Quito. Per alcuni giorni l'Ecuador ha vissuto una delle peggiori crisi politiche e istituzionali della sua storia. Diversi analisti concordano sul fatto che ciò era dovuto all'imposizione di un pacchetto dopo l'accordo con il FMI, ma che il fattore scatenante sia stato un aumento del 123% dei tassi di carburanti. Le proteste hanno significato dolore per 7 famiglie che hanno perso i loro cari, per oltre 1.000 detenuti (molti di loro saranno perseguiti penalmente), oltre 800 feriti e un centinaio di persone scomparse. Inoltre, ci sono diversi leader della rivoluzione dei cittadini (RC) incarcerati, perseguitati, in esilio e altri con sentenze dall'ufficio del Controllore o del Procuratore.

Quito. Dopo otto giorni di sciopero nazionale, causati da decisioni economiche sbagliate e dallo stato d’assedio, decretato dal governo, l’Ecuador continua a sperimentare uno stato di shock interno e una mobilitazione sociale diffusa, purtroppo repressa con violenza selvaggia da polizia e militari. Per circa otto mesi di propaganda mediatica settimanale, il vicepresidente dell'Ecuador, Otto Sonnenholzner, ha ingannato il paese parlando del "grande accordo nazionale", che in realtà non era altro che un accordo con il FMI, con uomini d'affari e con grandi social media.

Un accordo totalmente incostituzionale poiché ciò che si cercava davvero era di liberare i prezzi del carburante; non a beneficio dello Stato ecuadoriano, ma per consentire alle grandi multinazionali estrattive di rilevare la nuova raffineria da 200.000 barili di petrolio giornalieri e la concessione della raffineria di Esmeraldas, da 110.000 barili al giorno, che sarebbero state assegnate alle multinazionali a prezzi liberati a loro esclusivo vantaggio. Va notato che il FMI è un facilitatore per gli affari delle grandi società transnazionali, creando le condizioni appropriate affinché i paesi consegnino le attività statali. L'obiettivo di questo pacchetto altro non era che l'appropriazione da parte delle multinazionali delle raffinerie del Paese.

L'Ecuador è stato vittima di un'aggressione permanente da parte di un governo traditore, resa ancor più evidente con la fuga del presidente Moreno, che ha lasciato il palazzo del governo a Quito per rifugiarsi a Guayas, dai suoi complici social-cristiani. Nelle misure economiche decretate il primo ottobre, che vìolano gravemente la maggioranza delle persone e danneggiano l'economia delle classi più svantaggiate del Paese, c’è anche l'annuncio della riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici, attraverso misure come rinnovo di contratti occasionali con una retribuzione inferiore del 20%, il contributo di un giorno di stipendio al mese e la diminuzione di 15 giorni di ferie all'anno.

Questo colpo di stato selvaggio del governo contro l'economia del paese, è però riuscito a risvegliare il popolo ecuadoriano, che ha finalmente reagito, nonostante le notizie distorte dei social media, la loro palese difesa degli indifendibili, il loro impegno della politica del governo neoliberista.

Oggi, Quito si è svegliata con la notizia di una massiccia concentrazione del movimento indigeno, operaio e sindacale nella Casa della cultura ecuadoriana, dove i manifestanti hanno tenuto un'assemblea popolare per chiedere al governo di abrogare le misure economiche antipopolari o le sue dimissioni ed hanno, inoltre, deciso di sorvegliare i loro compagni uccisi mercoledì dalla brutale repressione della polizia.

Mentre migliaia di persone stavano manifestando nell'Agorà della Casa della Cultura, il Segretariato della Comunicazione - SECOM proibiva categoricamente a tutti i social media, la diffusione di questa notizia ai cittadini; e i media, se per alcuni istanti lo hanno fatto, lo hanno completamente distorto.

Oggi si è appreso che anche i cittadini ecuadoriani residenti a New York si sono uniti alle marce per chiedere la sospensione dello stato di emergenza dichiarato dal presidente Lenin Moreno. Gli attivisti hanno preso d'assalto l'ufficio del rappresentante speciale del Fondo monetario internazionale presso le Nazioni Unite e poi hanno marciato verso il consolato ecuadoriano.

