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- Scritto da Carlo Musilli
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Invece di combattere per gli inglesi, Boris Johnson ha deciso di abbandonarli al coronavirus. “Moriranno molti dei nostri cari”, ha detto la settimana scorsa in conferenza stampa. Parole drammatiche, a cui però non ha fatto seguito l’annuncio di misure per restringere il contagio e limitare i decessi.
Il motivo? Tutto nasce da una teoria di Sir Patrick Vallance, consigliere scientifico del primo ministro britannico. L’idea è di un cinismo senza precedenti: secondo il Baronetto, quando il 60% dei cittadini avrà contratto il coronavirus, il Paese svilupperà un’immunità di gregge che limiterà i danni nel lungo periodo. Vallance ritiene inoltre che contenere l’epidemia sia impossibile, perciò tanto vale arrendersi in partenza e lasciare che la malattia faccia il suo corso, sterminando centinaia di migliaia di inglesi.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Il rapido evolversi della crisi legata al Coronavirus sta mettendo di fronte l’Italia e molti altri paesi del pianeta alla seria eventualità di un collasso dei sistemi sanitari, già devastati da decenni di tagli alla spesa pubblica. Quasi ovunque, tuttavia, i governi stanno adottando misure che, sia pure con gradi di serietà ed efficacia anche molto differenti, risultano inadeguate a contenere la diffusione rapida della malattia e a proteggere la salute di decine di milioni di persone. Questo fallimento annunciato non dipende tanto – o non solo – dall’incompetenza dei governi, quanto principalmente dall’inadeguatezza del capitalismo a rispondere a crisi che minacciano le fondamenta stessa della società.
Le priorità dei governi nella gestione della crisi in corso sono risultati evidenti da molte iniziative prese in questi giorni a livello globale. Negli Stati Uniti, il sostanziale atteggiamento di indifferenza del presidente Trump per la diffusione, quasi sicuramente sottostimata, dell’epidemia e le trattative al Congresso per un inadeguato pacchetto di aiuti a popolazione e imprese contrasta in maniera drammatica con il tempestivo intervento delle autorità federali a favore del sistema finanziario.
Giovedì, infatti, la Federal Reserve ha messo a disposizione qualcosa come 1.500 miliardi di dollari alle banche americane sotto forma di prestiti a breve scadenza per “far fronte alle perturbazioni altamente insolite dei mercati a causa del Coronavirus”. Se utilizzata per rispondere prontamente all’epidemia, questa cifra sarebbe stata abbondantemente sufficiente a contenere gli effetti devastanti a cui il mondo sta assistendo.
Anche in Italia, le decisioni “drastiche” prese dal governo hanno lasciato in larga misura aperte le fabbriche di tutto il territorio, ostentando l’introduzione di norme di comportamento e “misure di sicurezza” teoricamente obbligatorie per giustificare l’obbligo imposto ai lavoratori di rischiare il contagio. Al primo posto continua d’altronde a esserci la salvaguardia di profitti e quote di mercato delle aziende.
A confermare questa realtà è stato lo stesso presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, il quale in un’intervista al Corriere della Sera di venerdì ha chiesto all’Europa un intervento per chiudere tutto il sistema produttivo del continente. Infatti, se a fermarsi fossero solo le imprese italiane, le fette di mercato di queste ultime potrebbero essere accaparrate dai loro concorrenti. Per Bonometti, inoltre, gli scioperi spontanei diffusi nei giorni scorsi sarebbero “irresponsabili” e ha invitato perciò i sindacati a fare di più per contenere le tensioni e riportare la disciplina tra i lavoratori.
In paesi dove la situazione tra qualche giorno o settimana potrebbe risultare molto simile a quella italiana le decisioni dei governi appaiono ugualmente insufficienti e la prudenza dipende quasi sempre, da un lato, dall’incapacità di reperire risorse da tempo sottratte deliberatamente alle necessità della popolazione e, dall’altro, dal timore di interferire con gli interessi del business. In Francia, il presidente Macron ha annunciato una chiusura parziale delle attività, ma nessuna misura importante è stata presa per effettuare test di positività su larga scala o per mettere a disposizione maggiori risorse al sistema sanitario.
