Un atteso rapporto del parlamento britannico sulle presunte interferenze russe nel referendum sulla Brexit del 2016 è stato prevedibilmente utilizzato questa settimana da Londra per lanciare una nuova linea d’attacco contro il Cremlino. La polemica che ne è scaturita ha coinvolto il governo conservatore di Boris Johnson e i due che lo hanno preceduto, tutti accusati di non avere indagato a sufficienza sulle manovre di Mosca, nonostante di queste ultime non sia emersa una sola prova concreta.

Praticamente tutti i giornali “ufficiali” d’oltremanica già dai titoli hanno proposto un’interpretazione fuorviante dei risultati dello studio condotto dalla commissione Intelligence e Sicurezza della Camera dei Comuni. In breve, a partire dal governo Cameron nel 2016, tutti i leader avvicendatisi a Downing Street avrebbero ignorato una montagna di indizi sulle operazioni clandestine della Russia per influenzare il risultato della consultazione che decise l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

 

I governi conservatori, sempre secondo questa ricostruzione, si sarebbero rifiutati di fare chiarezza anche se erano a conoscenza di precedenti simili – e ugualmente molto dubbi – che risalivano al referendum del 2014 sulla secessione della Scozia. In questo caso, al contrario della Brexit, l’influenza russa non aveva ottenuto il risultato sperato, visto che la maggioranza degli scozzesi si era espressa a favore dello status quo. In seguito, nemmeno il caso dell’avvelenamento dell’ex spia russa Sergei Skripal nella primavera del 2018, sfruttato anch’esso per alimentare sentimenti anti-russi, aveva convinto il governo di Londra ad agire.

Gli autori del rapporto collegano l’indifferenza dei governi davanti alle presunte mostruosità autorizzate da Putin al dilagare dell’influenza degli oligarchi russi in Gran Bretagna. I fiumi di denaro affluiti da Mosca a Londra, assieme al fatto che svariati membri conservatori della Camera dei Lord hanno interessi economici connessi agli ambienti russi, avrebbero scoraggiato David Cameron, Theresa May e Boris Johnson dall’approfondire il ruolo del Cremlino nell’orientare gli elettori verso la Brexit.

In realtà si tratta di due questioni ben distinte e il tappeto rosso steso da Londra ai super-ricchi russi intenzionati a riciclare il loro denaro nel Regno Unito dovrebbe essere il vero scandalo emerso dal rapporto della Camera dei Comuni. Un altro aspetto ignorato dai media britannici è legato all’oggettiva interferenza di altre forze esterne che auspicavano la permanenza di Londra nell’UE. Clamoroso fu ad esempio un discorso apertamente anti-Brexit tenuto dall’allora presidente americano Obama durante una visita in Gran Bretagna nel pieno della campagna elettorale.

In oltre 50 pagine, gli autori dell’indagine non hanno fatto emergere nulla che dimostri la tesi delle interferenze russe nella campagna per la Brexit. Da questa assenza di prove non si giunge però alla conclusione più logica, cioè che non ci sono state manipolazioni significative da parte di Mosca, ma anzi si rilancia, accusando i governi britannici degli ultimi quattro anni di non avere mosso un dito per smascherare un presunto complotto che non può non essere stato messo in atto.

Nel rapporto si legge che le responsabilità di Downing Street sono ancora più gravi se paragonate alla reazione degli Stati Uniti dopo i fatti che avevano accompagnato le elezioni presidenziali del 2016. Oltreoceano, le accuse contro Mosca di avere favorito la vittoria di Trump avevano sollecitato una frenetica azione politica e di intelligence per fare luce sulle responsabilità russe.

Anche nel caso americano le prove dell’influenza russa non sono mai state presentate, ma la vicenda aveva scatenato una violenta disputa politica sfociata nell’ormai defunto “Russiagate”. Il riferimento alla caccia alle streghe negli Stati Uniti nel rapporto britannico sembra a ben vedere un atto di recriminazione della classe politica d’oltremanica. Se si fosse colta l’occasione dopo la Brexit, la campagna anti-russa avrebbe potuto iniziare precocemente e con più intensità, agitando informazioni di intelligence, spacciate per verità inconfutabili, davanti all’opinione pubblica domestica e internazionale.

