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Agenti della polizia federale australiana si sono presentati negli uffici di Sydney della rete televisiva pubblica ABC (Australian Broadcasting Corporation) nella mattinata di mercoledì per eseguire un mandato di perquisizione che, a tutti gli effetti, rappresenta un attacco con pochi precedenti alla libertà di stampa e informazione. Probabilmente non a caso, l’operazione ha preceduto di un solo giorno un altro episodio simile, diretto questa volta contro una giornalista responsabile di avere ottenuto e pubblicato informazioni riservate sulle intenzioni del governo di Canberra di ampliare sensibilmente i propri poteri di intercettazione delle comunicazioni elettroniche dei cittadini australiani.
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La visita di stato in Gran Bretagna del presidente americano Trump si inserisce in un clima di estrema tensione sia all’interno del paese alle prese con l’enigma della “Brexit” sia sul fronte delle relazioni transatlantiche. L’incontro di martedì con la premier uscente, Theresa May, e alcuni aspiranti alla sua successione ha fatto riemergere alcune questioni che continueranno ad agitare la classe dirigente britannica nei prossimi mesi, a cominciare dal possibile accordo commerciale tra Londra e Washington dopo la “Brexit” e dall’utilizzo della tecnologia di Huawei nello sviluppo della rete 5G.
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- Scritto da Michele Paris
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Il trattamento riservato dalla Gran Bretagna a Julian Assange dimostra in maniera indiscutibile come il governo di Londra stia sempre più agendo senza nemmeno la pretesa di rispettare le norme democratiche del diritto internazionale. Questa conclusione, tutt’altro che sorprendente, è stata confermata nei giorni scorsi dalla reazione degli ambienti conservatori di potere alla pesantissima accusa rivolta dalle Nazioni Unite ai carnefici del fondatore di WikiLeaks. Lunedì, intanto, un tribunale svedese ha deliberato parzialmente a favore di Assange, riducendo le possibilità di una sua prossima estradizione in Svezia.
Com’è noto, il “relatore speciale” ONU sulla Tortura, l’autorevole docente svizzero Nils Melzer, aveva espresso durissime parole di condanna per “la continua campagna di soffocamento, intimidazione e diffamazione” condotta contro Assange, “non solo negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito, in Svezia e, più recentemente, in Ecuador”. Melzer assicurava di non avere mai assistito, “in vent’anni di lavoro con vittime di guerre, violenze e persecuzioni politiche”, a un complotto come quello in atto contro il giornalista australiano.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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La situazione politica in Nicaragua è caratterizzata dallo scontro tra l’istituzionalità pienamente ristabilita e il sovversivismo costante che un settore minoritario del golpismo, sostenuto con forza dalla corporazione degli imprenditori, dalla gerarchia ecclesiale e dall’estrema destra del MRS, che tentano di imporsi nell’agenda politica nazionale.
C’è stato il tentativo di scatenare una rivolta armata in un carcere mentre erano in corso le ultime verifiche della Croce Rossa Internazionale per il rilascio dei detenuti coinvolti nella violenza golpista scatenatasi nel Paese tra il 18 Aprile e la metà di Giugno del 2018. Un ex marine statunitense, noto delinquente della città di Matagalpa, ha tentato di disarmare un agente di custodia e aprire il fuoco, ma il secondino è stato in grado di bloccarlo e, nella colluttazione, l’assaltatore è rimasto ucciso. Niente rivolta, solo il patetico tentativo dei media della destra di accusare la “dittatura” di aver “assassinato un detenuto innocente”.
Si deve avere un concetto bizzarro del potabile per pensare di convincere qualcuno che, proprio sotto gli occhi della Croce Rossa Internazionale, il governo decida di uccidere a freddo dei detenuti e altrettanto ridicolo appare il tentativo di far passare un uomo con una fedina penale intasata con un innocente prigioniero di coscienza.
