Con le audizioni alla commissione Giustizia della Camera dei Rappresentanti di Washington, nella giornata di mercoledì si è aperto un nuovo capitolo nel procedimento di impeachment contro il presidente Trump che dovrebbe portare entro la fine dell’anno a un primo voto in aula. Le responsabilità politiche e, probabilmente, anche legali accumulate in quasi tre anni dall’inquilino della Casa Bianca sono in effetti pesanti, ma la strada scelta dal Partito Democratico per tentarne la destituzione continua ad avere poco o nulla a che fare con la difesa della democrazia e dei principi costituzionali degli Stati Uniti.

 

Martedì, la commissione Intelligence della Camera aveva approvato il rapporto sull’impeachment stilato dai membri di maggioranza. Quello che appare sostanzialmente come un riepilogo del lavoro di indagine svolto finora sui fatti di cui è accusato Trump ha confermato le due linee d’azione dei leader democratici.

In primo luogo, il presidente sarà messo in stato d’accusa per la famigerata telefonata del 25 luglio scorso al presidente ucraino Zelensky. In essa, Trump aveva minacciato il blocco di quasi 400 milioni di dollari in aiuti militari se non fosse stata aperta un’indagine sui traffici della famiglia dell’ex vice-presidente Joe Biden nel paese e sulle interferenze di ambienti politici di Kiev nelle elezioni USA del 2016. Inoltre, Trump potrebbe essere incriminato per ostruzione alla giustizia, un reato commesso sia con la mancata collaborazione nella defunta indagine sulle presunte collusioni russe sia col negare i documenti richiesti dai democratici della Camera e con l’impedire la testimonianza di numerosi esponenti o ex esponenti della sua amministrazione nell’ambito del cosiddetto “Ucrainagate”.

Il rapporto della commissione Intelligence è stato approvato con i soli voti dei membri democratici ed è stato ora consegnato alla commissione Giustizia che, al termine del proprio lavoro, presenterà gli “articoli di impeachment” sui quali sarà chiamata a esprimersi la Camera dei Rappresentanti nel suo insieme. Una votazione in aula è attesa prima di Natale e l’eventuale parere sfavorevole a Trump passerebbe la questione al Senato, dove la Costituzione USA prevede lo svolgimento di un vero e proprio processo. Per rimuovere il presidente dal suo incarico saranno necessari i due terzi dei voti, cosa al momento molto improbabile vista la maggioranza repubblicana nella camera alta del Congresso di Washington.

Nel primo giorno di audizioni alla commissione Giustizia, i democratici hanno fatto intervenire quattro docenti ed esperti di diritto costituzionale per cercare di legittimare l’impeachment in corso. Tre degli accademici convocati sono stati scelti però proprio dal Partito Democratico e, oltretutto, non risultano imparziali o hanno precedenti che li screditano pesantemente come esperti di democrazia.

Le affermazioni dei tre docenti voluti dal Partito Democratico hanno comunque assicurato che il comportamento di Trump è senza alcun dubbio perseguibile con una procedura di impeachment. Per il professore Michael Gerhardt dell’Università della North Carolina, ad esempio, “se ciò di cui stiamo discutendo non è passibile di impeachment, allora nulla lo è”. Egli stesso e altri due colleghi hanno in definitiva spiegato come l’intervento nei processi politici americani di paesi stranieri fosse una delle questioni che più inquietavano gli autori della Costituzione americana, così che la richiesta di aiuto fatta dal presidente a un governo estero per il proprio vantaggio politico giustifica ampiamente la sua incriminazione da parte del Congresso.

Fin dall’inizio, l’operazione contro Trump messa in piedi dal Partito Democratico ha faticato nell’intercettare l’attenzione degli americani. Se alcuni sondaggi mostrano una certa prevalenza di coloro che sono favorevoli all’impeachment, in generale sembrano dominare disinteresse e indifferenza. La ragione principale di ciò è che il processo in corso non è motivato da questioni legate alla difesa della democrazia, come fu ad esempio nel caso dell’impeachment del presidente Nixon nel 1973-74.

I leader democratici al Congresso continuano in realtà a insistere sull’importanza per i principi democratici e costituzionali dell’incriminazione del presidente, ma le circostanze indicano esattamente il contrario. Proprio il già citato rapporto della commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti, assieme alle prese di posizione dei democratici impegnati nel procedimento e le testimonianze registrate nelle scorse settimane, chiarisce come in gioco ci siano piuttosto questioni legate alla “sicurezza nazionale” americana e, più precisamente, agli imperativi strategici di Washington.

La vera colpa di Trump non è cioè di avere insistito su un governo straniero per ottenere vantaggi politici in cambio dello sblocco di aiuti economici, ma di avere messo a repentaglio con il suo comportamento le manovre strategiche che coinvolgono l’Ucraina fin dal colpo di stato di estrema destra del 2014, pilotato da Washington. In altre parole, con i ricatti e le pressioni su Zelensky, Trump ha rischiato di incrinare i rapporti con il nuovo regime ucraino, sul quale gli Stati Uniti hanno investito decine di miliardi di dollari per fare di esso uno dei punti di riferimento della campagna anti-russa.

L’atteggiamento di Trump nei confronti di Kiev è stato quanto meno discutibile, ma l’impianto accusatorio a suo carico risulta estremamente debole, dal momento che si basa in sostanza sul solo episodio della telefonata del 25 luglio al presidente Zelensky. Questa conversazione e altre presunte affermazioni auto-incriminanti di Trump sono state inoltre riportate da svariati testimoni che non le hanno nemmeno ascoltate direttamente.

L’elemento più rilevante delle dichiarazioni rilasciate alla commissione Intelligence della Camera da parte di diplomatici e funzionari del dipartimento di Stato e del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, è stata la loro insistenza nell’accusare Trump di avere deviato dalle direttive consolidate in materia di politica estera. Tutti, cioè, sono partiti dal presupposto che l’interesse degli Stati Uniti risiede nel mantenere un atteggiamento aggressivo nei confronti della Russia. Perciò, se anche lo stesso presidente decide di esercitare le sue facoltà costituzionali di formulare scelte diverse di politica estera, il compito della burocrazia e dell’apparato della “sicurezza nazionale” deve essere quello di intervenire per correggere il tiro.

Nel concreto, dunque, quando Trump ha mostrato di volere destabilizzare la partnership con Kiev, dove nel frattempo si era oltretutto insediato un presidente meglio disposto verso il Cremlino, gli ambienti legati all’intelligence, ai vertici militari e, in generale, al sistema di potere tradizionale hanno deciso di passare all’azione. Non a caso, infatti, l’allarme che ha fatto scattare l’impeachment era arrivato da un presunto “whistleblower” presente durante la telefonata Trump-Zelensky e che altro non era che un agente della CIA in servizio alla Casa Bianca.

Per queste ragioni, l’operazione di impeachment orchestrata dal Partito Democratico è di carattere essenzialmente reazionario. Non potendo contare su una mobilitazione nel paese in difesa della democrazia, le manovre in atto contro Trump sono destinate a fallire, poiché praticamente nessun membro del Congresso repubblicano sentirà particolari pressioni per votare a favore della rimozione del presidente. In questo modo, l’intera vicenda rischia addirittura di trasformarsi in un assist per Trump in vista delle elezioni del 2020.

I motivi che avrebbero giustificato seriamente una messa in stato di accusa, dal dirottamento illegale di fondi federali verso la costruzione del muro al confine col Messico alla cancellazione di fatto del diritto di asilo, dal divieto di ingresso negli USA imposto ai cittadini di alcuni paesi musulmani alle collusioni con forze neo-fasciste, resteranno sullo sfondo del dibattito politico, consentendo a Trump di presentarsi nuovamente agli elettori come un outsider perseguitato dagli odiati poteri forti di Washington.

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