L’approccio della Svezia all’epidemia di Coronavirus continua a provocare un acceso dibattito in tutto il mondo e a essere non di rado sfruttato politicamente da quanti, soprattutto negli ambienti di estrema destra, vedono con orrore le misure di “lockdown” adottate fin qui dalla grandissima maggioranza dei governi. La decisione di Stoccolma di evitare l’imposizione delle più rigorose misure di distanziamento sociale, consigliate dalla comunità scientifica, potrebbe forse risparmiare almeno in parte la Svezia dai pesanti contraccolpi economici della crisi. Il prezzo da pagare in termini di vittime appare tuttavia decisamente meno confortante delle immagini che mostrano strade e locali affollati in un’ostentazione di inquietante normalità.

Le decisioni del governo guidato dal primo ministro socialdemocratico Stefan Löfven avrebbero non solo come obiettivo la salvaguardia del tessuto economico svedese, ma anche la gestione razionale sul lungo periodo di un’epidemia che, qualsiasi fossero stati i provvedimenti, avrebbe comunque avuto un impatto importante sul paese. Da questi presupposti, è logico dedurre che il concetto a cui si ispirano le autorità svedesi abbia a che fare con la famigerata “immunità di gregge”, anche se a Stoccolma si continua a respingere fermamente questa interpretazione per descrivere il piano anti-Covid19.

Il governo sostiene che lo scopo delle proprie azioni è salvare le vite degli svedesi e proteggere la salute pubblica, come per i paesi che hanno implementato chiusure più o meno rigide. Anche in Svezia sono in vigore alcune misure restrittive, come il divieto di assembramenti di oltre 50 persone, mentre per il resto si è puntato soprattutto su “raccomandazioni”, a cominciare da quelle di evitare trasferimenti non necessari e, per i più anziani, di restare in casa.

Un esponente di vertice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) mercoledì ha discutibilmente elogiato il “modello” Svezia. La sua insistenza sull’esempio di “convivenza” della società con il virus sembra comunque suggerire che quello svedese sia più adatto a una “fase 2” dell’emergenza piuttosto che a modalità da attuare all’inizio di una pericolosa epidemia come quella in corso.

Per spiegare le decisioni blande del governo, in molti hanno fatto riferimento a questioni culturali specifiche o alla tradizionale fiducia che gli svedesi avrebbero nelle autorità, così da rendere superflue se non controproducenti eventuali imposizioni per legge. Le immagini che continuano ad arrivare dalla Svezia indicano però attività sociali solo relativamente diminuite e, di conseguenza, l’inevitabile diffondersi del virus.

Le posizioni del governo Löfven, in ogni caso, non hanno fondamenta scientifiche propriamente dette. Anzi, buona parte della comunità scientifica svedese critica da tempo le autorità politiche e chiede misure più efficaci per contenere la malattia. A fine marzo, ad esempio, duemila ricercatori del paese scandinavo avevano sottoscritto una petizione per sollecitare il governo a “limitare severamente i contatti tra le persone nella società e aumentare drasticamente i test di positività” al Coronavirus. Un docente di microbiologia del Karolinska Institutet di Solna, a pochi chilometri da Stoccolma, ha a sua volta spiegato in un’intervista alla CNN che il più alto numero di morti registrato finora in Svezia rispetto ad altri paesi è da attribuire “almeno in parte alla mancata implementazione per legge di un rigoroso lockdown”.

Ancora, nella petizione dei ricercatori svedesi si sottolineava che il tentativo di “creare un’immunità di gregge, come accade durante le normali epidemie di influenza, ha poco o nessun sostegno scientifico”. Ad ammetterlo è stato anche l’epidemiologo Anders Tegnell, responsabile scientifico del governo svedese nella lotta al virus e architetto della strategia in atto. In una recente apparizione pubblica, Tegnell ha dapprima confermato l’intenzione di favorire l’immunità nella popolazione, ufficialmente per “meglio affrontare un’eventuale seconda ondata”, per poi riconoscere come sulla questione “si conosca ancora poco”.

Il sospetto di molti, riguardo l’approccio della Svezia, è piuttosto che il governo abbia accettato deliberatamente di sacrificare centinaia o migliaia di vite per evitare scosse eccessive all’economia. Comunque si vogliano giudicare le conseguenze economiche del “lockdown”, è innegabile che politiche meno restrittive favoriscano il diffondersi dell’epidemia e, se esse possono forse limitare l’impatto sul PIL, lo stesso non si può dire per i decessi.

