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Il massacro in corso nello Yemen per mano del regime saudita e dei suoi alleati continua a confermarsi il più grave crimine attualmente in fase di esecuzione sulla faccia della terra. Il tristissimo primato del più povero dei paesi arabi ha trovato conferma in questi giorni con l’ennesima strage commessa dalla “coalizione” guidata da Riyadh, i cui aerei da guerra hanno colpito un edificio adibito a prigione uccidendo più 100 detenuti.
La più recente operazione arriva in un momento nel quale le difficoltà si stanno moltiplicando per l’Arabia Saudita sul fronte yemenita. I “ribelli” Houthi sciiti, obiettivo della campagna militare, continuano infatti a mostrare capacità offensive sempre maggiori, mentre i principali alleati della monarchia wahhabita nel conflitto, gli Emirati Arabi Uniti, sembrano muoversi in direzione almeno parzialmente contraria, come testimonia il riaccendersi delle spinte separatiste nel sud del paese.
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A giudicare dall’atmosfera amichevole che ha caratterizzato l’incontro di questa settimana a Mosca tra i presidenti di Russia e Turchia, sembra difficile credere che i due paesi stiano faticando a trovare una soluzione o, quantomeno, un compromesso sulla delicata situazione del teatro di guerra nel nord-ovest della Siria. Nella provincia di Idlib il conflitto si è infatti riacceso da qualche settimana e la posizione turca appare precaria sotto l’avanzata delle forze di Damasco col contributo decisivo di quelle russe. Le dinamiche delle relazioni tra Mosca e Ankara sono però ormai multiformi, tanto da rendere le vicende siriane quasi un evento marginale, nel quadro di una partnership in divenire che tocca e influisce sempre più sugli equilibri strategici mediorientali e dell’intera regione euro-asiatica.
Se Erdogan era giunto a Mosca per ottenere rassicurazioni sulla campagna militare di Idlib, l’esito del vertice ha alla fine lasciato l’impressione di una vicenda non risolta per quanto riguarda la Siria. Al contrario, il desiderio di Putin di proiettare un’immagine di armonia e di accordo nel rafforzare i legami bilaterali è stato ampiamente soddisfatto.
Da un lato, l’inquilino del Cremlino ha assicurato che i due paesi si sono impegnati a creare una non meglio definita “area cuscinetto” attorno a Idlib, così da proteggere le forze di Ankara dalle operazioni russo-siriane. Dall’altro, invece, sono state attentamente promosse le potenzialità dei rapporti in ambito militare, con i due leader che hanno discusso di fronte alla stampa internazionale delle possibili forniture alla Turchia di equipaggiamenti russi, primi fra tutti i jet Sukhoi già disponibili e quelli di nuova generazione.
Putin e Erdogan hanno visitato assieme la 14esima edizione del Salone Internazionale Spaziale e dell’Aviazione (“MAKS-2019”) e, in uno scambio di battute che non deve essere passato inosservato a Washington, il leader russo ha messo a disposizione del suo ospite i nuovi Su-57 e, soprattutto, ha ipotizzato future collaborazioni nello sviluppo della tecnologia militare più avanzata.
La promozione dei rapporti bilaterali in questo ambito ha un risvolto strategico ben definito e serve a enfatizzare in ogni occasione possibile i progressi della partnership russo-turca. Basti pensare che il fulcro del nuovo corso delle relazioni tra i due paesi, iniziato dopo il punto più basso toccato nel novembre 2015 con l’abbattimento nei cieli della Siria di un jet russo da parte di Ankara, è la fornitura alla Turchia del sistema anti-aereo S-400, attualmente in fase di completamento.
La vicenda dell’S-400 ha acuito le tensioni tra Turchia e Stati Uniti, essendo il sistema missilistico russo incompatibile con gli equipaggiamenti militari NATO e, ancora peggio, rischia di permettere a Mosca di osservare da vicino i dettagli della tecnologia “stealth” americana. Per queste ragioni, l’amministrazione Trump ha escluso la Turchia dal costosissimo programma multilaterale messo in piedi per la realizzazione degli aerei da guerra F-35.
Il nodo di Idlib, al di là dell’importanza attribuita a esso da Putin nella prospettiva della partnership con Ankara, continua a rimanere irrisolto. Fonti turche hanno rivelato alla stampa internazionale come le due parti abbiano avuto un dialogo costruttivo questa settimana a Mosca. Intesa c’è stata sui principi generali, come la necessità di proteggere i civili, salvaguardare le postazioni militari turche e combattere i terroristi, ma i problemi sono sorti nell’affrontare i dettagli.
Secondo il “format” di Astana dello scorso anno, fissato in una serie di meeting dai governi di Russia, Turchia e Iran, le forze del governo di Assad si sarebbero dovute astenere da un assalto alla provincia di Idlib, controllata dall’ex filiale di al-Qaeda in Siria (“Hayat Tahrir al-Sham”) e da altri gruppi radicali più o meno sostenuti da Ankara, se si fossero verificate determinate condizioni. La prima e più importante, finora sempre disattesa, doveva essere il disarmo e l’evacuazione delle formazioni terroristiche grazie alla mediazione della Turchia, alle cui forze armate era stato anche concesso il controllo di una manciata di postazioni in territorio siriano.
La mancata rimozione dei jihadisti da Idlib ha in parte a che fare con le manovre di Erdogan in Siria, dove gli interessi turchi avrebbero subito un pesante rovescio in caso di implementazione integrale dei termini di Astana. La provincia nord-occidentale siriana ha continuato perciò a essere una base di lancio degli attacchi contro le forze governative e quelle russe da parte dei “ribelli” anti-Assad, di fatto protetti da Ankara e dai termini del cessate il fuoco. La situazione è diventata insostenibile per Damasco e per Mosca, così che un’offensiva di terra è stata alla fine lanciata.