La Confederazione delle nazionalità indigene dell'Ecuador (CONAIE), rileva che coloro che attualmente sostengono il governo sono "la classe economica vende patria e pro imperialista, che vuole ottenere prestiti dal Fondo monetario internazionale (FMI) in modo che i suoi debiti e le sue crisi, li paghino la classe operaia, gli indigeni e i settori popolari. La CONAIE, dopo aver denunciato la forte repressione alle proteste contro il "pacchetto", che ha lasciato diversi morti, feriti, prigionieri e scomparsi, ha invitato le forze armate e la polizia a ritirare il loro sostegno al presidente Lenin Moreno, sottolineando anche che non ci saranno negoziati con il governo fino a quando non saranno abrogate le misure che hanno scatenato le proteste. La lotta coraggiosa, perseverante e dignitosa del popolo ecuadoriano, e delle comunità indigene in particolare, merita profondo rispetto e ammirazione, costituendo un esempio inestimabile per le generazioni future che vogliano realizzare i loro sogni di libertà e sovranità.

Il fiume di indigeni che invade Quito, proietta sulla scena internazionale un film da non perdere. Protagonisti, coloro i quali vengono immaginati sempre e solo come braccia povere destinate a produrre altrui ricchezze. Stavolta però il film si fa documentario e racconta una storia diversa, quella di chi non accetta di vedersi ridurre lo spazio di sopravvivenza per favorire un ulteriore salto dei profitti privati. E non pensa nemmeno di dover ridurre le sue possibilità per aumentare le royalties delle imprese estrattive statunitensi che, dall’arrivo a Quito di Lenin Moreno, hanno ricominciato a considerare l’Ecuador come un protettorato energetico di Washington.

Il traditore Moreno è accucciato sugli stivali dei militari. Coraggioso nel tradire il mandato ottenuto e i voti ricevuti, ardito nel piegare ai suoi interessi la magistratura e le forze armate, spregiudicato nel proporre una serie di misure con lo scopo di riaprire ed estendere la breccia tra le classi, si dimostra piuttosto codardo nell’affrontare le vittime delle sue prepotenze politiche.

La procedura di impeachment messa in moto contro il presidente americano Trump rischia di trasformarsi in uno scontro costituzionale senza precedenti e con un esito che, comunque vada, prospetta un nuovo pericoloso deterioramento delle forme democratiche di governo negli Stati Uniti. Lo scontro si è aggravato in particolare con la decisione della Casa Bianca di non collaborare con le indagini condotte dal Partito Democratico alla Camera dei Rappresentanti, dove la messa in stato d’accusa del presidente dovrà muovere i primi passi in maniera ufficiale.

L’ostruzionismo è diventato politica ufficiale della Casa Bianca in seguito all’invio di una lettera infuocata alla leader democratica alla Camera, Nancy Pelosi, da parte del consigliere del presidente, Pat Cipollone. In otto pagine, viene in sostanza respinta qualsiasi richiesta in corso e futura di documenti e di possibili testimoni nel quadro del procedimento di impeachment nei confronti di Trump. L’annuncio della Casa Bianca era stato anticipato dallo stop all’audizione al Congresso dell’ambasciatore USA presso l’Unione Europea, Gordon Sondland, la cui testimonianza era stata concordata da giorni.

Sondland, facoltoso finanziatore della campagna elettorale di Trump, è considerato una delle figure centrali delle manovre del presidente per spingere il governo ucraino a riaprire le indagini per corruzione e influenza illecita sull’ex presidente Joe Biden e suo figlio Hunter. L’ambasciatore americano a Bruxelles avrebbe collaborato con Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York e legale di Trump, nella stesura di un comunicato ufficiale che il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, avrebbe dovuto leggere e con il quale si impegnava ad acconsentire alle richieste della Casa Bianca.

Al centro dell’impeachment ci sono appunto le pressioni che Trump avrebbe esercitato su Zelensky al fine di colpire legalmente e politicamente Biden, fino a pochi giorni fa favorito per la nomination democratica e perciò potenziale rivale del presidente repubblicano nelle elezioni del novembre 2020. Trump avrebbe anche congelato quasi 400 milioni di dollari in aiuti militari destinati all’Ucraina allo scopo di convincere Zelensky a muoversi contro i due Biden.

Dopo il colpo di stato di estrema destra orchestrato a Kiev nel 2014, Hunter Biden e il suo studio legale avevano ottenuto un lucroso incarico ai vertici di una compagnia energetica ucraina appartenente a uno degli oligarchi che controllano l’economia e la politica di questo paese. Decine di migliaia di dollari venivano accreditati ogni mese al figlio dell’allora vice-presidente solo per i suoi legami famigliari. Quando la compagnia era finita nella rete della magistratura ucraina, Joe Biden era intervenuto con il governo di Kiev per ottenere il licenziamento del procuratore incaricato del caso, minacciando a sua volta lo stop a circa un miliardo di dollari di aiuti già stanziati dall’amministrazione Obama.