A dimostrazione di ciò, i numeri svedesi non sono incoraggianti se si accostano alla situazione di paesi con cui è ragionevole fare un confronto. I vicini scandinavi sono quelli che, per struttura sociale, popolazione e cultura, appaiono i più adatti allo scopo. Danimarca, Finlandia e Norvegia – diversamente dalla Svezia – hanno tutti deciso in queste settimane di restringere severamente le attività economiche e sociali in seguito all’emergenza.

Secondo i dati ufficiali, i decessi per Coronavirus in Svezia, paese con circa 10 milioni di abitanti, sono finora quasi 2.600 a fronte di oltre 21 mila contagiati. In Danimarca (popolazione 5,8 milioni) i dati sono invece rispettivamente 9.160 e 452. In Finlandia (5,5 milioni) 5.000 e 211. In Norvegia (5,4 milioni) 7.740 e 210.

Se si considera che la Svezia può avere limitato l’impatto del COVID19 anche grazie a fattori indipendenti dalle decisioni del governo, come bassa densità di popolazione, sistema sanitario di buon livello e un numero relativamente limitato di ingressi dall’estero, il raffronto con altri paesi in condizioni peggiori non è ugualmente confortante. Un paese con un numero di abitanti simile ma con livelli qualitativi di vita ritenuti nettamente inferiori e che ha adottato misure di “lockdown”, come la Repubblica Ceca, ha oggi un bilancio molto migliore rispetto alla Svezia, cioè poco più di 7.600 contagiati e 235 morti.

Ciò che sorprende è inoltre che il rapporto tra decessi causati da Coronavirus e popolazione risulta peggiore per la Svezia rispetto anche ad alcuni dei paesi più colpiti dall’epidemia, inclusi gli Stati Uniti. Come in questi paesi, infine, le misure ritenute più che sufficienti dal governo di Stoccolma non sono state in grado di proteggere le fasce più deboli della società. Anche in Svezia, infatti, la malattia si è diffusa in maniera violenta nelle case di cura per anziani, facendo un numero altissimo di vittime. Le ragioni principali sono state, qui come altrove, la carenza di dispositivi di protezione per gli operatori sanitari e l’insufficienza di test di positività effettuati su questi ultimi.

Una scelta come quella svedese avrebbe dovuto accompagnarsi poi al dispiegamento di un sistema efficace di controllo e tracciamento del contagio. Uno studio di questa settimana diffuso da un’agenzia governativa ha viceversa evidenziato gravi lacune. Anche in Svezia continua ad esempio a sfuggire alle statistiche una parte delle vittime causate dal COVID19. Secondo le stime ufficiali, anch’esse quasi certamente sottostimate, al bilancio complessivo delle vittime finora registrate ne andrebbero aggiunte almeno altre 400.

Un ulteriore capitolo delicato è quello della tenuta del sistema sanitario. Da un lato, il governo assicura che i reparti di terapia intensiva dispongono ancora di numerosi posti. Alcuni segnali sembrano tuttavia indicare una situazione in peggioramento e le stesse autorità sanitarie svedesi hanno ammesso recentemente che in alcune strutture è stata già raggiunta la massima capacità. Ufficialmente queste ultime non sono state identificate, ma a preoccupare maggiormente potrebbe essere la regione che comprende la capitale, visto che fa segnare finora il tasso di contagio più alto del paese e circa la metà dei decessi totali.

Le scelte fatte a Stoccolma in queste settimane sono ancora più difficili da giustificare se si considera che anche il primo ministro Löfven ha ammesso come il paese non fosse adeguatamente preparato ad affrontare la pandemia, a suo dire soprattutto a causa dei tagli alla spesa sanitaria pubblica operati dai precedenti governi di centro-destra. L’inizio della campagna di privatizzazioni in Svezia aveva avuto inizio peraltro con esecutivi socialdemocratici già a metà degli anni Novanta.

Un aspetto che questo paese condivide con gli altri in Occidente in tempi di Coronavirus è invece la priorità nella distribuzione di aiuti pubblici. Il governo e le autorità monetarie sono infatti intervenute prontamente a sostegno delle grandi aziende svedesi, mettendo a disposizione miliardi di corone sottoforma di sgravi fiscali e prestiti ultra-agevolati. L’approccio “soft” all’epidemia, al contrario, difficilmente risparmierà sofferenze ai lavoratori. Infatti, nei prossimi mesi le proiezioni del governo prefigurano un’impennata della disoccupazione, forse addirittura fino al 10%, vale a dire superiore anche ai livelli toccati dopo la crisi finanziaria globale del 2008-2009.

Durante l’emergenza Coronavirus negli Stati Uniti, l’ormai sicuro candidato alla Casa Bianca del Partito Democratico è rimasto in gran parte ai margini del dibattito politico, limitandosi per lo più a qualche intervento pre-registrato per criticare la gestione della crisi da parte dell’amministrazione Trump. In questi giorni, Joe Biden è tornato però al centro dell’attenzione in seguito al riemergere di vecchie accuse di molestie sessuali che, attendibilità a parte, continuano a essere deliberatamente minimizzate, per non dire insabbiate, dai leader del suo partito e dai media filo-democratici.

La grana più fastidiosa per Biden riguarda un’ex addetta del suo staff, Tara Reade, che sostiene di essere stata molestata nel 1993 dall’allora senatore del Delaware. La donna non sembra voler desistere malgrado il clima di ostilità e lo scorso mese di marzo aveva presentato alla polizia di Washington una denuncia contro l’ex vice-presidente. D’altra parte, la questione circola da tempo soprattutto sui social media e su network e siti web vicini a Trump e al Partito Repubblicano.

La stampa meglio disposta verso i democratici si è invece riscoperta improvvisamente garantista, mettendo da parte, almeno per il caso Biden, la feroce caccia alle streghe degli ultimi anni, collegata al movimento “#MeToo”, diretta contro chiunque, tra politici e celebrità, sia stato oggetto di vaghe accuse a sfondo sessuale. Pseudo-indagini giornalistiche, editoriali spietati e sommari processi mediatici, tipici di questa campagna, continuano insomma a rimanere fuori dalla vicenda che sta riguardando l’ex vice di Obama.

Le ragioni di questa prudenza sono ovviamente tutte di natura politica. La candidatura di Biden è stata infatti letteralmente resuscitata in extremis dall’establishment del Partito Democratico e dagli stessi media “liberal” per affondare quella di Bernie Sanders, pericolosamente sul punto di mobilitare decine di milioni di elettori sulla base di un’agenda almeno in apparenza “democratico-socialista”.

Le accuse contro Biden sono state così al massimo discusse sulla stampa solo per essere screditate, con un’ostentazione di scrupoli democratici nemmeno lontanamente considerati nei casi di Kevin Spacey o Harvey Weinstein, per non parlare dello show orchestrato dal Partito Democratico nel tentativo fallito di far naufragare la nomina alla Corte Suprema del giudice di estrema destra, Brett Kavanaugh, nel settembre del 2018.

In questo caso, gli argomenti di Biden sono sembrati ampiamente sufficienti per scagionarlo da ogni accusa o, quanto meno, per affermare il principio della presunzione di innocenza. La difesa dell’ex vice-presidente ha avuto però risvolti talvolta imbarazzanti, come la recente apparizione di un filmato tratto dalla trasmissione del 1993 “Larry King Live” della CNN. In un episodio del mese di agosto di quell’anno era intervenuta telefonicamente una donna, identificata dall’accusatrice di Biden, Tara Reade, come sua madre che denunciava la situazione della figlia, costretta a lasciare l’impiego nello staff di un noto senatore a causa di “problemi” non meglio specificati.

Se nella telefonata in diretta la donna non parlava di molestie né identificava il nome del politico in questione, è apparso subito chiaro il riferimento a Biden. La clip era stata pubblicata dal sito The Intercept, mentre la CNN l’aveva prontamente rimossa dal proprio archivio digitale. In seguito, il network è stato costretto a pubblicare un resoconto della vicenda, ma l’imbarazzo è aumentato quando è emerso che, addirittura, agli episodi successivi alla trasmissione incriminata condotta da Larry King era stata data una nuova numerazione per cercare di occultarne la rimozione.

L’episodio conferma come sia in atto un’operazione coordinata per proteggere la candidatura di Joe Biden. Questa operazione risulta necessaria sia per i probabili scheletri nell’armadio dell’ex vice-presidente sia, soprattutto, per evitare che l’affiorare di questi ultimi vada ad aggravare la posizione di un candidato già ultra-screditato e correttamente identificato come la personificazione stessa della corruzione dell’establishment di Washington e del servilismo della politica verso i poteri forti.

