La noia che accompagna il consueto dibattito pre-elettorale del Partito Democratico americano è stata spezzata nella serata di mercoledì dalla presenza tra i candidati presentatisi alla diretta televisiva da Las Vegas dell’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg. Per il magnate multimiliardario è stato il battesimo del fuoco in queste primarie, anche se il suo nome apparirà sulle schede elettorali solo a partire dal “supermartedì” del 3 marzo prossimo. Per il momento, gli oltre 400 milioni di dollari già sborsati di tasca propria lo hanno proiettato, almeno a detta dei sondaggi, tra gli aspiranti democratici alla nomination di primissima fascia.

L’ingresso tardivo nella competizione gli ha impedito di presentarsi nei primi quattro appuntamenti elettorali delle primarie democratiche (Iowa, New Hampshire, Nevada, South Carolina), ma Bloomberg ha comunque sottratto rapidamente consensi al gruppo dei candidati “moderati”. Alcuni si sono infatti già ritirati dalla corsa, mentre a fare le spese dell’ascesa dell’ex primo cittadino di New York è stato soprattutto Joe Biden. L’ex vice-presidente di Obama e ormai ex favorito per la nomination ha registrato due clamorosi fallimenti in Iowa e New Hampshire, ritrovandosi con poche o nessuna possibilità di recupero nelle prossime competizioni.

Sabato andranno in scena i “caucuses” del Nevada, dove l’elemento chiave sarà la performance di Bernie Sanders. Il senatore “democratico-socialista” del Vermont è dato in ascesa nei sondaggi nazionali, ma nello stato desertico dell’ovest americano è al centro di una polemica che lo ha messo contro il potente sindacato dei lavoratori della ristorazione. I vertici di quest’ultima sigla, non necessariamente sulla stessa lunghezza d’onda degli iscritti, hanno fortemente criticato la sua proposta di istituire un sistema sanitario pubblico universale, perché ciò comporterebbe la cancellazione del piano di assistenza privato relativamente generoso che i membri del sindacato hanno sottoscritto.

In un dibattito normale, Sanders sarebbe stato perciò preso di mira dai suoi rivali, disperatamente alla ricerca di un modo per recuperare terreno. Il “caso” Bloomberg lo ha invece protetto in buona parte dagli attacchi, spostati per lo più contro lo stesso ex sindaco di New York, a tratti in gravissima difficoltà nel tenere testa ai colleghi democratici.

Nei giorni precedenti il dibattito di Las Vegas, una serie di notizie aveva ricordato alcuni dei punti deboli di Bloomberg, puntualmente ripresi dai suoi rivali nel corso della diretta televisiva. Tra di essi, hanno occupato il dibattito politico americano soprattutto l’attitudine razzista e sessista del numero uno dell’omonimo gruppo editoriale. In particolare, erano tornate a galla le accuse di molestie di svariate ex dipendenti donne della sua compagnia, spesso messe a tacere da accordi privati e a suon di dollari, e il suo aperto sostegno ai programmi “anti-crimine” ultra-discriminatori della polizia newyorchese diretti contro le minoranze etniche della città.

La senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, anch’essa in affanno nei sondaggi, è stata probabilmente la più aggressiva nei confronti di Bloomberg durante il dibattito, giungendo a paragonarlo anche al presidente Trump. Malgrado le accuse abbiano a che fare con temi razziali e di genere cari ai media “liberal” americani, esse non sembrano finora minacciare la sua posizione. Il motivo della sostanziale indulgenza mostrata per il momento verso Bloomberg dipende dal fatto che la sua candidatura e il suo denaro risultano utili e, forse, a breve indispensabili per contrastare la corsa di Sanders e riorientare verso il centro, per non dire a destra, gli equilibri del Partito Democratico.

In generale, Sanders continua a beneficiare della dispersione del voto tra l’ala moderata del partito e, ancor più, dell’orientamento sempre più a sinistra dell’elettorato di riferimento dei democratici. Una certa ansia pervade l’establishment del partito e la galassia dei commentatori ad esso vicini per questa situazione di incertezza che, appunto, finisce per consolidare la posizione di Sanders.

Anche durante il dibattito sono stati evidenti i tentativi di mettere in difficoltà il 78enne senatore del Vermont. Una delle domande rivoltegli dal moderatore della serata ha toccato la questione dell’eleggibilità negli Stati Uniti di un candidato che si auto-definisce “socialista”. L’argomento continua a dominare la discussione attorno a Sanders e dovrebbe convincere gli elettori a optare per un’altra scelta, dal momento che le sue posizioni troppo radicali non gli permetterebbero di intercettare i voti necessari a conquistare la Casa Bianca in un’eventuale sfida con Trump a novembre.

Lo stesso Sanders ha risposto citando i sondaggi che lo indicano in vantaggio su base nazionale in un testa a testa con il presidente repubblicano. Non solo, sono ormai parecchie le indagini di opinione che mostrano come, soprattutto tra gli elettori più giovani, esista anche in America un’attitudine più favorevole verso il socialismo, al di là del significato di questa definizione, rispetto al capitalismo.

