Dopo l’attacco di settimana scorsa contro due petroliere nel Golfo dell’Oman, le tensioni tra Iran e Stati Uniti sono arrivate molto vicine al punto di rottura. Un’eventuale nuova provocazione rischia di scatenare uno scontro militare dalle conseguenze potenzialmente rovinose, soprattutto in considerazione che nessuna delle due parti sembra avere opzioni percorribili per fare un passo indietro senza dover pagare un prezzo politico altissimo.

 

Su uno scenario già incandescente, è arrivata lunedì anche la notizia che la Repubblica Islamica si appresta inevitabilmente a violare una delle condizioni stabilite di comune accordo con la comunità internazione in merito al proprio programma nucleare. Tra una decina di giorni, la quantità di uranio arricchito prodotta in Iran supererà cioè i limiti previsti dall’accordo di Vienna del 2015 (JCPOA), indebolito in maniera letale dall’uscita degli Stati Uniti decisa nel maggio dello scorso anno dall’amministrazione Trump.

L’incontro di questa settimana a Washington tra il presidente americano Trump e quello polacco, Andrzej Duda, è servito non solo a confermare l’ottimo stato dei rapporti tra Washington e Varsavia, ma anche e soprattutto ad ampliare ulteriormente la distanza che separa gli Stati Uniti dalla Germania e, più in generale, da quella parte di Europa che fa sostanzialmente riferimento alla leadership di Berlino.

 

Il faccia a faccia di mercoledì tra i due leader nella capitale americana si è infatti trasformato rapidamente in un palcoscenico sul quale l’inquilino della Casa Bianca ha sferrato nuovi e pesanti attacchi contro il governo della cancelliera Merkel. Gli argomenti preferiti da Trump sono stati ancora una volta la costruzione del gasdotto “Nordstream 2” e le spese militari tedesche, ritenute non adeguate agli standard previsti dalla NATO.

Nonostante le accuse continuamente rivolte alla Russia, è notoriamente di gran lunga il governo degli Stati Uniti quello che più di ogni altro continua a intervenire in maniera sistematica nel pilotare elezioni oppure colpi di stato in paesi stranieri a seconda dei propri interessi. Le “interferenze” americane non sono inoltre limitate ai tentativi di influenzare le vicende politiche di paesi rivali o nemici, ma si estendono anche a quelli alleati, come dimostra una recente dichiarazione che avrebbe dovuto rimanere segreta di un importante membro dell’amministrazione Trump a proposito del leader laburista britannico, Jeremy Corbyn.

Uno sciopero generale iniziato nella giornata di domenica ha rappresentato la risposta degli oppositori del regime militare sudanese alla violenta repressione scatenata la scorsa settimana nella capitale, Khartoum, e nelle principali altre città del paese africano. Il Sudan è sconvolto da massicce proteste di piazza dal dicembre del 2018 che avevano portato alla rimozione del presidente Omar al-Bashir, al potere da tre decenni. Al posto di quest’ultimo si era installata però una giunta militare che sta cercando ora di implementare una durissima contro-rivoluzione con l’appoggio di potenti alleati stranieri.

Gli elettori danesi hanno punito la destra ultra-liberista e xenofoba nelle elezioni generali di mercoledì, riconsegnando la maggioranza nel parlamento di Copenhagen (“Folketing”) al partito Socialdemocratico che guiderà probabilmente il paese in una coalizione di centro-sinistra. Il voto ha espresso un chiaro rifiuto delle politiche di austerity degli ultimi anni, anche se la campagna elettorale è stata in parte caratterizzata da un’accesa retorica anti-migranti, abbracciata in larga misura anche dal partito vincitore, ufficialmente di orientamento progressista.


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