In Germania, qualche giorno fa la cancelliera Merkel aveva rilasciato una dichiarazione agghiacciante nella quale prospettava una diffusione del contagio nel suo paese al 60% o al 70% della popolazione, senza tuttavia offrire soluzioni concrete, ma mettendo soltanto in guardia dal rischio che la sanità tedesca possa essere travolta nelle prossime settimane. Le implicazioni delle parole della Merkel sono di un numero enorme di decessi, verosimilmente anziani, per i quali le cure potrebbero essere limitate in maniera drastica, in modo da non “sovraccaricare” il sistema sanitario.
Ancora più incredibile è stata la reazione del governo britannico di estrema destra del primo ministro, Boris Johnson. Quest’ultimo, membri del suo gabinetto e “consiglieri scientifici” stanno promuovendo l’incredibile tesi della “immunità di gregge” nella popolazione che, in termini concreti, consiste nell’applicare il culto del neo-liberismo alla pandemia in corso, lasciando milioni di persone esposte al virus e a morte certa.
Prima di fare una parziale e umiliante marcia indietro con alcune misure ancora una volta inefficaci, Johnson ha così avvisato che nel Regno Unito “numerosissime famiglie finiranno per perdere i loro cari prima del tempo”. Ancora più rivelatrici sono state le dichiarazioni di altri esponenti del governo di Londra e di commentatori vicini ai conservatori. Il “capo consigliere scientifico” di Downing Street, Patrick Vallance, ha spiegato che il governo non dovrebbe cercare di evitare che il Coronavirus infetti la popolazione e provvedimenti di questo genere “non sono nemmeno desiderabili”.
L’editorialista del Daily Telegraph, Jeremy Warner, ha ammesso invece apertamente quello che in molti stanno già pensando all’interno delle classi dirigenti di tutto il mondo, cioè che il COVID-19 “potrebbe addirittura avere effetti moderatamente benefici nel lungo periodo, eliminando in maniera selettiva e sproporzionata gli anziani dipendenti” dal welfare.
Ancora negli Stati Uniti, le misure più incisive hanno a che fare finora con lo stop ai voli provenienti dall’Europea, anche se il virus è ormai da tempo sul suolo americano e pochi sforzi si stanno facendo in modo serio per contenerne la diffusione. La scelta di mettere un integralista cristiano e anti-evoluzionista, come il vice-presidente Mike Pence, alla guida dello sforzo anti-Coronavirus la dice d’altra parte lunga sulle intenzioni di un’amministrazione che vanta già un lungo elenco di iniziative anti-scientifiche.
Il governo USA ha stanziato appena 50 miliardi di dollari per combattere l’epidemia. Qualche restrizione ai movimenti sul territorio americano potrebbe essere invece decisa nel prossimo futuro, mentre altre modeste misure prevedono, tra l’altro, interventi a favore di quanti perderanno o hanno già perso il lavoro a causa del Coronavirus e per garantire qualche giorno di congedo pagato ad alcuni lavoratori dipendenti.
In una conferenza stampa dalla Casa Bianca per annunciare le misure contro il COVID-19, venerdì Trump ha significativamente invitato svariati “CEO” di compagnie private con interessi nel settore sanitario. Tutte saranno coinvolte nello sforzo che il governo metterà in atto, a cominciare dalla campagna per sottoporre a test di positività i soggetti o, per meglio dire, una minima parte di coloro che presentano sintomi sospetti.
In sostanza, la Casa Bianca continuerà a muoversi in due direzioni, la prima per cercare di minimizzare, anche per fini elettorali, l’impatto del COVID-19 e la seconda per assicurare ai grandi interessi economico-finanziari che l’emergenza sarà un’altra occasione per fare affari sulla pelle degli americani.
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- Scritto da Michele Paris
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Con la scelta compatta di lanciare Joe Biden verso la corsa alla Casa Bianca, i vertici del Partito Democratico americano si preparano a offrire all’elettorato degli Stati Uniti un candidato pesantemente compromesso con l’establishment di Washington, con un curriculum politico ultra-reazionario e razzista e che continua a mostrare ripetuti segnali di un grave degrado cognitivo. Le vittorie nelle primarie di martedì hanno rafforzato come previsto la posizione dell’ex vice-presidente, ormai avviato a consolidare un vantaggio in termini di delegati virtualmente incolmabile per Bernie Sanders.
Il senatore “democratico-socialista” del Vermont, dopo i successi in New Hampshire e Nevada, si è ritrovato improvvisamente di fronte a un muro insormontabile, costruito dal suo stesso partito proprio mentre sembrava potere unificare il voto progressista americano e mobilitare ampie fasce disagiate della popolazione solitamente refrattarie a quello che vedono – a ragione – come un circo elettorale senza alcun effetto sulle proprie vite.
La campagna anti-Sanders del Partito Democratico aveva resuscitato Biden già in South Carolina e, soprattutto, nel “Supermartedì” di settimana scorsa. Questa settimana, invece, le vittorie decisive sono arrivate da Michigan, Missouri, Mississippi e Idaho. In particolare il primo stato rappresenta uno snodo importante verso la nomination, sia perché fa parte dell’area del Midwest (post-)industriale solitamente decisiva nelle presidenziali sia perché qui quattro anni fa Sanders si era imposto a sorpresa su Hillary Clinton, gettando le basi per una competizione prolungata con la ex first lady.
In linea generale, Biden ha di nuovo beneficiato del voto a valanga degli elettori afro-americani più in là con gli anni. In seconda battuta, gli exit poll hanno mostrato margini confortanti per l’ex vice di Obama tra i votanti bianchi delle aree suburbane e rurali, le donne e, in un segnale allarmante per Sanders, gli iscritti a un organizzazione sindacale.
Il coalizzarsi, razionalmente inspiegabile, dei neri a favore di Biden è apparso in tutta la sua evidenza in Mississippi, dove l’elettorato di colore è appunto una fetta enorme di quanti si recano alle urne per il Partito Democratico. Qui, Biden ha superato l’81% dei consensi, mentre Sanders non ha nemmeno raggiunto il 15%. Il 78enne senatore del Vermont ha vinto invece in North Dakota, mentre ha un leggerissimo vantaggio nello stato di Washington, dove però il conteggio dei voti risulta ancora in corso.
La promozione di Joe Biden come paladino degli afro-americani è un caposaldo della strategia democratica per ostacolare Sanders ed è fondata in primo luogo sulla mobilitazione a suo favore dei membri del Congresso e di altre personalità di spicco di colore appartenenti al partito. L’unica credenziale, per così dire, che renderebbe Biden degno di questo ruolo è rappresentata dai suoi due mandati come vice di Barack Obama.
Nella realtà dei fatti, il passato di Biden è macchiato, oltre che da innumerevoli uscite pubbliche in odore di razzismo, da strette collaborazioni con politici segregazionisti negli anni Settanta e, tra l’altro, dall’appoggio a iniziative di legge “law and order” che negli ultimi due decenni hanno determinato una drastica impennata della popolazione carceraria di colore.
Il significato più profondo della riproposizione della candidatura di Biden da parte dei leader democratici è da collegare in ogni caso al genere di campagna elettorale che questo partito intende combattere nei prossimi mesi. Un’indicazione di ciò l’ha data lo stesso ex vice-presidente nel suo discorso alla chiusura delle urne martedì sera. Biden ha assicurato che il suo ritorno da presidente alla Casa Bianca servirà a “far comprendere ai nostri avversari che gli Stati Uniti intendono ristabilire in fretta l’ordine mondiale”.
Il messaggio di Biden non è dunque indirizzato agli elettori democratici, tanto meno a quelli di orientamento progressista, bensì ai poteri forti all’interno dello stato, preoccupati dall’imprevedibilità di Trump e dalle sue politiche ultra-nazionaliste che hanno messo in dubbio la partnership con molti alleati e la stessa utilità della NATO. Parallelamente, anche le timide e iniziali aperture di Trump alla Russia saranno rapidamente archiviate.
Sul fronte domestico, è quasi superfluo ricordare le tendenze pro-business di Biden, non a caso ex senatore di uno stato, come il Delaware, sede di numerose grandi compagnie finanziarie per via dello status di paradiso fiscale. Giusto per dare un assaggio di quella che potrebbe essere una presidenza Biden, lunedì sono circolate negli Stati Uniti presunte intercettazioni di consiglieri dell’ex vice-presidente che discutevano di possibili candidati a entrare in un futuro gabinetto democratico. Tra di essi venivano citati l’ex sindaco di New York e multimiliardario, Michael Bloomberg, e il “CEO” di JPMorgan, Jamie Dimon.
Un altro aspetto sconcertante della figura di Joe Biden è l’evidente deterioramento del suo stato di salute, oggetto di commenti allarmati sui social media. In molti hanno ipotizzato che Biden sia affetto da una forma iniziale di demenza, evidenziata da una serie di segnali fisici difficilmente negabili. I media ufficiali continuano sostanzialmente a ignorare questo aspetto, quasi sempre liquidando il problema con la consueta tendenza alle gaffes da parte dell’ex vice presidente.
Il ripetersi di queste circostanze solleva tuttavia seri interrogativi sulle capacità del 77enne Biden di sostenere una campagna elettorale ancora lunghissima. Il presidente Trump ha inoltre già sfruttato le presunte gaffes del suo futuro avversario democratico in chiave elettorale e, dopo l’estate, sarà inevitabile un intensificarsi degli assalti, per non parlare delle situazioni imbarazzanti che si verranno a creare nei dibattiti.
Tra i segnali delle ultime settimane che fanno temere per la salute mentale di Biden spicca un episodio accaduto subito dopo le primarie del “Supermartedì”. Parlando durante un comizio di fronte ai suoi sostenitori, Biden aveva preso per mano e guardato negli occhi la moglie, che si trovava alla sua destra, presentandola al pubblico come sua sorella. La sorella dell’ex vice-presidente, invece, era anch’essa sul palco ma alla sua sinistra.
Biden, poi, ha ad esempio affermato sempre in un evento pubblico di essere in corsa per il Senato americano e non per la presidenza, si è definito un “democratico O-Biden Bama”, invece che “Obama-Biden”, e, prima del “Supermartedì”, aveva sostenuto di aspettare con ansia l’appuntamento di un fantomatico “Supergiovedì”.
Le condizioni di Biden devono essere state valutate anche dai vertici del Partito Democratico, tanto che appaiono già in atto manovre per manipolare le regole dei prossimi dibattiti con Sanders, in modo da evitare confronti diretti tra i due candidati o domande della stampa non preparate in anticipo, se non per cancellarli del tutto. Se le condizioni di Biden dovessero peggiorare nei prossimi mesi, non è chiaro quali potrebbero essere le iniziative del partito. Quel che conta al momento è impedire a Bernie Sanders la conquista della maggioranza dei delegati alla convention della prossima estate.
Il declino del gradimento di Sanders deve comunque fare riflettere ancora una volta sulla futilità dei tentativi di trasformare il Partito Democratico in senso progressista, principalmente attraverso l’appello a una nuova fascia di elettori, primi fra tutti quelli più giovani. In molti stati andati al voto tra ieri e il “Supermartedì” si è registrato un netto aumento dell’affluenza rispetto a quattro anni fa, ma i voti andati a Sanders sono stati quasi sempre di meno che nelle primarie del 2016. Soprattutto l’incapacità di motivare un numero più consistente di giovani dimostra come questi ultimi siano alla ricerca anche negli Stati Uniti di un’opzione più radicale di Sanders e del Partito Democratico.
Queste tendenze saranno con ogni probabilità confermate nel prossimo appuntamento con le urne. Martedì si voterà in altri stati importanti e ricchi di delegati, come Florida, Illinois, Ohio e Arizona. In tutti, i sondaggi danno Biden in vantaggio e se l’ex vice-presidente dovesse fare nuovamente il pieno, le pressioni su Sanders per ritirarsi dalla corsa potrebbero diventare insostenibili.
La conquista di fatto della nomination da parte di Joe Biden metterà così gli americani ancora una volta davanti alla realtà di un Partito Democratico come tomba di qualsiasi movimento o aspirazione radicale o anche solo moderatamente progressista. Non solo, al di là di quanto dicono oggi prematuri sondaggi sui testa a testa in previsione di novembre e a meno di un rovinoso tracollo dell’economia, il successo pilotato di Biden nelle primarie finirà per garantire quasi certamente un secondo mandato di Trump alla Casa Bianca.
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La giustizia americana ha dovuto registrare un clamoroso fallimento questa settimana in un caso con serissime implicazioni per la “sicurezza nazionale” e collegato in maniera indiretta alla persecuzione di Julian Assange. Un giudice di un tribunale federale di Manhattan ha cioè annullato per comportamento irregolare dell’accusa, ovvero il governo di Washington, un processo che vede alla sbarra l’ex ingegnere informatico della CIA, Joshua Schulte, accusato di avere passato a WikiLeaks una mole enorme di documenti riservati sulle attività criminali dell’agenzia di Langley e pubblicati col titolo di “Vault 7”.
Un altro ex agente della CIA incriminato nel recente passato, John Kiriakou, ha sottolineato dalla sua pagina Facebook come la decisione di invalidare un procedimento o una parte di esso in un caso come quello di Schulte sia particolarmente grave per il dipartimento di Giustizia USA. Oltre all’importanza del processo in sé, in questi casi l’accusa dispone infatti anche di vantaggi considerevoli rispetto alla difesa. Ad esempio, richieste di documenti e testimonianze da parte dei legali dell’imputato sono quasi sempre negate se l’accusa fa appello alla necessità di segretezza per ragioni di “sicurezza nazionale”.
Ciò è esattamente quello che è accaduto nel processo a Schulte. Quest’ultimo, inoltre, è stato sottoposto a ripetute violazioni dei suoi diritti costituzionali. Un difensore dell’ex agente della CIA aveva rivelato qualche mese fa come la sua corrispondenza legale fosse monitorata dalle autorità federali e gli stessi legali minacciati di possibili denunce se fossero entrati in possesso di documenti classificati.
Non solo, alla difesa era stato fatto divieto anche di effettuare ricerche in rete sui testimoni della CIA apparsi sotto falso nome sul banco dei testimoni durante il dibattimento. L’intero processo, infine, si è tenuto nel silenzio praticamente assoluto dei media ufficiali americani, mentre i pochi giornalisti indipendenti che hanno seguito le sedute hanno avuto frequentemente difficoltà ad accedere all’aula o ai documenti del processo.
Lunedì, ad ogni modo, la giuria nel caso Schulte non è stata in grado di raggiungere un verdetto relativamente a otto capi d’accusa, ovvero quelli di gran lunga più gravi a suo carico e contestatigli secondo il dettato del famigerato “Espionage Act”, utilizzato anche per l’incriminazione di Assange. La ragione principale di ciò è stata la mancata comunicazione alla difesa di informazioni cruciali riguardanti il testimone chiave dell’accusa, un ex agente della CIA e amico dell’imputato noto solo con il nome di “Michael”.
Quest’ultimo aveva testimoniato di essere stato presente nel momento in cui Schulte stava scaricando il materiale riservato dell’agenzia. In seguito era però emerso come “Michael” si fosse rifiutato di collaborare con l’FBI nell’indagine e, per questa ragione, la CIA lo aveva sospeso dal suo lavoro. La situazione di “Michael” non era stata comunicata alla difesa se non sei mesi più tardi, cioè il giorno prima della sua testimonianza in aula, sottraendo in questo modo un’informazione che poteva mettere in discussione la regolarità e l’attendibilità dell’ex collega di Schulte.