Con la candidatura di Biden sempre in bilico, anche per il possibile deterioramento del suo stato di salute mentale, i vertici del Partito Democratico stanno cercando di fare quadrato attorno all’ex vice-presidente. In questi giorni sono stati infatti numerosi gli annunci pubblici di “endorsement” da parte di personalità democratiche di rilievo, inaugurati da quello dell’ex presidente Obama. Lunedì è toccato ad esempio alla “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, dichiarare ufficialmente il proprio sostegno per Biden, attraverso un intervento video infarcito di assurdità, a cominciare dalla caratterizzazione del candidato democratico come di un leader in grado di dare risposta alle “speranze” del paese. Martedì, invece, la stampa USA ha anticipato il probabile “endorsement” anche di Hillary Clinton, che apparirà assieme a Biden in un comizio “virtuale”.

Se le prese di posizione di Nancy Pelosi e degli altri pezzi grossi del partito sono più che prevedibili, apparentemente inspiegabile appare invece il relativo entusiasmo per la nomination di Biden della sinistra democratica e dei sostenitori di Sanders, nonché dello stesso senatore del Vermont. Tutti hanno insistito su quella che a loro dire sarebbe la possibilità concreta di influenzare le politiche della potenziale prossima amministrazione al fine di implementare iniziative di “sinistra”.

Gli ambienti vicini a Sanders si sono così dimenticati in fretta dello scontro politico che aveva segnato la prima fase delle primarie democratiche, quando a confrontarsi erano la prospettiva di cambiamento in senso progressista e la deriva neo-liberista del partito, rappresentata proprio da Joe Biden. Che l’agenda promossa da Sanders possa trovare spazio in una Casa Bianca occupata da quest’ultimo è una remotissima illusione, ma deve essere alimentata per cercare di evitare che gli elettori di Sanders disertino le urne in massa a novembre, consegnando un secondo mandato a Trump e ai repubblicani.

Se mai ci fossero stati dubbi sulla natura di un’amministrazione Biden, qualche giorno fa una rivelazione pubblicata dalla stampa americana ha contribuito a fugarli. Bloomberg News ha scritto che l’ex segretario al Tesoro, Larry Summers, fa parte della cerchia dei consiglieri di Biden in ambito economico. La notizia potrebbe avere potenzialmente un impatto devastante sulla campagna dell’ex vice-presidente e, infatti, quest’ultimo e il suo entourage si sono affrettati a ridimensionarne la portata.

Summers è uno degli artefici delle “riforme” economiche e finanziarie che hanno caratterizzato gli anni Novanta del secolo scorso. Dall’interno dell’amministrazione Clinton, l’ex docente di Harvard è stato il motore della finanziarizzazione dell’economia americana e dello smantellamento di ciò che restava delle regolamentazioni risalenti all’epoca del New Deal rooseveltiano. Il suo impegno, assieme a quello del presidente democratico e del suo mentore, Robert Rubin, ha avuto un ruolo determinante nel creare le condizioni del tracollo finanziario del 2008.

Nonostante il discredito e le pesantissime responsabilità, Summers aveva trovato un impiego anche nella neonata amministrazione Obama a inizio 2009, questa volta a capo del Consiglio Nazionale per l’Economia della Casa Bianca. In questo incarico e dopo avere incassato milioni di dollari nel settore privato, Summers aveva coordinato il colossale piano di salvataggio di Wall Street, assicurando che nessuna risorsa significativa andasse a beneficio degli americani finiti sul lastrico.

Larry Summers è stato in sostanza capace di navigare le acque della politica democratica negli ultimi trent’anni. Il suo ruolo nel creare disuguaglianze sociali e di reddito quasi inconcepibili è difficile da sopravvalutare e, tuttavia, la campagna di Joe Biden ha deciso di reclutarlo in vista delle elezioni di novembre, anche se comprensibilmente senza dare troppo risalto alla notizia.

La sola presenza di Summers tra i più stretti collaboratori di Biden chiarisce perciò a sufficienza quali saranno i principi ispiratori del possibile futuro presidente in ambito economico, con buona pace di quanti continuano a propagandare l’illusione di poter esercitare pressioni da sinistra e favorire un qualche reale cambiamento in senso progressista dall’interno del Partito Democratico americano.

Nelle prime ore di lunedì, aerei militari di Israele hanno per l’ennesima volta condotto un’operazione illegale contro obiettivi in territorio siriano, verosimilmente appartenenti alle forze iraniane o di Hezbollah che stano combattendo a fianco del legittimo governo di Damasco. A darne notizia è stata l’agenzia di stampa ufficiale siriana SANA, secondo la quale la contraerea del paese mediorientale sarebbe riuscita a intercettare e abbattere un certo numero di missili israeliani. Le vittime totali potrebbero essere sette, di cui tre civili e, forse, quattro militari di nazionalità iraniana.

L’attacco è solo l’ultimo di una serie di episodi simili registrati nell’ultimo mese, in quella che nel corso del conflitto in Siria è stata una vera e propria consuetudine da parte di Tel Aviv, nonostante le incursioni continuino a essere motivo di tensione con la Russia di Putin. Nemmeno l’epidemia di Coronavirus in atto ha rallentato i raid israeliani in Siria, né l’inizio per i musulmani, soltanto alcuni giorni fa, del mese sacro di Ramadan.

L’annuncio del riuscito lancio in orbita del primo satellite militare iraniano ha provocato questa settimana una prevedibile risposta minacciosa da parte dell’amministrazione Trump, facendo nuovamente aumentare il rischio di un disastroso conflitto armato in Medio Oriente nel pieno dell’emergenza Coronavirus. Il satellite “Noor” (“Luce”) mercoledì ha sorvolato la terra a un’altitudine di 425 km e, secondo i media della Repubblica Islamica, avrebbe inviato segnali regolarmente ricevuti dai Guardiani della Rivoluzione che hanno condotto lo storico esperimento.

Teheran aveva tentato più volte in passato un’operazione di questo genere, ma mai nessuna si era conclusa con un successo. Le stesse fonti iraniane hanno spiegato che l’operazione ha importanti implicazioni nell’ambito militare e dell’intelligence, mentre il governo USA non ha perso tempo nel far notare che la presenza di satelliti in orbita potrebbe consentire alla Repubblica Islamica di perfezionare la produzione di missili a lungo raggio, secondo Washington potenzialmente anche con testate nucleari.

La questione dello sviluppo dei missili balistici a lungo raggio è con ogni probabilità al centro dell’impegno iraniano. La retorica americana è però fuorviante, sia per quanto riguarda la presunta minaccia di un futuro attacco missilistico contro gli Stati Uniti sia nei riferimenti all’illegalità di simili test in base a quanto stabilito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nel primo caso, è evidente l’intento difensivo dei piani militari di Teheran. Per averne conferma è sufficiente scorrere le iniziative degli USA e dei loro alleati negli ultimi decenni contro questo paese oppure consultare semplicemente una mappa del Medio Oriente con il posizionamento delle basi militari statunitensi.

In merito all’ONU, Washington continua invece a citare una risoluzione del 2015 a cui anche il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha accennato nella giornata di mercoledì per ricordare il presunto bando internazionale allo sviluppo della tecnologia balistica iraniana. In realtà, come hanno fatto notare svariati esperti di diritto internazionale, il linguaggio della risoluzione non impone alcun divieto alla Repubblica Islamica, ma esprime un semplice “invito” non vincolante. Inoltre, la risoluzione citata era collegata all’implementazione dell’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 (JCPOA), da cui la stessa amministrazione Trump è uscita unilateralmente nel maggio di due anni fa.

Il vero problema americano riguardo i missili balistici iraniani è a ben vedere un altro. Se Teheran dovesse disporre in maniera definitiva di questa tecnologia militare, gli Stati Uniti vedrebbero cioè ridursi ulteriormente gli spazi per un’aggressione, visto che la risposta dell’Iran risulterebbe ancora più devastante di quella che sarebbe oggi in grado di organizzare.

Le ansie di Washington sono d’altra parte evidenti dalla replica di Trump alla notizia del lancio del satellite iraniano. Su Twitter, il presidente ha fatto sapere di avere dato ordine alla Marina militare di “distruggere” qualsiasi imbarcazione della Repubblica Islamica che intenda avvicinarsi minacciosamente alle navi da guerra americane nel Golfo Persico. Questa misura potrebbe essere la conseguenza anche dell’incidente denunciato dal governo USA settimana scorsa, quando una dozzina di mezzi navali dei Guardiani della Rivoluzione si sarebbero accostati pericolosamente a quelli americani che pattugliavano le acque del Golfo.

Il tweet di Trump è sembrato a molti l’ennesima ostentazione di forza priva di sostanza, visto che anche il Pentagono ha assicurato che le direttive militari in merito all’Iran non sono cambiate di una virgola. Una certa preoccupazione deve tuttavia circolare a Washington, a testimonianza che forse la minaccia della Casa Bianca possa essere più concreta di quanto appaia.