La reazione di martedì della Casa Bianca tramite la lettera inviata alla leadership della camera bassa del Congresso implica un’affermazione di un potere praticamente assoluto dell’esecutivo. Secondo l’interpretazione dei consiglieri di Trump, tra cui deve avere avuto un ruolo decisivo il neo-fascista Stephen Miller, il presidente non può essere sottoposto a limiti né al controllo di un altro potere o organo dello stato.

Questa presa di posizione non è per nulla inedita per quanto riguarda la presidenza Trump ma è evidente che l’intrecciarsi di essa con un delicatissimo procedimento di impeachment va al cuore delle fondamenta democratiche americane e minaccia di produrre conseguenze esplosive. Il rifiuto di Trump ad accettare un’indagine prevista e codificata dal dettato costituzionale, al di là del merito dell’azione lanciata dal Partito Democratico americano, è così perfettamente in linea con il tentativo in atto da oltre due anni e mezzo di introdurre modalità sempre più autoritarie di governo negli Stati Uniti. La sfida di Trump al Congresso si accompagna inoltre a un’altra iniziativa che ha già caratterizzato le azioni del presidente durante i momenti più complicati del suo mandato, cioè l’appello alla mobilitazione della propria base di estrema destra nel paese.

Solo la settimana scorsa, Trump aveva comunque lasciato intendere che sarebbe stato disposto a collaborare con l’indagine nei suoi confronti. Il brusco cambio di rotta indica invece una rottura con i democratici, nella speranza di impedire a questi ultimi di avere accesso a testimoni e documenti a sostegno dell’accusa. In particolare, secondo alcuni, Trump teme non tanto l’impeachment, vista la maggioranza repubblicana al Senato pronta a opporsi ai democratici, quanto il prolungarsi del procedimento che rischia di fare emergere particolari non esattamente edificanti, ad esempio della sua situazione finanziaria e patrimoniale, che potrebbero screditarlo ancora di più. Trump, inoltre, continua a mostrare la propria volontà di sfruttare l’impeachment come arma elettorale.

L’atteggiamento della Casa Bianca finirà peraltro per irrigidire le posizioni del Partito Democratico, i cui leader hanno avvertito che l’ostruzionismo del presidente potrebbe essere anch’esso motivo di incriminazione, come accadde nel 1974 a Richard Nixon dopo il rifiuto di fornire informazioni utili all’inchiesta in corso nei suoi confronti.

La difesa di Trump contro i democratici potrebbe comunque avere un certo successo e non solo per il fatto che il Partito Repubblicano detiene la maggioranza al Senato, dove la rimozione del presidente dovrà essere approvata dai due terzi dei suoi membri. È la stessa tattica scelta dai democratici per incriminare Trump a rendere possibile un contrattacco basato sulla tesi del complotto orchestrato nei suoi confronti dal “deep state” e dai suoi rappresentanti a livello politico.

È necessario infatti ricordare come l’impeachment di Trump si basi interamente sugli input dell’intelligence americana, nel concreto sotto forma di segnalazione di un ignoto agente della CIA che aveva rilevato un comportamento sospetto da parte del presidente nel corso del colloquio telefonico del 25 luglio scorso con il suo omologo ucraino Zelensky.

In definitiva, l’offensiva del Partito Democratico americano non comporta una mobilitazione popolare contro i metodi anti-democratici, anti-costituzionali e in odore di fascismo del presidente, ma punta a rimuovere quest’ultimo dal suo incarico attraverso una campagna che consiste in primo luogo nella celebrazione dell’intelligence e dell’apparato militare come capisaldi della democrazia USA.

Un’operazione di questo genere non ha niente di democratico o progressista, ma è da ricondurre piuttosto allo scontro di ordine strategico tra due fazioni ugualmente reazionarie della classe dirigente americana, esploso soprattutto a causa della politica estera dell’amministrazione Trump, ritenuta contraddittoria e non sufficientemente aggressiva nella promozione degli interessi dell’imperialismo a stelle e strisce.

Quito. Il presidente Lenín Moreno è stato eletto liberamente e democraticamente, nel 2017, dalla cittadinanza ecuadoriana. Venne eletto poiché, come si presumeva, rappresentava la continuazione della rivoluzione dei cittadini, rappresentata dall'ex presidente Rafael Correa Delgado e che, per le importanti conquiste economiche e sociali raggiunte durante il suo periodo di gestione, è stato chiamato "il decennio guadagnato". A quel tempo, eravamo lungi dal sospettare che la svolta neoliberista di Lenin Moreno ci avrebbe portato ad affrontare una delle tappe più terribili della storia dell'Ecuador.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy