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- Scritto da Fabrizio Casari
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Sono decine i morti, centinaia i feriti e quasi duemila gli arrestati. Notizie di violenze ai danni dei prigionieri si succedono e pare che le donne siano i bersagli preferiti. Le forze armate cilene mostrano al mondo la loro meritata fama di aguzzini. Sparano ad altezza d’uomo a ogni essere umano che si muove. Senza nessuna distinzione tra chi protesta pacificamente e chi cerca di difendersi dalla violenza cieca di militari privi di ogni coraggio ed ogni dignità. Le forze armate cilene sono la vergogna del Cile intero.
Ma non di sola ferocia da sbirraglia si tratta. Rendono chiaro chi comanda politicamente quando correggono il presidente Pinera, che è del resto espressione delle elites economiche del paese andino, abituate a chiedere ai militari di salvaguardare la distanza che intercorre tra il loro arricchimento e le sorti del popolo cileno. L’ipoteca generale che i militari hanno sulla cosiddetta democrazia cilena si rivela in molteplici aspetti. Il primo di questi è determinato dalla loro ingiudicabilità e inquestionabilità, ovvero dall'impunità generale per le loro azioni, ammesso che qualcuno pensi un giorno di chiedergliene conto.
E’ una relazione di dipendenza totale, del resto, quella che lega le elites cilene alle forze armate. E’ in loro nome e per loro conto che nel 1973 si rivoltarono contro il governo di Unidad Popular guidato dal socialista Salvador Allende. Una dipendenza che si accoppia a quella nei confronti degli Stati Uniti, che ispirarono il golpe e la transizione successiva e che ora hanno ordinato di fare quel che sia necessario affinché l’ordine regni a Santiago.
La catena di comando cilena è semplice quanto circolare: oltre che della collocazione geopolitica del Cile, le multinazionali statunitensi dispongono delle sue notevoli risorse di suolo e sottosuolo e le elites del Paese, razziste ed ignoranti, dedite al cumulo di vizi e privilegi, svolgono il ruolo di interessati addetti alla tutela del patrimonio. Riassumendo: i militari, che dispongono del Paese, impongono al governo l’agenda di lavoro ma, a loro volta, prendono ordini dal Pentagono. Tutti insieme formano il "modello".
Che offre il modello? Presto detto. Il 30 per cento dei suoi introiti della bilancia commerciale arrivano nelle tasche dell’uno per cento della popolazione e il Cile risulta tra i 15 paesi con più diseguaglianza del mondo. Dunque succede che uno dei paesi con il PIL più alto dell’America Latina è invivibile per il 70 per cento della sua popolazione, dal momento che offre salari africani e prezzi europei. Il debito procapite delle famiglie cilene per arrivare alla fine del mese raggiunge il 48% del PIL. Gli studenti che vogliono laurearsi devono ricorrere a prestiti bancari, dato che le università cilene sono le più care del continente. L’accesso all’acqua è in mano ai privati. Il sistema pensionistico è privato e, nonostante la cifra che verserà il contribuente sarà oltre il doppio di quanto percepirà, i gruppi finanziari che gestiscono i fondi pensione rifiutano le anticipazioni. La sanità è completamente privatizzata per le prestazioni di livello medio alto, essendoquella pubblica solo oggetto di tagli di spesa e destinata quindi a sanità di emergenza.
Trent’anni di tagli ad ogni servizio sociale sono la manifestazione esantematica di questa struttura della dipendenza: se il pubblico scompare, il privato entra e vince. Se il welfare diventa impronunciabile, la speculazione finanziaria sui servizi alla persona diviene il business più redditizio. E’ questa l’essenza del modello, la cifra autentica di un sistema che ha bisogno dell’impoverimento di massa per generare ricchezza per le elites.
Ma non è solo la nostalgia canaglia a muovere gli uniformati cileni, non c’è solo l’istinto criminale a guidarli, c’è una bella fetta di business che li anima. Vi sono diversi elementi che vanno evidenziati nel comprendere l’ardore con il quale i militari sostengono convenientemente questo modello. Il primo è che in un paese dove il sistema pensionistico è completamente privatizzato, i militari sono l’unica categoria a godere di pensioni pubbliche. Quando, nel 1981, Pinochet impose la privatizzazione del sistema pensionistico, le forze armate cilene ottennero l’esonero dalla privatizzazione e continuarono a godere di ciò che è tuttora vigente: un sistema di sicurezza sociale pubblico finanziato e garantito dallo Stato. Dunque sparano addosso a chi chiede per tutti quello che è previsto solo per loro.