In linea di massima, ciò non dovrebbe sorprendere ma risulta comunque significativo alla luce del bombardamento mediatico sulla quasi sacralità del capitalismo e sull’impraticabilità negli Stati Uniti non solo del socialismo, ma anche solo di un modello riformista social-democratico. La tesi dei media americani è smentita dal fatto che Sanders sta guadagnando terreno nei sondaggi proprio mentre sembra avere adottato una retorica più marcatamente di sinistra. Nel dibattito di mercoledì ha ad esempio attaccato frontalmente Bloomberg, parlando di un sistema “oligarchico” controllato da una élite di “miliardari”.

Nel recentissimo sondaggio di Washington Post e ABC News, Sanders è salito così al 32% su base nazionale, staccando nettamente gli altri candidati democratici, nell’ordine: Biden (16%), Bloomberg (14%) e Warren (12%). Ancora più indietro sembrano essere i due candidati “emergenti” che avevano ottenuto risultati a sorpresa in Iowa e New Hampshire, cioè l’ex sindaco della cittadina di South Bend, Pete Buttigieg (8%), e la senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar (7%).

Il percorso di Sanders resta comunque accidentato, perché i vertici del Partito Democratico cercheranno in tutti i modi di impedire la sua nomination, come già era accaduto nel 2016 a favore di Hillary Clinton. Già in questi giorni si è accesa una nuova polemica sul presunto rifiuto di rendere pubbliche le informazioni relative al suo stato di salute. Qualche mese fa, Sanders era stato sottoposto a un intervento in seguito a un attacco cardiaco.

Sabato in Nevada, poi, si terrà il secondo appuntamento della stagione con i “caucuses” e in molti hanno messo in guardia da possibili manipolazioni dei risultati, come potrebbe essere avvenuto un paio di settimane fa in Iowa. Come in quest’ultimo stato, anche in Nevada sarà utilizzata un’applicazione per il conteggio dei voti, sviluppata da una compagnia legata a Buttigieg, che aveva causato gravi problemi e creato confusione sull’esito finale, penalizzando proprio Sanders.

Se, nonostante tutto, l’attuale “fronrunner” democratico dovesse uscire vincente dal Nevada e dalla South Carolina, dove si voterà il 29 febbraio, la sua posizione sarà difficilmente attaccabile nel “supermartedì”. Soprattutto Bloomberg potrà comunque contare su risorse finanziarie personali virtualmente illimitate e, nella peggiore delle ipotesi, continuerà a correre per impedire a Sanders di ottenere la maggioranza assoluta dei delegati alla convention della prossima estate. In questo caso, è probabile aspettarsi il tentativo di unire la destra del partito per dirottare la nomination verso un candidato decisamente più gradito all’establishment democratico.

La proclamazione ufficiale del vincitore delle elezioni presidenziali dello scorso settembre in Afghanistan ha innescato questa settimana una nuova grave crisi politica in un frangente forse cruciale per il futuro del paese centro-asiatico. Alla Commissione Elettorale Indipendente sono serviti quasi cinque mesi per ratificare l’ennesimo voto-farsa, il cui esito avrebbe confermato il successo del presidente in carica, Ashraf Ghani, eletto senza bisogno di ricorrere a un secondo turno di ballottaggio con il suo immediato rivale, il primo ministro o, più precisamente, “chief executive” del governo di Kabul, Abdullah Abdullah.

L’annuale Conferenza sulla Sicurezza e lo stato dei rapporti transatlantici, organizzata nel fine settimana a Monaco di Baviera, si è trasformata nell’ennesimo vertice frequentato da esponenti di spicco dei governi occidentali che ha mostrato il livello avanzato di conflitto tra gli interessi economici e strategici degli Stati Uniti, da una parte, e degli alleati europei dall’altra. I leader di Germania e Francia sono stati tra quelli che hanno sottolineato maggiormente le divisioni, denunciando senza mezzi termini le tendenze ultra-nazionaliste dell’amministrazione Trump e la gestione americana delle relazioni con potenze come Russia e Cina.

Luiz Inácio Lula Da Silva costituisce ancora un’enorme risorsa per il movimento operaio e popolare brasiliano e internazionale. Lo si è potuto constatare all’incontro organizzato il 13 febbraio presso la Sede nazionale della CGIL. L’ex presidente del Brasile è in piena forma ed esibisce una vitalità e una lucidità sorprendenti per un settantaquattrenne da poco tornato in libertà dopo esser stato costretto (ingiustamente) a passare 580 giorni in galera.

Nel suo intervento Lula ha parlato con orgoglio dei successi indiscutibili della sua amministrazione, che ha sottratto 36 milioni di persone alla miseria, creato 11 milioni di posti di lavoro, consentito a centinaia di migliaia di giovani poveri di accedere all’istruzione superiore e all’università e restituito al Brasile il rango di Potenza internazionale nell’ambito dell’Alleanza BRICS.

Ha ricordato, con aneddoti gustosi e battute salaci, le sue esperienze ai vertici internazionali, come quello del G8 ad Evian che segnò il suo debutto su quella scena. Lui, che aveva cominciato a lavorare bambino e sofferto la fame vera, si chiedeva chi altro dei partecipanti a quelle riunioni di VIP potesse vantare un curriculum del genere. Ciò nonostante riuscì a stabilire rapporti di umana comprensione e simpatia persino con loro, nessuno escluso.

Ha ricordato, fra l’altro, come proprio a quella riunione di Evian, tutti si fossero alzati in piedi all’arrivo di Bush. Lui no - ha detto - perché Bush non si era alzato in piedi al suo arrivo. L’eguaglianza fra le persone praticata con coerenza in ogni circostanza. Dello stesso Bush respinse con forza la pretesa di giustificare l’invasione dell’Iraq con il pretesto delle armi chimiche, una scelta disastrosa della quale ancora oggi il popolo iracheno e altri popoli della regione stanno pagando duramente le conseguenze.

In Lula emerge una umanità davvero rimarchevole, fatta di disponibilità a capire, grande intuizione e capacità di risolvere i problemi  trovando quella semplicità che è difficile a farsi, della quale parlò una volta Bertolt Brecht. Ma anche grazie ad una grande dignità e caparbietà infinita nella lotta per la giustizia a tutti i livelli.

Ai temi della disuguaglianza e del disastro ambientale è stato dedicato l’incontro che poche ore prima aveva avuto con Papa Francesco Al cui invito si deve la sua due giorni italiana) e su questi ed altri temi i due grandi leader hanno trovato una sintonia che davvero non stupisce chi ne conosca la storia e le posizioni.

Parole chiare le ha avute nei confronti dell’amministrazione Trump, commentando con ironia la farsa del pagliaccio autoproclamato Guaidò, da lui definito un “pazzo venezolano” richiamando con forza tutti alla necessità di rispettare le scelte del popolo del Venezuela. Ha anche condannato il tentativo di spazzare via i palestinesi, per i quali ha chiesto uno Stato, come l’ebbe a suo tempo Israele.

Grandi temi, scelte indiscutibili e di cristallina trasparenza. Il grottesco personaggio che, grazie alla montatura giudiziaria del giudice Moro, ne ha preso il posto alla presidenza del Brasile, ha rapidamente restituito questo enorme e ricchissimo Paese al tradizionale ruolo di marionetta degli Stati Uniti e delle multinazionali, mentre peggiora a vista d’occhio la situazione sociale ed ambientale e si moltiplicano i crimini delle forze dell’ordine e delle milizie di natura apertamente criminale con esse collegate. Fra tali crimini vari assassinii politici contro leader come Mariele Franco, ma anche altri meno noti.

Certamente l’esperienza fatta negli ultimi anni ha ulteriormente affinato le capacità politiche di Lula e potrà consentire a lui e alla coalizione di movimenti sociali e partiti politici che lo appoggia di mettere  in cantiere politiche ancora più efficaci che in passato e di segno ancor più netto nel senso della protezione dei diritti sociali e dell’ambiente. E ovviamente del rilancio della Patria Grande, del sogno dell’integrazione latinoamericana basata su organismi attualmente in quiescenza, come la CELAC e UNASUR, che devono tornare ad operare per la pace, la democrazia e il benessere dei popoli latinoamericani.

Come evidenziato più volte di recente dallo stesso Lula, la sinistra può tornare a vincere. Ma a tale fine è molto importante che torni in campo lui, superando l’ingiusto ostacolo ai suoi diritti politici costituito dal procedimento penale pretestuoso, del quale i suoi legali hanno chiesto l’annullamento alla Corte suprema, dati i vari vizi sostanziali e procedimentali che lo rendono completamente illegale e contrario agli elementari principi del diritto.

Il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha cercato di ricondurre a uno sgarbo più o meno personale la clamorosa decisione di questa settimana di cancellare un cruciale accordo militare tra il suo paese e gli Stati Uniti. L’impatto del provvedimento, se confermato, è tale tuttavia da incrinare seriamente i rapporti tra i due storici alleati, suggerendo perciò l’esistenza di ragioni di portata strategica ben più importanti. Queste, com’è facile intuire, hanno a che fare in primo luogo con la rivalità crescente tra Washington e Pechino in Asia sud-orientale.

A inizio settimana, dunque, Duterte ha notificato alla rappresentanza diplomatica americana a Manila la sospensione unilaterale del cosiddetto “Visiting Forces Agreement” (VFA), il trattato bilaterale entrato in vigore nel 1999 che permette e regola lo stazionamento di militari USA sul territorio delle Filippine. In assenza di iniziative da parte dei due paesi, l’accordo sarà ufficialmente sciolto alla fine di un periodo di 180 giorni.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy