Il governo iraniano ha annunciato mercoledì l’attivazione di un meccanismo, previsto dall’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 (JCPOA), che permette alla Repubblica Islamica di sospendere l’implementazione di alcuni termini previsti dallo stesso trattato. Anche se l’accordo resta per il momento in piedi, la decisione di Teheran ne prefigura chiaramente la fine in tempi brevi. Le responsabilità del sempre più probabile fallimento dell’intesa non sono tuttavia da attribuire all’Iran, bensì all’amministrazione Trump, che ha lavorato fin dall’inizio per far naufragare il processo diplomatico, e in seconda battuta agli alleati europei di Washington, incapaci di opporre una seria resistenza alle manovre americane e di formulare una politica estera indipendente coerentemente con i propri interessi strategici.

In un rapporto informativo del Dipartimento di Stato, il governo degli USA riconosce di aver adottato 150 misure coercitive unilaterali contro il Venezuela a partire dal 2017. Tali misure comprendono gli ordini esecutivi (Executive Orders) e le segnalazioni della lista dell'Ufficio di controllo dei beni stranieri (Office of Foreign Assets Control, OFAC) che cercano di inasprire la sofferenza economica e sociale della popolazione, come un'arma efficace per il cambiamento del regime.

 

Mirano alle istituzioni dello Stato responsabili delle finanze del paese, alle attività commerciali internazionali e, con particolare durezza, al punto gravitazionale dell'economia venezuelana: la PDVSA, la compagnia Petróleos de Venezuela. La legge 113-278 ha un impatto sulla relazione del Venezuela con la banca privata, i mercati del debito e altre istituzioni finanziarie internazionali. Stabilisce "sanzioni" alla Banca centrale del Venezuela, la massima autorità in materia monetaria dello Stato e a Petróleos de Venezuela S. A.

A un passo da quello che avrebbe dovuto essere il momento chiave della trattativa tra Stati Uniti e Cina per mettere fine alla “guerra commerciale” in atto tra le due potenze, i nodi di un delicatissimo negoziato in corso da mesi sembrano essere venuti finalmente al pettine. Tutto è iniziato con una serie di “tweet” del presidente americano Trump tra domenica e lunedì, nei quali annunciava l’intenzione di procedere con l’innalzamento delle tariffe doganali sulle importazioni dalla Cina, come minacciato già lo scorso anno prima dell’inizio delle trattative con Pechino.

 

In seguito, il responsabile delle politiche commerciali USA, il falco anti-cinese Robert Lighthizer, ha confermato il probabile aumento dei dazi dal 10% al 25% su 200 miliardi di dollari di merci provenienti dalla Cina a partire dalla mezzanotte di venerdì prossimo. Per Trump, addirittura, la tariffa del 25% sulle importazioni dalla Cina potrebbe essere poi applicata anche ad altri 325 miliardi di beni, coprendo di fatto tutto l’export di Pechino diretto verso l’America.

 

Questa mossa della Casa Bianca è considerata da molti osservatori come una tattica per aumentare le pressioni sulla Cina e consentire a Trump di scansare le critiche provenienti dall’interno e dirette contro la sua amministrazione, accusata in maniera trasversale di essere sul punto di accettare un accordo debole con Pechino, senza affrontare concretamente i problemi “strutturali” del sistema economico e industriale cinese.

L’ennesimo tentativo di golpe non riuscito dei giorni scorsi ha chiarito definitivamente sia in Venezuela che negli Stati Uniti che Juan Guaidò è il cavallo sbagliato per la corsa sbagliata. L’ultima figuraccia l’ha fatta poche ore orsono, quando ha convocato i venezuelani a recarsi fuori dalle caserme per chiedere il sostegno dei militari: nessuno ha seguito l’indicazione. Anzi, i suoi adepti si sono beccati la reazione gentile ma ferma dei militari. Figuraccia planetaria perché le tv erano corse con telecamere a documentare la rivolta e hanno dovuto registrare il fiasco.

 

Da presidente autonominato a fallimento nominato il passo è stato breve. Non è riuscito a far schierare i militari e gli altri settori strategici del paese contro il governo, con le sue boutade ha ridotto il seguito popolare verso l’opposizione ed ha acuito le divisioni tra i partiti che la compongono.

 

Guaidò non è stato ritenuto credibile in patria e all’estero non ha attirato consensi più di quelli direttamente procurati dagli USA. Persino la grande borghesia venezuelana, dai Cisneros in giù, non si è particolarmente ingaggiata nella battaglia per Guaidò, come ha rilevato lo stesso Vicepresidente USA, Mike Pence.

Già invischiato nel pantano della Brexit, il governo conservatore britannico di Theresa May è precipitato in una nuova crisi nei giorni scorsi, culminata nel clamoroso licenziamento del ministro della Difesa, Gavin Williamson. L’allontanamento di quest’ultimo dal gabinetto è legato a una fuga di notizie dall’interno del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, relativamente a una questione tra le più calde sul fronte geopolitico internazionale, quella della collaborazione dei governi occidentali con il gigante cinese Huawei nel lancio della nuova rete 5G.

 

Williamson avrebbe rivelato al quotidiano filo-conservatore e pro-Brexit Daily Telegraph la decisione, presa settimana scorsa dallo stesso Consiglio, sul via libera condizionato alla partecipazione di Huawei alla costruzione delle infrastrutture necessarie all’implementazione del 5G. L’uscita della notizia aveva generato sgomento a Downing Street, principalmente perché arrivata nel pieno delle pressioni del governo americano per escludere Huawei dalla rete 5G del Regno Unito e degli altri principali alleati di Washington.


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