Così facendo, l’accusa ammetteva anche di non avere la certezza della colpevolezza dell’imputato. Anche perché, nel corso del dibattimento, la difesa ha dimostrato come il server della CIA da cui furono sottratti i documenti finiti nelle mani di WikiLeaks aveva un livello di protezione molto basso e poteva dunque essere facilmente violato da molti.
Sempre secondo la difesa, Schulte è stato individuato come capro espiatorio della fuga di informazioni a causa della disputa con la CIA che aveva portato al suo addio all’agenzia nel novembre del 2016. Schulte aveva avuto parecchi diverbi con colleghi e superiori e in varie occasioni gli erano state per questo revocate le autorizzazioni di accesso a documenti riservati.
La giuria ha invece raggiunto un verdetto di colpevolezza sulle accuse decisamente meno gravi di oltraggio alla corte e falsa testimonianza all’FBI che pendevano su Schulte. In un procedimento separato, l’ex agente della CIA è accusato anche di detenzione di materiale pedopornografico, presumibilmente ritrovato durante la perquisizione condotta nella sua abitazione dopo l’arresto. Per il momento, Schulte resterà in carcere e sarà probabilmente sottoposto a un nuovo processo per i capi di imputazione basati sull’Espionage Act.
L’eventuale crollo definitivo delle accuse relative ai documenti della CIA pubblicati da Wikileaks potrebbe avere conseguenze anche sul caso Assange. Se estradato negli Stati Uniti, infatti, quest’ultimo potrebbe dover far fronte a nuove accuse, con ogni probabilità proprio in relazione al “Vault 7”. Ciò sarebbe contrario all’impegno preso con Londra dal governo di Washington, anche perché l’eventuale incriminazione per un reato che prevede la pena di morte impedirebbe automaticamente l’estradizione dal Regno Unito verso gli USA.
Oltre ai tentativi del governo americano di manipolare le procedure legali per ottenere la condanna di Joshua Schulte, va evidenziato come quest’ultimo o chiunque sia stato a fornire a WikiLeaks i documenti segreti della CIA in questione non solo non ha commesso alcun crimine, ma ha svolto un servizio dal valore inestimabile per la popolazione degli Stati Uniti e di tutto il pianeta.
La pubblicazione del cosiddetto “Vault 7” nel 2017 aveva scatenato comprensibilmente il panico a Langley. Nel corso del processo a Schulte, un esponente di vertice della CIA aveva raccontato di come, dopo la diffusione del materiale da parte di WikiLeaks, un collega lo aveva contattato telefonicamente dicendogli che quanto era appena accaduto “equivaleva a una Pearl Harbor digitale” per gli Stati Uniti.
Nella fuga di informazioni più grave nella storia della CIA, erano state rivelate a tutto il mondo alcune delle attività clandestine e, oggettivamente criminali, della principale agenzia di intelligence americana, dirette sia contro paesi nemici sia contro alleati storici. Tra le rivelazioni più clamorose c’era l’installazione di malware per assumere il controllo di qualsiasi dispositivo elettronico, incluse le “smart TV” e i computer di bordo delle moderne automobili, ma anche le procedure per hackerare sistemi informatici lasciando tracce che avrebbero condotto erroneamente ad attribuirne la responsabilità a paesi “canaglia”, come Russia, Cina, Iran o Corea del Nord.
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La nuova purga ordinata nei giorni scorsi in Arabia Saudita dall’erede al trono, principe Mohammed bin Salman (MBS), si inserisce in una congiuntura economica e in uno scenario geo-strategico particolarmente delicato per la monarchia wahhabita. Gli arresti di due influenti principi della casa regnante si aggiungono inoltre alla guerra attorno al prezzo del petrolio, lanciata sempre da MBS, che rischia di mettere Riyadh contro Mosca e, soprattutto, Washington, con conseguenze disastrose sia per il paese mediorientale sia per la posizione interna dello stesso principe ereditario.
Come sempre accade in Arabia Saudita, è impossibili basarsi su notizie certe per spiegare quanto stia succedendo nei palazzi del potere. Alcune pubblicazioni hanno tuttavia citato anonime fonti interne al regno che contribuiscono almeno in parte a fare luce sulle azioni di Mohammed bin Salman.