualmente, le due testate americane che hanno dato notizia della presunta super-spia americana al Cremlino sono state tra le più attive in questi anni nel promuovere le macchinazioni del “Russiagate”. Le rivelazioni o presunte tali, inoltre, sono come sempre non il frutto del lavoro investigativo dei giornalisti di CNN e Times, bensì di imbeccate dell’intelligence a stelle e strisce, di cui il network e il principale giornale “liberal” americano svolgono spesso e volentieri la funzione non ufficiale di portavoce.
La CIA, dunque, avrebbe reclutato il funzionario russo in questione “decine di anni fa”, quando ricopriva un incarico di “medio livello” nell’apparato di governo del suo paese. Il suo avanzamento di carriera sarebbe stato poi folgorante, fino a consentirgli di ottenere una prestigiosa e influente posizione “ai massimi livelli del Cremlino”. L’informatore russo non faceva parte però della ristretta cerchia di consiglieri e collaboratori di Putin, ma aveva comunque accesso ai processi decisionali del governo di Mosca.
Questa straordinaria fonte di informazioni ultra-riservate provenienti dal Cremlino si era ritrovata improvvisamente in pericolo dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti e l’esplosione della campagna mediatica relativa alle “interferenze” russe nelle elezioni americane che, nel novembre del 2016, avrebbero appunto favorito la vittoria del magnate newyorchese sull’ex segretario di Stato, Hillary Clinton.
La posizione ormai precaria della “talpa” al Cremlino aveva spinto così i vertici della CIA a procedere con la sua “estrazione” dalla Russia, in modo da garantirgli il trasferimento in tutta sicurezza in territorio americano. Il funzionario aveva però declinato l’invito a lasciare il suo paese, suscitando per qualche tempo il sospetto di essere una doppia spia, per poi invece accettare qualche mese più tardi, quando le circostanze erano forse diventate estremamente pericolose a Mosca.
Questa è in sintesi la versione della storia proposta da CNN e New York Times. Pur non essendoci modo di verificare le informazioni degli articoli pubblicati lunedì, visto che l’intera ricostruzione si basa su rivelazioni di membri dell’intelligence USA, i motivi per dubitare della notizia sono molteplici.
In particolare, i reporter del Times sostengono che le informazioni di gran lunga più preziose fornite alla CIA dall’informatore del Cremlino, anzi le uniche informazioni passate agli americani di cui si parla nell’articolo, hanno a che fare guarda caso col “Russiagate”. L’informatore sarebbe stato cioè determinante nel dimostrare come Putin abbia “ordinato e orchestrato” la campagna di interferenze nei processi elettorali USA per favorire l’elezione di Trump. Una delle modalità con cui questo disegno sarebbe stato delineato a Mosca è l’hackeraggio del server del Comitato Nazionale del Partito Democratico che avrebbe rivelato e-mail imbarazzanti sul tentativo dei vertici di questo partito di boicottare la candidatura di Bernie Sanders, principale sfidante di Hillary Clinton nelle primarie.
Queste accuse, date per certe dal New York Times, sono state ampiamente screditate e, malgrado la presunta esistenza di prove irrefutabili provenienti direttamente dal Cremlino, di esse non è mai emersa traccia in tre anni di indagini giornalistiche e procedimenti giudiziari.
Le rivelazioni di questa settimana, forse proprio perché con poco o nessun fondamento, contengono svariati riferimenti alla loro sensibilità e importanza. Sempre secondo il Times, ad esempio, il materiale passato a Washington dalla spia americana a Mosca era così delicato che nel 2016 l’allora direttore della CIA, John Brennan, aveva deciso di non discuterlo durante i briefing giornalieri con Obama e i suoi consiglieri, ma lo inviava separatamente al presidente in buste accuratamente sigillate.
Il punto più controverso degli articoli citati riguarda però la possibile causa alla base della decisione di “estrarre” la spia del Cremlino dalla Russia. La CNN sostiene che ciò fu dovuto “in parte” alla predisposizione di Trump e della sua amministrazione a utilizzare in maniera inopportuna le informazioni di intelligence. In altre parole, la CIA temeva che il presidente potesse rivelare al governo russo l’esistenza di una “talpa” con accesso a Putin.
Anche questa tesi è stata abusata negli ultimi anni e, per riproporla al pubblico americano, il Times e la CNN riprendono un altro episodio spesso al centro delle accuse dei sostenitori del “Russiagate”, vale a dire un incontro alla Casa Bianca del maggio 2017, quando Trump ospitò Sergey Lavrov e Sergey Kislyak, rispettivamente ministro degli Esteri russo e ambasciatore di Mosca a Washington. Dopo questo evento furono accesissime le polemiche contro Trump, accusato da più parti di avere fornito alla delegazione russa informazioni riservate.
In definitiva, la rivelazione sulla spia piazzata ad altissimo livello al Cremlino sembra servire soprattutto a ravvivare la campagna contro Trump per i suoi legami inopportuni con Mosca. La strategia non è peraltro nuova. Come hanno fatto notare alcuni commentatori indipendenti, la pubblicazione su giornali come New York Times o Washington Post di notizie relative a spie americane in Russia ricorre in più occasioni, dall’estate del 2017 a oggi, e, in tutti i casi, si rendeva conto delle preoccupazioni ai vertici dell’intelligence USA per la possibile scoperta dei propri informatori proprio mentre il loro lavoro veniva rivelato dalla stampa “mainstream”. Il tutto, ancora una volta, per screditare la Casa Bianca e creare un clima di ostilità nei rapporti tra Washington e Mosca.
Che poi gli Stati Uniti dispongano di spie o informatori all’interno dell’apparato dello stato in Russia, e viceversa, è pressoché certo. Il prestigio delle posizioni che essi ricoprono e la qualità delle informazioni che sono in grado di ottenere restano però tutte da verificare. A giudicare dalla reazione di Mosca alle notizie circolate nei giorni scorsi, l’importanza attribuita alla “talpa” americana al Cremlino potrebbe essere decisamente esagerata.
Martedì, il governo russo ha infatti identificato nella spia al centro del racconto di Times e CNN l’ex funzionario governativo Oleg Smolenkov. Per il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, quest’ultimo lavorava per l’amministrazione Putin ma è stato licenziato parecchi anni fa e in nessun modo aveva accesso al presidente.
Il nome di Smolenkov è stato fatto dal governo di Mosca dopo che era apparso in rete a seguito alle rivelazioni di New York Times e CNN, anche se i media americani non ne avevano riportato il nome. I sospetti su Smolenkov erano stati fortissimi già nel 2017. Nel mese di luglio di quell’anno, infatti, era scomparso nel nulla da una località del Montenegro dove si era recato in vacanza con la famiglia. Le autorità russe avevano sostenuto di avere indagato la vicenda come un possibile omicidio, ma era stato da subito chiaro che si era in presenza di una probabile storia di spionaggio.
Per il giornale russo Kommersant, i servizi segreti di Mosca avevano ben presto abbandonato le indagini dopo avere scoperto che Smolenkov e la sua famiglia erano vivi e, utilizzando il loro nome, risiedevano all’estero in una località dello stato americano della Virginia, non distante dal quartier generale della CIA.
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I negoziati tra il governo americano e i Talebani per mettere fine al conflitto in Afghanistan sono stati ufficialmente sospesi dall’intervento del presidente Trump su Twitter nella serata di sabato. Il motivo della rottura sarebbe un attentato, condotto settimana scorsa a Kabul dagli stessi Tabelani, che ha fatto una dozzina di vittime tra cui un soldato americano. Al di là delle apparenze, gli ostacoli a una soluzione diplomatica per la guerra in corso da quasi 18 anni sembrano avere però motivazioni più profonde che vanno collegate sia alle divisioni all’interno dell’apparato di potere USA sia alla precarietà della posizione di Washington nel paese centro-asiatico.
Secondo i “tweet” di Trump, il presidente afgano, Ashraf Ghani, e una delegazione della leadership talebana avrebbero dovuto essere ospitati per un evento in programma domenica presso la residenza presidenziale di Camp David, nello stato del Maryland. Non è del tutto chiaro quale avrebbe dovuto essere l’obiettivo del clamoroso summit, ma è facile ipotizzare che Trump intendeva attribuirsi il merito di uno storico accordo di pace dopo mesi di trattative.
L’attentato che avrebbe fatto saltare l’incontro era avvenuto giovedì scorso, quando nella capitale afgana un’esplosione rivendicata dai Talebani aveva ucciso dodici persone, inclusi un militare americano e uno del contingente romeno facente parte delle forze di occupazione NATO. Trump ha motivato la sua decisione improvvisa di cancellare il summit di Camp David, del quale non vi era stata notizia in precedenza, con l’impossibilità di condurre trattative o finalizzare un’intesa di pace con un’organizzazione sanguinaria, pronta a massacrare innocenti solo “per conquistare una posizione di forza” nei negoziati.
Considerando la situazione complessiva del teatro di guerra afgano, questa spiegazione non ha semplicemente senso. L’escalation della violenza nel paese è in corso da mesi e ha anzi seguito il procedere stesso delle trattative a Doha, in Qatar. I Talebani hanno continuato a mettere in atto operazioni in molte aree strategiche, da Kabul a Kunduz, senza che i colloqui subissero anche solo rallentamenti.
All’inizio della scorsa settimana, ad esempio, un’operazione nella “zona verde” di Kabul, sede di numerose ONG e delle rappresentanze diplomatiche occidentali, aveva fatto 18 vittime e provocato non poche proteste tra la popolazione. Praticamente in concomitanza della strage, tuttavia, l’inviato americano per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, aveva annunciato il raggiungimento di un accordo “di principio” con i Talebani. Esso prevedeva il ritiro entro cinque mesi di oltre 5 mila soldati USA da alcune basi attualmente occupate e, in seguito e a due condizioni, degli altri 8 mila. La prima condizione era il raggiungimento di un accordo tra i Talebani e il governo di Kabul, mentre la seconda l’impegno che l’Afghanistan non avrebbe più ospitato sul proprio territorio gruppi terroristici intenti a colpire gli Stati Uniti.
Le stesse forze di occupazione hanno a loro volta intensificato le operazioni di guerra nel corso del 2019. Nonostante la stampa occidentale risulti quasi sempre molto vaga in proposito, sono svariati i segnali dell’implementazione di una campagna decisamente più aggressiva contro gli “insorti”. Le statistiche delle Nazioni Unite danno un’idea di quanto accaduto in questi mesi, visto che, ad esempio, nei primi tre mesi dell’anno le forze USA-NATO hanno causato un numero maggiore di vittime civili rispetto ai Talebani.
La realtà è dunque quella di una situazione nella quale entrambe le parti nel conflitto hanno dato un impulso alle operazioni di guerra precisamente per posizionarsi in maniera favorevole nel corso dei negoziati e per ottenere condizioni migliori in un eventuale accordo di pace.
A impedire un esito positivo delle trattative sono anche le posizioni divergenti all’interno dell’amministrazione Trump circa la strategia da perseguire in Afghanistan. La stampa americana ha parlato di uno scontro tra una fazione favorevole a un accordo con i Talebani, che fa capo al segretario di Stato Mike Pompeo, e un’altra contraria riferibile in particolare al consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Bolton.
Un recente articolo del Washington Post aveva rivelato come lo stesso presidente e gli ambienti vicini a Pompeo avessero cercato di emarginare Bolton in merito all’agenda afgana, così da evitare che il super-falco “neo-con” potesse boicottare i negoziati. Le posizioni di Bolton devono essere però condivise anche da altri ai vertici militari e della diplomazia americana, visto che la cancellazione dell’evento di Camp David ha segnato una vittoria almeno momentanea dei fautori della linea dura nei confronti dei Talebani.
La questione della permanenza di un contingente militare o di uomini della CIA in Afghanistan dopo un eventuale accordo con gli “studenti del Corano” è un altro fattore irrisolto e fonte di divisioni a Washington. Esso si sovrappone alla diatriba interna sull’approccio ai Talebani, i quali infatti non sembrano disposti ad accettare nulla di meno di un’evacuazione completa delle forze di occupazione dal loro paese.
Come su altri temi internazionali, a cominciare dalla Corea del Nord, il vero problema sembra essere la mancanza di una linea unitaria e coerente da parte americana. Sull’amministrazione Trump continuano d’altra parte ad avere influenza forze contrastanti e i ripetuti conflitti interni sono il riflesso di politiche imperialiste distruttive che, dopo molti anni dal loro lancio, hanno creato scenari estremamente complessi e contradditori, nonché di difficilissima soluzione.
Nel caso dell’Afghanistan va anche aggiunta la freddezza del governo di Kabul nei confronti di un accordo finora negoziato solo tra Washington e i Talebani e che non avrebbe probabilmente dato alcuna garanzia di sopravvivenza alla classe politica coltivata dagli Stati Uniti dopo l’invasione del 2001. Il presidente afgano Ghani, infatti, già venerdì scorso aveva fatto sapere che la sua visita programmata negli USA non avrebbe avuto luogo.
Questo e altri elementi emersi dopo i “tweet” di Trump hanno fatto pensare a molti al di fuori dei circuiti della stampa ufficiale che lo stesso vertice di Camp David fosse un’invenzione del presidente, il quale avrebbe deciso di rivelare il summit e contemporaneamente annullarlo per ragioni di opportunità politica. Alcuni residenti della contea del Maryland dove sorge la residenza presidenziale hanno fatto notare come non ci fosse alcun segno dei preparativi che solitamente caratterizzano eventi importanti come quello annunciato da Trump. Inoltre, la coincidenza dell’arrivo negli Stati Uniti di una delegazione di Talebani con l’anniversario dell’11 settembre avrebbe sollevato fortissime polemiche contro la Casa Bianca.
La questione cruciale per l’immediato futuro è comunque ora quella della sorte dei negoziati di pace. Il fatto stesso che Trump abbia rivelato un vertice segreto mai andato in porto, quindi teoricamente senza bisogno di darne notizia, lascia intendere che la sua amministrazione resti aperta al dialogo, nonostante la quasi certa sospensione delle trattative per qualche settimana o mese.
Le probabilità di un esito positivo restano però molto basse, a giudicare dal quadro generale del paese centro-asiatico. Trump vorrebbe mantenere la promessa di chiudere un conflitto interminabile e impopolare per favorire la sua rielezione, ma l’unica via d’uscita sembra essere un accordo con i Talebani, i quali a loro volta si sentono sufficientemente forti da poter respingere la richiesta degli Stati Uniti di mantenere un contingente militare in Afghanistan per garantire i propri interessi strategici.
In questa situazione di sostanziale stallo, ciò che appare scontato è ancora e sempre la prosecuzione delle operazioni di guerra per il prossimo futuro e il conseguente inevitabile aggravamento del bilancio delle vittime civili.
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La sconfitta multipla del primo ministro britannico, Boris Johnson, nella serata e nella nottata di mercoledì ha introdotto, se possibile, ulteriori elementi di destabilizzazione nel quadro politico del Regno Unito, complicando in maniera drammatica il processo della Brexit. L’unico dato praticamente certo uscito da una discussione parlamentare ancora in corso è quello del voto anticipato, i cui tempi e implicazioni politiche restano però tutt’altro che chiari.
Lo scontro tra gli schieramenti opposti sulla Brexit a Londra ha raggiunto livelli di gravità difficili da ricordare nel passato anche meno recente. La decisione anti-democratica presa settimana scorsa da Johnson di sospendere il parlamento, in modo da far uscire unilateralmente il suo paese dall’Unione Europea il 31 ottobre con o senza un accordo con Bruxelles, aveva subito incontrato la furiosa reazione dei contrari alla Brexit e dei sostenitori di un’uscita “morbida”.
Questi ultimi avevano allora presentato in tutta fretta un provvedimento, firmato dal deputato laburista “moderato” Hilary Benn, per rimettere le sorti della Brexit nelle mani del parlamento. Martedì, una maggioranza piuttosto netta aveva votato a favore di un ordine del giorno che sbloccava la discussione sulla legge. Essa, in pratica, intende costringere il governo a chiedere un rinvio della Brexit al 31 gennaio 2020 se il parlamento di Londra non sarà in grado di approvare entro il 19 ottobre un nuovo accordo con l’UE o, ipotesi molto improbabile, un’uscita dall’Unione senza paracadute. La data di ottobre segue di due giorni quella prevista per l’ultimo cruciale vertice europeo sulla Brexit, fino ad ora considerato l’ultima occasione per trovare un accordo tra Londra e Bruxelles.
Questa prima sconfitta del premier ha portato a una clamorosa purga nel Partito Conservatore, con ben 21 membri di fatto espulsi per avere fatto naufragare i piani di Downing Street. Tra di essi figurano l’ex Cancelliere dello Scacchiere, Philip Hammond, e il nipote di Winston Churchill, Sir Nicholas Soames. I “ribelli” saranno esclusi dalla lista dei candidati “tories” nelle prossime elezioni, accentuando inevitabilmente la deriva di estrema destra del partito di Johnson.
Mercoledì, ad ogni modo, la “legge Benn” ha superato tutti gli ostacoli procedurali alla Camera dei Comuni, per poi approdare rapidamente a quella dei Lord. Qui, in una seduta nel pieno della notte, è stata ugualmente approvata e tornerà nel pomeriggio di venerdì alla Camera dei Comuni. Gli emendamenti dei Lord verranno discussi ed entro lunedì dovrebbe tenersi il voto definitivo che invierà il provvedimento alla regina Elisabetta per la firma prima della sospensione del parlamento.
L’altra sconfitta del primo ministro è avvenuta sulla sua mozione per chiedere il voto anticipato, verosimilmente da tenersi il 15 ottobre, dopo il rifiuto a considerare un nuovo rinvio della Brexit. Secondo una legge del 2011 (“Fixed Term Parliaments Act”), lo scioglimento anticipato del parlamento britannico è possibile solo con il voto di una maggioranza di due terzi, vale a dire 434 membri della Camera dei Comuni. Con l’astensione dei 247 deputati del Partito Laburista, la mozione del governo ha ottenuto appena 298 voti.
Il leader del “Labour”, Jeremy Corbyn, e altri esponenti dell’opposizione si erano detti favorevoli a un voto anticipato, ma avevano escluso da subito i tempi e le modalità proposte dal primo ministro. Il timore era che Johnson avrebbe potuto cambiare a suo piacimento la data delle elezioni, essendo questa una sua prerogativa, spostandole a dopo il 31 ottobre, così da mandare in porto la Brexit a qualsiasi condizione. Il Partito Laburista, quello Liberal Democratico e gli altri contrari a una “hard Brexit” appoggeranno la richiesta di voto anticipato solo dopo che sarà stato ottenuto un rinvio dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.
La ribellione contro il capo del governo da parte di un numero consistente di parlamentari del suo stesso partito è un fatto eccezionale e testimonia dell’enormità degli interessi in gioco con la Brexit. I conservatori che hanno messo a rischio la loro carriera politica hanno fatto riferimento, nello spiegare la propria scelta, all’imperativo di salvaguardare l’interesse nazionale. In realtà, gli ambienti politici anti-Brexit o favorevoli a una Brexit “morbida” guardano agli interessi economici e finanziari più legati ai mercati europei e che temono perciò ripercussioni pesantissime sui loro profitti in caso di una destabilizzazione del quadro normativo che regola i rapporti tra le due sponde della Manica.
In ballo ci sono poi questioni strategiche, in buona parte legate anch’esse a interessi di carattere economico, e hanno a che fare con l’identità di un paese in profonda crisi come la Gran Bretagna, la cui classe dirigente è chiamata a prendere decisioni cruciali in merito, tra l’altro, alle relazioni non solo con Bruxelles, ma anche con potenze come Stati Uniti, Russia e Cina.
D’altro canto, Johnson e i sostenitori della Brexit a tutti i costi riflettono gli interessi di una parte del business che intravede vantaggi dal rafforzamento della partnership con Washington e da una gestione in piena libertà delle opzioni internazionali a disposizione di Londra. Concretamente, i progetti del governo attuale e degli interessi a cui risponde prevedono uno svincolo dall’Unione Europea per creare una sorta di “paradiso” della deregulation, con welfare e diritti dei lavoratori ridotti ancora di più all’osso, in grado di competere a livello globale attraendo investitori e capitali.
Se un nuovo rinvio della Brexit sembra dunque più vicino, è difficile pensare a quali fattori potranno sbloccare una situazione che ha finora travolto la classe dirigente britannica. Bruxelles continua a mostrare estremo scetticismo sulla possibilità di ridiscutere i termini dell’accordo che era già stato siglato con Theresa May, tanto più che uno dei punti chiave, quello del confine irlandese, resta ben lontano dall’essere risolto o dall’essere oggetto di proposte condivise.