La deputata democratica della Virginia, nonché ex ufficiale della Marina militare, Elaine Luria, ha ad esempio criticato il presidente per il suo intervento su Twitter che, senza una chiara e definita gestione delle regole d’ingaggio, rischia di provocare “un’escalation di tensioni non necessaria con l’Iran”, se non “un conflitto aperto”. Questa presa di posizione rivela l’inquietudine di quanti all’interno dell’apparato di potere americano temono le conseguenze di un possibile conflitto con l’Iran, in primo luogo per l’impreparazione americana in un momento di grave crisi a causa dell’epidemia di COVID-19.

Dietro alle minacce della Casa Bianca potrebbe esserci in questa circostanza qualcosa di più serio se si pensa alla situazione del tutto nuova venutasi a creare sul fronte petrolifero. Un altro ex ufficiale della Marina USA, Scott Ritter, diventato commentatore e critico delle politiche dell’imperialismo americano, ha spiegato in un articolo apparso sul sito del network russo RT che il crollo delle quotazioni del greggio di queste settimane potrebbe avere cambiato del tutto il calcolo dell’amministrazione Trump.

Fino a poco tempo fa, a rendere improbabile una guerra con l’Iran era soprattutto il timore di un rialzo incontrollato del prezzo del petrolio che sarebbe seguito alla quasi certa chiusura, decisa da Teheran, dello stretto di Hormuz, da cui transita buona parte del greggio mediorientale. Oggi, al contrario, l’implosione del mercato petrolifero, seguito al quasi azzeramento della domanda internazionale a causa del lockdown economico, ha portato le quotazioni a livelli bassissimi e, addirittura, temporaneamente in territorio negativo per quanto riguarda il riferimento del barile americano (WTI).

Questa nuova realtà minaccia di mandare in fallimento l’industria estrattiva americana, fatta di moltissime compagnie fortemente indebitate e quindi bisognose di prezzi relativamente elevati. Uno shock internazionale in grado di arrestare la produzione di petrolio in Medio Oriente darebbe perciò una spinta verso l’alto alle quotazioni e, di conseguenza, una boccata d’ossigeno ai produttori negli Stati Uniti. In sostanza, spiega Ritter su RT, Trump potrebbe essere disposto a scatenare una guerra contro l’Iran per salvare l’industria petrolifera americana, il cui tracollo rischierebbe oltretutto di trascinare con sé l’intera economia USA.

Su questi possibili scenari di guerra è evidente che agiscano anche altri fattori in grado di agire da deterrente a un’aggressione americana contro la Repubblica Islamica, dalle resistenze interne allo stesso governo di Washington ai rischi di una guerra che risulterebbe lunga, dispendiosa e strategicamente tutt’altro che vantaggiosa.

È evidente però che i piani di guerra contro l’Iran siano costantemente studiati dalla Casa Bianca ed è significativo che una nuova esplosione del militarismo USA sia all’ordine del giorno in questo periodo. La crisi sociale, politica ed economica prodotta dal Coronavirus ha d’altra parte inasprito le contraddizioni che attraversano la classe dirigente americana e moltiplicato gli sforzi per dirottarne gli effetti verso l’esterno.

Non è un caso, infatti, che la devastazione in corso sul fronte domestico abbia fatto ben poco per allentare le pressioni sui nemici di Washington, come conferma, oltre all’escalation nei confronti dell’Iran, la campagna anti-cinese per attribuire a Pechino la responsabilità della pandemia, ma anche le recentissime provocazioni delle navi da guerra americane dispiegate nel Mar Cinese Meridionale o l’intensificarsi delle minacce contro il legittimo governo venezuelano del presidente Maduro.

Tra l’epidemia di Coronavirus che continua a fare un numero altissimo di vittime e le pressioni per far ripartire in fretta l’economia, tutta la classe politica degli Stati Uniti è impegnata in una campagna di propaganda, amplificata dai media ufficiali, diretta ad attribuire alla Cina le principali responsabilità della crisi in atto. L’iniziativa ha uno spirito sostanzialmente bipartisan, anche se viene usata come arma politica da democratici e repubblicani, e ha due obiettivi in particolare: occultare le colpe tutte americane nella gestione del virus e alimentare la competizione strategica con Pechino nell’ottica della rivalità tra le due principali potenze del pianeta.


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