Recentemente, le forze di Assad hanno riconquistato la località strategica di Khan Sheikhun, situata lungo l’autostrada Damasco-Aleppo, e ripetuti bombardamenti, denunciati dall’Occidente e dagli ambienti anti-regime per le vittime civili che starebbero causando, continuano a preparare il terreno per un’ulteriore avanzata in direzione nord.
Le operazioni per il ritorno di Idlib sotto il controllo del governo centrale hanno messo in seria crisi la Turchia di Erdogan, non solo sul piano strategico. Anche nei risvolti concreti della battaglia si sono create circostanze allarmanti. Una postazione dell’esercito turco in Siria è stata ad esempio accerchiata nell’offensiva di Khan Sheikhun, mentre un convoglio militare di Ankara è finito sotto il fuoco siriano in questa stessa località durante il tentativo di evacuazione dei “ribelli”.
Questi episodi hanno senza dubbio occupato buona parte dell’agenda di Erdogan nell’incontro con Putin di questa settimana. Il presidente russo ha infatti mostrato una certa disponibilità a tenere in considerazione le preoccupazioni di Erdogan, come testimonia l’idea dell’area cuscinetto lungo la frontiera turca, ma è inevitabile che i cambiamenti degli equilibri sul campo mettano Mosca e Damasco, così come Teheran, in una situazione di vantaggio rispetto ad Ankara. Secondo gli osservatori, è probabile che nell’immediato futuro l’avanzata russo-siriana a Idlib proseguirà con maggiore attenzione per gli interessi turchi, mentre una ridefinizione generale degli scenari di guerra, inclusa una possibile revisione dei termini del cessate il fuoco, avrà luogo nel prossimo vertice trilaterale di Ankara previsto per il 16 settembre.
Erdogan, intanto, continua a chiedere lo stop delle operazioni militari a Idlib, facendo leva sui rischi per la popolazione civile e sul possibile nuovo esodo di rifugiati. Se soprattutto quest’ultima eventualità rischia di rappresentare un problema serio per la Turchia, Erdogan vede in realtà in un successo di Damasco a Idlib il crollo dei suoi ambiziosi progetti in Siria e cerca perciò di conservare una qualche presenza militare oltre il confine meridionale e di mantenere in vita le formazioni “ribelli” appoggiate dal suo governo, se non altro per influenzare a proprio favore futuri negoziati di pace nel paese mediorientale.
La posizione della Turchia è complicata infine dai rapporti con gli Stati Uniti e dalla presenza americana in Siria. Il deteriorasi dell’alleanza con Washington rende indispensabile il rafforzamento della partnership con Mosca, al di là delle divergenze sulla Siria, e, in un intreccio sempre più complesso di interessi contrapposti, il dialogo con la Russia serve anche per fare pressioni sulla Casa Bianca in modo da ottenere concessioni sul fronte siriano nord-orientale, dove a condurre i giochi sono le milizie curde sostenute dagli USA.
Qui, Erdogan attende sempre il concretizzarsi dell’accordo con Washington per la creazione di una “zona di sicurezza” che separi la Turchia dalle Unità di Protezione Popolare curde (YPG), considerate da Ankara come un’organizzazione terroristica alla stregua del PKK. L’ipotesi di un’occupazione parziale turca del territorio siriano nord-orientale è osteggiata da Damasco e vista con un certo imbarazzo da Mosca. La delicatezza degli scenari attuali e la centralità del rapporto tra Russia e Turchia nei piani di Putin suggeriscono tuttavia una certa cautela da parte del Cremlino e, almeno per il momento, il mantenimento di qualche spazio di manovra per Erdogan nell’intricatissimo teatro di guerra siriano.
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La crisi politica scatenata dalla Brexit è precipitata mercoledì con la decisione del primo ministro conservatore, Boris Johnson, di chiedere alla regina Elisabetta la sospensione per alcune settimane del parlamento di Londra, in modo da consentire al suo governo di portare a termine unilateralmente l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, con o senza un accordo con Bruxelles.
La mossa di Johnson era già nell’aria, dopo che la stampa d’oltremanica aveva rivelato nei giorni scorsi come Downing Street avesse appunto chiesto un parere legale al procuratore generale, Geoffrey Cox, circa la legittimità di una sospensione del parlamento a partire dai primi giorni di settembre.
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In tre giorni a partire da sabato scorso, le forze armate israeliane hanno bombardato altrettanti paesi in Medio Oriente, facendo segnare una significativa e rischiosissima escalation nel confronto in atto con l’Iran. Anche se il territorio della Repubblica Islamica non è stato colpito direttamente, è proprio quest’ultimo paese a essere oggetto dell’attenzione del governo del primo ministro Netanyahu, la cui impunità per azioni e crimini che non potrebbero essere tollerati se commessi da altri leader continua a essere garantita dall’appoggio completo dell’amministrazione Trump.
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Per quanti sforzi i governi del G7 abbiano ostentato per proiettare un’immagine di relativa unità o, quantomeno, per evitare un nuovo fallimento pubblico, il vertice di Biarritz non ha fatto che confermare il rapido avvicinarsi di un possibile tracollo del sistema delle relazioni internazionali uscito dal secondo conflitto mondiale. Sotto la spinta di crescenti rivalità e divisioni tra le principali potenze del pianeta, prima fra tutte quella tra Washington e Pechino, i rappresentanti dei governi riuniti nel fine settimana in Francia non hanno nemmeno emesso un comunicato ufficiale unitario, essendo in grado di trovare un punto d’intesa solo nel riconoscimento della distanza che separa i rispettivi punti di vista.