Anche le ormai probabili elezioni anticipate non garantiscono una stabilizzazione del quadro politico. Tutt’altro che improbabile è infatti l’ipotesi di un nuovo parlamento segnato da divisioni e privo di una chiara maggioranza che possa traghettare il paese senza altre scosse verso la Brexit o, non è da escludere, un secondo referendum popolare. In generale, come dimostra la recente sospensione del parlamento, la crisi politica innescata dalla Brexit sta provocando spinte anti-democratiche in quella che dovrebbe essere la culla della democrazia occidentale. A questo proposito, non è un caso che stiano circolando voci su una straordinaria decisione di Boris Johnson, il quale potrebbe ignorare il voto del parlamento per impedire una Brexit senza accordo con l’UE e forzare il Regno Unito fuori dall’Europa non oltre il 31 ottobre prossimo.
Lo stesso voto anticipato si terrà quasi certamente in un quadro caratterizzato da un dibattito politico ristretto alle posizioni pro o contro la Brexit, entrambe, a ben vedere, di poco interesse da un punto di vista pratico per milioni di lavoratori, disoccupati, giovani e anziani che hanno pagato un prezzo altissimo per le ricette ultra-liberiste dei governi conservatori di questi anni.
L’intenzione di Johnson è precisamente quella di impostare una campagna elettorale sulle presunte implicazioni democratiche di una Brexit decisa dalla maggioranza dei votanti nel referendum del 2016 e che i laburisti e l’opposizione intendono invece fermare. È evidente che il primo ministro punti ad alimentare i sentimenti nazionalisti, magari attraverso un’alleanza con il partito di estrema destra di Nigel Farage, trasformando il voto in un referendum sulla Brexit e attaccando quei politici che preferiscono tenere il paese ancorato a un’istituzione burocratica sovranazionale non eletta e profondamente impopolare.
Ironicamente, i conservatori pro-Brexit potrebbero sfruttare ancora una volta, come fecero nel referendum del 2016, l’immagine dell’Unione Europea come dispensatrice di austerity e organo anti-democratico dopo avere implementato essi stessi misure devastanti sul fronte domestico, collegando Bruxelles all’opposizione laburista e agli oppositori della Brexit.
Una buona parte di responsabilità di questa confusione è da attribuire proprio al Partito Laburista e al suo leader. Corbyn ha infatti ormai sposato in pieno la causa anti-Brexit dell’ala destra del “Labour” e, seguendo i consigli dell’ex premier e criminale di guerra a piede libero Tony Blair, ha messo da parte la retorica progressista, che troverebbe invece terreno fertile in ampie fasce dell’elettorato disgustato dalle politiche classiste dei conservatori, per salire sul carro dei contrari all’uscita di Londra dall’Unione senza un accordo.
Nel ristretto panorama della Brexit e con il capitale politico che aveva proiettato Corbyn e i laburisti in testa ai sondaggi in larga misura dilapidato, Boris Johnson e il suo partito potrebbero così trasformare le sconfitte di questi giorni in un clamoroso successo alla chiusura delle urne.
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Mentre l’inviato speciale del governo americano in Afghanistan continua ad alimentare concrete speranze per un accordo di pace tra gli Stati Uniti e i Talebani, l’offensiva di questi ultimi nel paese centro-asiatico sembra non avere tregua. Anzi, nei giorni scorsi gli attacchi contro le forze di occupazione e quelle indigene hanno fatto segnare una drammatica escalation, tanto da mettere in seria discussione la percorribilità del processo diplomatico in corso.
Dopo il nono round di colloqui a Doha, nel Qatar, tra i rappresentanti dell’amministrazione Trump e la delegazione talebana, il diplomatico americano nativo dell’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, ha raggiunto Kabul dove ha messo al corrente il presidente afgano, Ashraf Ghani, dell’esito delle trattative. Un accordo di massima sarebbe stato raggiunto tra le due parti e prevedrebbe, tra l’altro, il ritiro dei soldati USA da cinque basi attualmente occupate in territorio afgano entro i prossimi quattro mesi, sempre che i Talebani rispettino la loro parte di impegni.