E visto che si spara per convenienza, giova sottolineare che il 10% degli introiti dell’industria estrattiva del rame va proprio alle forze armate, che non hanno nemmeno l’obbligo di rendicontazione del denaro che intascano. Il Cile ne è il primo produttore al mondo e con la sua esportazione ottiene all’incirca il 20 per cento delle entrate complessive del Paese. Certo che si scagliano con ferocia su chi vorrebbe cambiare il modello: pecunia no olet. Ottimo business quello dei militari ma davvero una macabra ironia della sorte: il rame, che venne statalizzato da Salvador Allende, è rimasto di proprietà pubblica ma è ora la prima fonte di guadagno proprio per quei militari codardi che tradirono, lui, il popolo e la Costituzione.
Nel silenzio di tomba delle Nazioni Unite, dell'Unione Europea e, neanche a dirlo, della ridicola OSA, il mondo assiste senza profferire verbo alla mattanza cilena. Scatenati contro qualunque paese che difende la sua sovranità e muti contro chi difende la sua sottomissione a Washington, i famosi attivisti di ONG finanziate dalla USAID e i noti operatori umanitari sostenuti da Freedom House, così attenti al Nicaragua e al Venezuela, guardano con attenzione da altre parti. Un caso di presbiopia politica accentuata.
Il Cile affronta con i mitra in mano la crisi del suo modello. Il Paese non è mai davvero uscito dal pinochettismo, la morte del dittatore non ha eliminato l’ipoteca pesante di forze armate golpiste e genocide che sostengono - e da cui a loro volta sono sostenute - una casta padronale parassitaria. L’impianto giuridico-politico è la degna cornice di un sistema concepito per pochi eletti. Diversamente da quanto avvenuto nell’Argentina dopo il ritorno della democrazia, dove non venne permesso né il perdono né l’oblio, in Cile la Costituzione vigente è quella pinochettista, promulgata il 21 ottobre del 1980, La cosiddetta "era democratica" non ha avuto la forza e la volontà di scriverne una nuova. Il che descrive bene la tipologia del regime, visto che risulterebbe complicato associare alla Costituzione di una dittatura militare fascista un sistema politico democratico. Il suo governo si ispira ideologicamente a Pinochet e le forze armate traditrici e genocide restano con la stessa impronta.
E’ di scena la versione 2.0 di ciò che conoscemmo l’11 Settembre del 1973, quando un esercito fellone bombardò la sua presidenza, aprì il fuoco contro le sue stesse sedi istituzionali e la sua stessa gente, assassinò il suo Presidente, imprigionò, torturò ed assassinò a decine di migliaia di cileni, annullò i diritti civili e politici ed aprì i suoi forzieri alle multinazionali statunitensi. Dall’oasi del modello alla guerra, il passo di Pinera è stato breve: padroni che si fanno presidenti e oppositori che si accucciano al governo; politicanti che s’improvvisano soldati e soldati che dirigono la politica. Per evitare l’incongruenza, per risparmiarci il paradosso, la realtà cilena si presenta com’è: la fine ingloriosa di un modello feroce tenuto in piedi da militari criminali.
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- Scritto da Michele Paris
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L’accordo sul nord-est della Siria raggiunto martedì a Sochi da Erdogan e Putin potrebbe avere creato, per la prima volta in oltre otto anni di guerra, le condizioni per una risoluzione definitiva del conflitto nel paese mediorientale. A mettere il sigillo sui nuovi scenari che si stanno delineando è stato lo stesso presidente della Turchia, i cui interessi, come ha ben compreso il suo omologo russo, sono stati decisivi per creare un equilibrio sostanzialmente favorevole anche a Mosca e Damasco. Erdogan, cioè, ha salutato dal Mar Nero l’ingresso in una “nuova fase”, pianificata per portare finalmente la pace in tutta la Siria.
In un delicato gioco diplomatico, i leader di Russia e Turchia sono riusciti a far quadrare il cerchio nonostante le posizioni teoricamente opposte sullo scacchiere siriano. Con l’approssimarsi dello scadere del cessate il fuoco, ufficialmente negoziato settimana scorsa dal vice-presidente USA Pence ad Ankara, Erdogan e Putin hanno concordato una serie di punti attorno ai quali si deciderà probabilmente la sorte del conflitto.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Gli elettori canadesi hanno dato lunedì un’altra chance di governo al primo ministro, Justin Trudeau, e al suo progressismo di facciata. Il Partito Liberale non è però riuscito a evitare una sensibile flessione dei consensi né la perdita della maggioranza assoluta in parlamento, tanto che il premier sarà costretto a cercare almeno un alleato per continuare a governare a Ottawa anche nei prossimi quattro anni.
Secondo i dati che arrivano dal Canada, il Partito Conservatore di opposizione avrebbe addirittura superato i liberali nel voto popolare. Il sistema elettorale maggioritario del paese nordamericano ha garantito comunque al partito di Trudeau un netto vantaggio in termini di seggi. I liberali restano relativamente lontani dai 170 necessari a governare in autonomia, come successo dal 2015 a oggi, ma con 157 seggi, contro i 121 dei conservatori, sono di gran lunga la prima forza parlamentare canadese. Nella precedente tornata elettorale, il Partito Liberale ottenne 177 seggi, sull’onda del sentimento di repulsione diffuso nei confronti del governo conservatore uscente.
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- Scritto da Michele Paris
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L’evoluzione del quadro siriano, seguita all’invasione delle forze armate turche e delle milizie islamiste appoggiate da Ankara, continua a indicare il possibile formarsi di un quadro generale destinato a stabilizzare, nel breve o medio periodo, questa porzione di territorio del paese mediorientale in guerra dal 2011. Forze contrastanti contribuiscono però a rendere precari i piani di Putin, Erdogan e Assad, non solo a causa degli interessi non completamente allineati dei tre leader e dei loro paesi, ma anche e soprattutto per il ruolo degli Stati Uniti.
Il fattore che maggiormente influisce sul persistere di una situazione confusa in Siria nord-orientale è rappresentato dalle fortissime pressioni esercitate sulla Casa Bianca da quegli ambienti di potere americani decisamente contrari a un disimpegno dalla Siria, auspicato dal presidente Trump con l’avvicinarsi della campagna elettorale del 2020.
Queste spinte sono alla base della decisione di Trump, rivelata dal New York Times nella serata di domenica, di rinunciare a una smobilitazione completa dei militari USA in Siria e di mantenere sul campo almeno 200 uomini delle forze speciali, con ogni probabilità al confine con l’Iraq. Il parziale passo indietro del presidente americano, se confermato, ricorda quello di quasi un anno fa, quando l’annuncio del ritiro dei duemila uomini stanziati senza alcun fondamento legale in Siria fu seguito da accesissime polemiche, culminate nelle dimissioni del segretario alla Difesa Mattis, e da un sostanziale contrordine di lì a qualche settimana.
Anche lo stesso presunto accordo di settimana scorsa ad Ankara tra Erdogan e il vice-presidente americano, Mike Pence, che avrebbe portato alla tregua di cinque giorni tuttora in vigore, è sembrato a molti commentatori al di fuori del circuito dei media ufficiali come poco più di una messa in scena. Essa sarebbe cioè servita più che altro a Trump per allentare le pressioni bipartisan del Congresso e dei vertici militari, presi dal panico all’idea di veder svanire gli investimenti fatti sulla Siria in quasi nove anni di guerra.
I termini del cessate il fuoco, ufficialmente negoziato da Pence, prevedono un processo di de-escalation che in larga misura era già stato stabilito dalla triangolazione strategica tra Mosca, Ankara e Washington, con Damasco e Teheran sullo sfondo. In altre parole, la pausa delle operazioni turche per consentire alle milizie curde dell’YPG di ritirarsi dalla “zona di sicurezza” voluta da Erdogan non aggiunge praticamente nulla alle dinamiche già in corso e innescate dall’ingresso in Siria delle forze di Ankara dopo il sostanziale via libera di Trump ai primi di ottobre.
Salvo imprevisti tutt’altro che improbabili, il quadro che dovrebbe delinearsi vede nella migliore delle ipotesi una neutralizzazione della minaccia curda per la Turchia – vera o presunta che sia – tramite l’accordo tra l’YPG e il regime di Assad, diventato inevitabile dopo il “tradimento” di Trump. La presenza delle forze governative siriane dovrebbe appunto costituire l’assicurazione contro il separatismo curdo che Erdogan sta cercando con l’invasione oltre il confine meridionale. La riconquista di una parte importantissima di territorio da parte di Assad è stata a sua volta resa possibile sia dal ritiro del contingente americano in Siria sia dalla mediazione russa con Ankara.
Che le decisioni fondamentali vengano prese senza gli Stati Uniti è apparso chiaro anche dagli sviluppi diplomatici che hanno accompagnato il vertice tra Erdogan e Pence. Come ha ricordato la testata on-line Al-Monitor, proprio mentre il vice-presidente americano era ad Ankara per annunciare la tregua, nel palazzo presidenziale turco si trovavano anche due inviati di Putin per discutere della situazione in Siria. I diplomatici russi avevano poi riaffermato tre punti cruciali, vale a dire il “legittimo diritto” della Turchia di eliminare la “minaccia terroristica” oltre il confine meridionale e, nel contempo, il rispetto della “integrità territoriale” della Siria assieme all’impegno per la risoluzione della crisi secondo i principi fissati dal formato di Astana, a cui partecipano appunto Ankara, Mosca e Teheran.
Il governo turco, a sua volta, ha nuovamente garantito il rispetto di questi principi e, se mai ci fossero stati dubbi, lo stesso Erdogan già venerdì scorso aveva assicurato che il suo obiettivo era di giungere a un accordo con la Russia sui nodi aperti in Siria nord-orientale, aggiungendo chiaramente che un eventuale ritorno di questo territorio sotto il controllo di Assad, con conseguente ridimensionamento delle ambizioni curde, non avrebbe creato alcun problema per Ankara. Erdogan e Putin si vedranno inoltre martedì a Sochi e in molti vedono in questo vertice l’occasione per riaffermare la collaborazione dei due paesi sul fronte siriano, se non addirittura per elaborare un piano a lungo termine per la soluzione della crisi.
Da questi scenari in divenire dovrebbe o avrebbe dovuto beneficiare anche l’amministrazione Trump, finalmente in grado di chiudere o ridurre drasticamente la disastrosa, quanto illegale, avventura siriana inaugurata da Obama. Ciò è tuttavia in forte dubbio vista l’opposizione di svariate sezioni dell’apparato di potere USA, tanto più in presenza di una procedura di impeachment che minaccia seriamente la prosecuzione del mandato presidenziale.
Le mosse di Trump sulla Siria hanno infatti provocato, oltre alle critiche di democratici e repubblicani, l’intervento contro la Casa Bianca di numerosi esponenti dei vertici militari, solitamente riluttanti a partecipare al dibattito politico. Evidentemente, l’abbandono o il “tradimento” dei curdi e il possibile disimpegno dalla Siria sono visti in questi ambienti come una decisione che rischia di creare un vuoto strategico intollerabile e del quale Russia e Iran intendono approfittare, consolidando la posizione di Assad.
Nei giorni scorsi, è stato difficile tenere il conto degli alti ufficiali, più o meno recentemente ritiratisi dal servizio nelle forze armate USA, che hanno attaccato sui media in modo esplicito le politiche di Trump in Medio Oriente. Dall’ex comandante delle Operazioni Speciali, ammiraglio William McRaven, all’ex comandante delle forze di occupazione in Afghanistan ed ex direttore della CIA, generale David Petraeus, fino all’ex numero uno del Comando Centrale, generale Joseph Votel, in TV e sui giornali in molti hanno dato voce alle ansie di quanti, nel governo e nelle forze armate, temono le conseguenze del comportamento di Trump per la posizione internazionale degli Stati Uniti.
Quasi tutti hanno condannato l’abbandono degli alleati curdi, mentre è stato chiaro il risentimento per avere consegnato una sorta di assist a Putin e Assad dopo anni di operazioni pianificate per cercare di rovesciare il regime di Damasco e trascinare la Russia in un pantano che avrebbe dovuto indebolire il Cremlino.
Gli attacchi sulla Casa Bianca avrebbero ad ogni modo ottenuto il risultato quanto meno di ritardare il ritiro del contingente militare USA dal paese mediorientale e saranno proprio le manovre di questi stessi settori della classe dirigente americana a influire sulla condotta futura di Trump, determinando in buona parte il successo o il fallimento dei tentativi di stabilizzazione in corso nel sempre più intricato teatro di guerra siriano.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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Stato d’emergenza e coprifuoco. Militari che sventagliano con i mitra e carabinieri che si lanciano con affanno contro ogni essere umano che muove passi. Proibito uscire di casa in tutta Santiago dalle nove di sera alle 7 del mattino. Il pinochettismo torna a respirarsi a pieni polmoni.
Gli studenti però non mollano: le manifestazioni proseguono, a Santiago come a Valparaiso e nelle altre città cilene; altri settori della società cilena si mobilitano e i cacerolazos (lo sbattere di pentole a mo’ di protesta ndr)si amplificano continuamente. La protesta contro il governo del cialtrone Pinera, (che la Procura Generale ha accusato di 30 anni di totale evasione fiscale), era nata contro l’aumento del prezzo dei trasporti pubblici. Protesta sacrosanta dato che è il dodicesimo aumento in dieci anni e visto che porta a più di un Euro il prezzo della singola corsa in un Paese dove i salari minimi, numericamente i maggiori, non arrivano a 400 euro al mese.