I segnali espliciti della campagna russa a favore della Brexit sarebbero tra l’altro da ricercare, secondo il rapporto, nel moltiplicarsi di notizie e commenti apparsi alla vigilia del referendum sui media vicini al Cremlino, come RT o Sputnik, e favorevoli all’addio a Bruxelles. Immancabili sono poi i finti account Twitter che avrebbero influenzato l’opinione degli elettori.

Di questo fenomeno si era discusso a lungo anche negli USA dopo la vittoria di Trump, ma indagini indipendenti avevano dimostrato come questi account, la cui identità era tutta da dimostrare, avessero in larghissima parte come obiettivo quello di attirare utenti verso siti commerciali, sfruttando l’interesse per gli eventi politici più caldi del momento. Oltretutto, la mole di “post”, notizie e commenti in circolazione sul web durante la campagna elettorale per la Brexit, come ancor più per le presidenziali americane, era evidentemente tale da rendere trascurabile la quota attribuita alle attività dei “troll” russi.

È molto più probabile piuttosto che i governi conservatori non abbiano agito semplicemente perché non vi erano indicazioni concrete di azioni russe volte a sabotare il voto del 2016. Sempre per questa ragione, quando i membri della commissione incaricata di redigere il rapporto chiesero alla MI5 di ricevere una risposta scritta sulle possibili interferenze russe, l’agenzia di intelligence britannica replicò “inizialmente con una risposta di appena sei righe”.

Lo stesso governo Johnson ha confermato l’assenza di dati significativi sulle influenze “maligne” del Cremlino. Un portavoce di Downing Street ha spiegato martedì che “non c’era bisogno di lanciare un’indagine” perché l’intelligence britannica stava già conducendo “regolari valutazioni” della minaccia russa. Queste spiegazioni non hanno comunque avuto effetto sui media britannici, che hanno sfruttato il caso per alimentare l’ossessione anti-russa.

Il quotidiano The Independent, ad esempio, ha aperto l’articolo principale sulla questione spiegando assurdamente che “Boris Johnson è sotto accusa per avere dato il via libera alle interferenze del Cremlino nella politica britannica dopo avere respinto le raccomandazioni” del rapporto appena pubblicato e tenuto a lungo segreto.

Il primo ministro ha in effetti gestito la pubblicazione del rapporto in modo da limitare al massimo le conseguenze negative sul piano politico. L’indagine della commissione parlamentare era stata completata già nell’ottobre 2019, ma Johnson aveva prolungato il processo di revisione e declassificazione fino a dopo le elezioni anticipate di dicembre. Per vedere la luce, il rapporto ha poi dovuto attendere altri sette mesi.

Anche se Johnson ha respinto le conclusioni del rapporto reso pubblico martedì, le inclinazioni del governo di Londra non sono molto diverse da quelle dei suoi accusatori. Le iniziative contro Mosca non sono infatti mancate e solo la scorsa settimana il ministro degli Esteri, Dominic Raab, aveva puntato strumentalmente il dito contro la Russia per avere diffuso il contenuto di un dossier riservato relativo ai negoziati tra Gran Bretagna e Regno Unito su un possibile accordo di libero scambio.

Downing Street condivide infine in pieno il tentativo di sfruttare il rapporto per attribuire ulteriori poteri di controllo e repressione ai servizi di sicurezza, con la scusa di combattere intrusioni di paesi rivali. Il Times di Londra ha rivelato che, proprio in conseguenza dell’indagine del Parlamento sui fatti che avrebbero influenzato il referendum sulla Brexit, Johnson intende presentare un progetto di legge che, prendendo di mira soprattutto i media e i social network, consenta maggiore libertà di azione a quelle agenzie governative incaricate di combattere le “interferenze” straniere nel Regno Unito.

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