Perchè l'estrema destra e l'oligarchia invece del tavolo dei negoziati scelgono la via della provocazione e della violenza? Riflesso condizionato dell'odio ideologico saldato con gli interessi di bottega o calcolo politico? Forse un po' tutto questo. Se infatti il furore ideologico oligarchico non va sottostimato, c'è da dire che nella disperata ricerca di un ritorno della violenza vi sono tre elementi fondamentali dai quali traggono vantaggio. In primo luogo attraverso il caos violento il golpismo ritrova il suo protagonismo: senza la violenza il suo ruolo politico risulterebbe relativo, dato che le forze politiche di opposizione coprono abbondantemente tutta l’area dell’antisandinismo.
In secondo luogo i golpisti ritengono che la possibilità di esercitare pressioni sulla destra seduta al tavolo del negoziato permetta loro di candidarsi direttamente alla leadership dell’opposizione in vista dello scontro politico-elettorale. Da ultimo, ma non per ultimo, i finanziamenti statunitensi ed europei arrivano solo se si evidenzia la repressione da un lato e la loro capacità operativa dall’altro: il venir meno dei due fattori, o anche solo di uno di essi, rende difficile l’iniezione costante di denaro e sostegni ad ogni livello da parte europea e statunitense.
Sì perché la guerra che è stata promossa e incentivata contro il governo sandinista guidato dal Presidente Ortega non è finita, si è solo momentaneamente trasferita nell’ambito internazionale, dove le sanzioni e la pressione politico-diplomatica hanno assunto le veci del sovversivismo armato del 2018. Ma la reiterata disponibilità del governo al rispetto del cammino stabilito congiuntamente per il dialogo nazionale è un elemento decisivo dello scenario ed incide sensibilmente anche sulle posizioni della OEA e degli stessi USA sulla vicenda nicaraguense.
Il governo, infatti, mantiene gli impegni presi nel dialogo nazionale. Niente di strano: per storia, tradizione e senso profondo dell’agire politico, il FSLN rispetta i patti con amici e nemici. Il tergiversare, la manipolazione e il non rispetto degli impegni non sono mai stati usi del sandinismo.
Il dialogo prevede diversi temi: rilascio dei detenuti, revisione dei meccanismi elettorali, indennizzazioni, impegno alla non reiterazione dell’orrore e sforzo congiunto contro ogni sanzione internazionale. Sul rilascio dei detenuti il governo ha già superato ogni aspettativa, forzando oltre il limite pazienza e perdono.
I detenuti vengono liberati facendo ricorso ad una disciplina politica assoluta, che trasferisce il concetto di giustizia nel quadro della responsabilità politica nazionale. Ortega dimostra come governare sia molto più che comandare, perché il governo dell’esistente comporta la gestione politica anche del comando. Costruisce passaggi tattici, orizzonti strategici.
Disegna una idea di Paese, convoca tutti alla responsabilità condivisa e mette sull’avviso chi pensa possibile ribaltare il paese con la forza: essa appartiene a chi ne dispone, ovvero il FSLN, che sa quando usarla e quando lasciarla sullo sfondo. Ricorda perciò a tutti come solo l’intesa politica può produrre un quadro di reciproco riconoscimento perché, come ripete una meravigliosa canzone, habrà patria para todos o no habrà para ninguno.
Ma è proprio sull’idea di patria condivisa che la destra non riesce a incamminarsi. La sua aspirazione ad essere colonia gli impedisce persino di far finta di dissentire sulle sanzioni al paese. D’altra parte, vederli chiedere agli USA di non sanzionare Managua quando proprio loro andarono in ginocchio a Washington ad invocare castighi, sarebbe, va detto, un pentimento degno di nota.
I media di famiglia, ovvero La Prensa, El Nuevo Diario, Confidencial e Radio Corporaciòn, oltre a Canal 10 ed altri, seguono nel compito di disinformare la popolazione e l’estero. Non sono strutture giornalistiche, sono strumenti di propaganda, magazzino di ogni invenzione purché falsa, ferramenta indispensabile per distorcere la realtà e tenere alta la richiesta di sanzioni. Raccontare ogni giorno di una feroce repressione inesistente, di una tremenda dittatura mai dimostrata, disconoscere la legittimità del voto popolare solo perché antioligarchico, è lo scopo di queste piccole fabbriche di odio e menzogne. Mai il giornalismo era sceso così in basso, mai la deontologia professionale era stata affittata a prezzi di saldo dal suo editore. Niente di nuovo o di strano: chi vende la patria compra chi scrive contro la patria.
C’è poi la questione elettorale. Nel 2021 i nicaraguensi torneranno alle urne, dunque la destra ha abbastanza tempo per trovare un patto interno. Lo scontro interno all'opposizione non è sui contenuti, é sulla linea di comando. L’oligarchia è scesa in campo in prima persona e non vuole farsi rappresentare dai partiti storici nicaraguensi. Vede se stessa come suo unico rappresentante: si è fatta partito, ha deciso che il modo per saziare la sua fame di potere è sostituirsi alle forze politiche tradizionali ed ingaggiare la sua guerra contro il governo.
I Chamorro’s spingono sull’acceleratore per mettersi alla testa. Vogliono che l’opposizione al governo sia il prodotto politico generato dal tentato golpe. Immaginano che la cosiddetta Alleanza Civica e il M-19 siano in diritto di scansare la mediazione politica ed i suoi riti, in quanto prodotti diretti dell’oligarchia, concepiti esclusivamente come suo strumento bellico.
Si schierano vecchi arnesi malridotti delle famiglie oligarchiche che si travestono da illuminati politologi e sostengono che la funzione politica dei partiti sia consumata, che per questo vada premiata la freschezza delle strutture nate dall’Aprile del 2018. Ma la verità è che vogliono il comando diretto ed esclusivo dell’opposizione al Frente Sandinista, che risponda alle famiglie oligarchiche e non ai partiti.
Lo stesso sciopero generale convocato il 23 Maggio dal Cosep (ma non da partiti, sindacati e movimenti sociali che ne hanno denunciato il carattere strumentale) conferma come l’impresa privata intenda a tutti i costi assumere la leadership dell’opposizione. Ma l’unico settore che ha partecipato allo sciopero è, appunto, quello privato. Non ha invece aderito l'impresa straniera operante nel Paese, il settore del pubblico e l’intero commercio dei mercati popolari, delle imprese piccole e medie e dei negozi a conduzione familiare. La stessa CNN ha parlato di “sciopero fallito”.
L’obiettivo del Cosep e delle famiglie oligarchiche? Riportare il paese nel caos, in una violenta crisi economica, politica e sociale che obblighi ad accelerare il ricorso alle urne. Allo scopo delegano a Montealegre e all’MRS il disegno del campo, confondendo così maggiordomi con architetti.
Le possibilità che il piano vada in porto? Scarse, per usare un eufemismo. Nemmeno la stessa OEA le sostiene, preferisce l’accordo politico con il governo sulla riforma elettorale. E’ disponibile ad affrontare il tema della riforma elettorale in chiave antigovernativa, ma deve mostrare decenza, simulare neutralità, non può farsi sempre ridere dietro; per questo prende le distanze dall’oligarchia oltranzista.
Inoltre l’opposizione (che sfiora il 30% dei consensi) non ha nessuna intenzione di vedersi sostituire dal partito dei figli di papà. Negozia per il riequilibrio dei poteri a suo vantaggio ma non si fa illusioni circa la possibilità di piegare il governo; sa che il sandinismo è talmente inserito nelle vene del Nicaragua da divenirne un sinonimo; che il FSLN non è un fenomeno transeunte, un dato circostanziale; è parte insopprimibile del Nicaragua. Può essere sconfitto ma non eliminato, può subire uno stop ma non essere espunto.
I partiti dell’opposizione sanno che nemmeno nel trionfo maggiore della destra il FSLN è sceso elettoralmente al di sotto del 34% dell’elettorato e che il suo perdere alcune elezioni (rubate da brogli dei liberali) non sia stato l’inizio della fine ma abbia generato accumulo di forza per tornare a vincere. Dunque inutile anche solo ipotizzare scenari che vedano il sandinismo espulso dal Nicaragua; molto meglio rispettarne la forza ed il radicamento.
L’idea della famiglia Chamorro di trasferire nello scontro permanente la contesa politica non è una pensata geniale, dato che il FSLN ha già mostrato un anticipo della sua forza. Ove la crisi precipitasse, nessuno potrà dirsi in salvo, meno che mai chi ha sparso benzina sul fuoco. Dall’intesa politica nel rispetto della Costituzione nasce una nuova fase, dall’assenza di intesa nasce lo scontro. Qualche oligarca nutre dubbi sul suo esito?
Su un aspetto, nell’opposizione, sono tutti d’accordo: riunire l’antisandinismo di qualunque forma e colore è condizione necessaria, benché non sufficiente, per tentare di vincere nel 2021. Allo scopo disporranno di dollari e consulenze per rafforzare una ingegneria del consenso da raggiungere tramite la manipolazione permanente. Scambieranno il diavolo per l’acqua santa, le ragioni con il torto, il diritto con il rovescio. Ribalteranno la realtà nel tentativo di confondere e manipolare, usando concetti e principi che appartengono al FSLN e alla sua storia. La semina dell’odio per il Frente Sandinista e il suo Comandante sarà principio e fine del discorso politico.
Ma tutto questo rischia di non essere sufficiente, soprattutto se dimostrano ogni giorno quanto gli interessi di alcune famiglie siano per loro più importanti che quelli del Paese. Non hanno credibilità. Non hanno un leader. Non sono in grado di produrre un minimo programma, una ipotesi di paese. Per potersi presentare agli elettori non hanno altra strada che l’accordo nazionale che li renda protagonisti, autorizzati a parlare di Nicaragua in Nicaragua e non solo negli USA. Il bivio è tra incidenza politica o irrilevanza. Prendere o lasciare.
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L’approccio del governo americano alla questione iraniana continua ad apparire contraddittorio e privo di chiarezza, con posizioni almeno apparentemente distanti tra gli esponenti dell’amministrazione Trump e lo stesso presidente. Dopo l’escalation di tensioni delle ultime settimane, infatti, la guerra di nervi tra Washington e Teheran ha fatto segnare in questi giorni un relativo allentamento, in larga misura seguito alle prese di posizione decisamente più caute da parte dell’inquilino della Casa Bianca.
Analisti e commentatori negli USA si stanno chiedendo se quello che sembra un divario sempre più ampio sull’Iran tra Trump e, ad esempio, il suo consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, sia effettivamente il riflesso di politiche e attitudini opposte. La volubilità di Trump e, di fatto, la sua impreparazione e il disinteresse per le sfumature delle relazioni internazionali rendono comunque arduo il compito di decifrare la realtà all’interno dell’amministrazione repubblicana.
Mercoledì, comunque, Bolton è tornato a puntare il dito contro la Repubblica Islamica. Proveniente dal Giappone, dove aveva accompagnato Trump nella sua visita ufficiale, l’ex ambasciatore USA alle Nazioni Unite è giunto negli Emirati Arabi, dove ha affermato, rigorosamente senza presentare alcuna prova, che i presunti attacchi del 12 maggio scorso contro alcune petroliere nel Golfo Persico erano stati “quasi certamente” opera dell’Iran. Con una logica impeccabile, Bolton si è chiesto in maniera retorica chi altro avrebbe potuto condurre un’operazione del genere se non Teheran. Non certo, secondo le sue parole, “qualcuno dal Nepal”. Bolton ha poi accusato l’Iran di avere progettato anche una precedente operazione di sabotaggio, di cui non si era avuta finora notizia, contro il porto petrolifero di Yanbu, affacciato sul Mar Rosso, in Arabia Saudita.
Allo stesso tempo, Bolton ha però anche evitato di alimentare nuove tensioni, assicurando che gli Stati Uniti non stanno pianificando alcuna operazione militare in risposta agli attacchi attribuiti arbitrariamente all’Iran. Nelle settimane precedenti, invece, erano giunte nuove forze militari USA in Medio Oriente, mentre il Pentagono aveva presentato piani di “difesa” contro la presunta minaccia iraniana che includevano anche l’ipotesi di un contingente di 120 mila uomini. In molti hanno collegato la nuova attitudine relativamente moderata del consigliere di Trump alla sorta di richiamo fatto dal presidente nei suoi confronti durante la recente trasferta in Giappone.
Trump aveva indirettamente smentito Bolton con una dichiarazione nella quale spiegava di non essere interessato al cambio di regime a Teheran. A suo dire, la Repubblica Islamica avrebbe la possibilità di “essere un grande paese anche con l’attuale leadership”. Trump, in definitiva, spiegava di volere soltanto la rinuncia alle armi nucleari da parte iraniana, cosa che, peraltro, il governo di questo paese non ha mai cercato e ha più volte escluso in modo ufficiale.
Singolarmente, le posizioni espresse almeno a parole da Trump in Giappone sull’Iran sembrano ricordare quelle che guidarono la politica dell’amministrazione Obama durante il secondo mandato e che sfociarono nell’accordo di Vienna sul nucleare (JCPOA), boicottato nel maggio 2018 dall’attuale presidente. La strategia abbracciata da Obama avrebbe dovuto essere quella di offrire un qualche incentivo alla leadership iraniana per cercare di innescare un riallineamento strategico favorevole a Washington da parte del paese mediorientale.
Che l’attuale presidente USA intenda andare in questa direzione è ancora tutto da dimostrare e, anzi, le indicazioni in questo senso sono per ora quasi inesistenti. Trump e gli ambienti populisti di estrema destra che appoggiano la sua amministrazione sono comunque inclini al disimpegno internazionale e non deve sorprendere più di tanto che rappresentino uno schieramento per certi versi opposto a quello dei falchi interventisti “neo-con” che fanno capo principalmente a Bolton e al segretario di Stato, Mike Pompeo.
La voce del consigliere per la Sicurezza Nazionale continua ad ogni modo a essere sostanzialmente radicale sul fronte iraniano. Tanto che qualcuno gli assegnerebbe un ruolo di provocatore ad hoc, non solo nei confronti di Teheran. La sua utilità per Trump, con il quale sembra avere un rapporto personale non esattamente idilliaco, sarebbe cioè precisamente quella di generare tensioni e ostilità con paesi rivali, in modo da aprire inaspettati spazi di manovra allo stesso presidente, nei quali quest’ultimo possa muoversi tra tentativi di diplomazia e linea dura.
Dietro a John Bolton e, più in generale, alle politiche anti-iraniane di Washington ci sono tuttavia fortissimi e influenti interessi – economici e non solo – che spingono per un continuo aumento delle tensioni, se non un aperto confronto militare. Bolton è infatti sponsorizzato in primo luogo dal miliardario americano Sheldon Adelson, finanziatore di spicco del Partito Repubblicano e irriducibile sostenitore dello stato e delle politiche di Israele.
La chiusura di ogni possibilità di dialogo con l’Iran, al di là delle intenzioni di Trump, è appoggiata anche dall’industria militare americana. Come ha raccontato un recente articolo della pubblicazione on-line The Intercept, i vertici di numerose compagnie che operano nel settore della difesa si stanno da qualche tempo muovendo con i loro investitori per presentare le occasioni di profitto all’orizzonte e, in molti casi, già concretizzate, derivanti dall’impulso alla militarizzazione prodotto appunto dallo scontro crescente tra Washington e Teheran.
Questi colossi dell’industria militare non sono oltretutto spettatori impotenti di fronte al possibile precipitare della situazione in Medio Oriente come altrove, ma operano spesso dietro le quinte attraverso intense attività di “lobbying” che contribuiscono ad aumentare il rischio di una guerra rovinosa.
Di fatto a sostegno di simili manovre operano infine anche i media “mainstream” americani, inclusi quelli nominalmente liberal, come New York Times e Washington Post. Se l’accelerazione anti-iraniana della Casa Bianca viene talvolta presentata come una scelta altamente rischiosa per la stabilità del Medio Oriente, è altrettanto vero che, quasi sempre, è l’Iran, e non gli Stati Uniti, a venire rappresentato come una minaccia alla pace e, tutto sommato, sempre sul punto di riavviare un programma nucleare militare che, al contrario, non è invece mai esistito né è in nessun modo nei piani futuri della leadership di questo paese.