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Un attacco terroristico di una violenza inaudita anche per gli standard afgani ha seminato questa settimana il terrore a Kabul e assestato un colpo forse letale alle residue speranze di una soluzione diplomatica del conflitto nel paese centro-asiatico. Anche se il blitz nel reparto maternità di un ospedale della capitale non è stato per ora rivendicato da nessun gruppo armato, il governo-fantoccio del presidente Ashraf Ghani ha subito reagito con l’ordine di riprendere le operazioni militari contro i Talebani, allontanando ancora di più l’ipotesi dei negoziati promossa da Washington.
Gli attentati contro forze governative o civili sono stati in realtà almeno quattro negli ultimi giorni, ma il più raccapricciante è stato quello in una struttura sanitaria di Kabul che ospita un reparto maternità gestito da Medici Senza Frontiere. Martedì mattina è stato preso d’assalto da guerriglieri armati che, prima di essere uccisi dalle forze di sicurezza afgane, hanno massacrato 24 persone, tra cui 16 donne e due neonati. Almeno sei bambini appena venuti alla luce hanno perso la madre nell’attacco.
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- Scritto da Mario Lombardo
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L’insediamento del nuovo governo di Israele nella giornata di giovedì, al termine di un lunghissimo periodo di stallo politico, inaugurerà un esecutivo dalla composizione insolita e con un obiettivo a breve scadenza difficilmente equivocabile. Nonostante la pandemia in atto, non si tratta della lotta al Coronavirus, ma piuttosto dell’annessione di almeno una parte del territorio palestinese della Cisgiordania, dove sorgono decine di insediamenti israeliani illegali.
Il gabinetto guidato ancora una volta da Netanyahu è il risultato del clamoroso voltafaccia del suo ormai ex rivale numero uno, l’ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz. Alla guida della coalizione di centro-sinistra “Blu e Bianca”, quest’ultimo era andato vicino a sconfiggere il Likud di Netanyahu nelle tre elezioni tenute in Israele nell’ultimo anno e mezzo, ma non era mai riuscito a mettere assieme in parlamento (“Knesset”) una maggioranza sufficiente a governare.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Proprio mentre una serie di eventi sembrava dover accelerare il conflitto tra Stati Uniti e Iran, l’improvviso emergere di un possibile scambio di detenuti tra i due paesi potrebbe far coagulare i vari segnali di una molto relativa distensione arrivati nei giorni scorsi e scongiurare almeno per i prossimi mesi un nuovo fronte di guerra in Medio Oriente. La cautela deve essere comunque estrema. Infatti, gli inviti del governo di Teheran a liberare un certo numero di detenuti da entrambe le parti non hanno per il momento trovato risposta dalla Casa Bianca.
Nel fine settimana, il sito di informazione iraniano Khabar Online ha riportato le aperture verso gli USA da parte di un portavoce del governo iraniano. Ali Rabiei ha affermato che la Repubblica Islamica è pronta a discutere con Washington uno scambio senza nessuna condizione preliminare e, a differenza di quanto accaduto in circostanze simili in passato, senza la mediazione di paesi terzi.
La proposta dell’Iran mette la palla nel campo americano, esercitando una qualche pressione sull’amministrazione Trump per non sprecare i risultati tutt’altro che sgraditi a entrambi i paesi ottenuti la settimana scorsa con la formazione di un nuovo governo in Iraq dopo mesi di stallo politico. L’iniziativa diplomatica iraniana è inoltre doppiamente stimolante per gli Stati Uniti, poiché fa aperto riferimento al pericolo di contagio da Coronavirus nelle rispettive carceri.
Da valutare è anche l’interesse del presidente Trump per possibili colpi diplomatici non troppo difficili da mettere a segno, come appunto lo scambio di prigionieri, e in grado di promuovere l’immagine della sua amministrazione, soprattutto in un momento di gravissima crisi a causa della gestione disastrosa dell’epidemia in corso. I cittadini americani sotto custodia delle autorità iraniane sarebbero cinque, mentre quelli della Repubblica Islamica nelle carceri USA una ventina.
L’ex diplomatica americana ed esperta di questioni iraniane, Hillary Mann Leverett, ha ricordato in un’intervista ad Al Jazeera che negli Stati Uniti è detenuto un professore iraniano contagiato dal Coronavirus. Quest’ultimo non è stato rilasciato nonostante le accuse a suo carico sarebbero già cadute. Un veterano della Marina militare USA, Michael White, in carcere in Iran sarebbe invece uscito di prigione per questioni mediche, anche se gli viene tuttora impedito di lasciare il paese mediorientale.
La stessa Hillary Mann Leverett ha affermato di credere che ci possa essere un qualche fermento “dietro le quinte” e che i rischi derivanti dal Covid-19 non rappresentino l’unico motivo delle possibili trattative in corso tra Washington e Teheran. Nella migliore delle ipotesi, in gioco potrebbe esserci una qualche tregua dettata dal fatto che l’amministrazione Trump non può permettersi un’escalation fuori controllo del conflitto con l’Iran a pochi mesi dalle elezioni e in presenza di una rovinosa crisi economica e sanitaria.
Anche a Teheran sembra possibile che a prevalere sarà la prudenza dopo le tensione delle scorse settimane. A fine aprile, soprattutto, il lancio in orbita per la prima volta con successo di un satellite militare aveva incontrato la risposta minacciosa della Casa Bianca e del dipartimento di Stato americano. Inquietante era stato anche un tweet di Trump nel quale affermava di avere dato ordine alla Marina militare di “distruggere” qualsiasi imbarcazione della Repubblica Islamica che intendeva avvicinarsi minacciosamente alle navi da guerra americane nel Golfo Persico.
La Repubblica Islamica, malgrado il pesante bilancio dell’epidemia di Coronavirus, ha visto negli ultimi mesi un sostanziale rafforzamento della propria posizione nella regione e ha tutto l’interesse a congelare lo scontro con Washington fino al voto di novembre. Come ha fatto notare più di un commentatore, inoltre, su questo atteggiamento non è da escludere che possa avere influito anche l’identico calcolo fatto dalla Russia, di cui l’Iran è un partner strategico in Medio Oriente.
Significativamente, questi ultimi sviluppi arrivano a pochi giorni da una disputa politica a Washington che ha avuto a prima vista un esito sfavorevole alla diplomazia. Giovedì scorso, Trump aveva messo il veto a un provvedimento del Congresso, approvato con l’appoggio di un numero importante di repubblicani, che intendeva limitare i poteri del presidente nel prendere iniziative militari contro l’Iran. Se la decisione lascia a Trump mano libera in questo senso, peraltro senza cambiare di nulla la deriva autoritaria degli ultimi due decenni, il caso non comporta necessariamente un maggiore rischio di guerra, avendo forse più a che fare con gli equilibri di potere tra l’esecutivo e il Congresso.
La convergenza più ovvia tra gli interessi di USA e Iran in questo periodo è stata comunque attorno al nuovo assetto politico iracheno. La crisi politica a Baghdad si stava avvicinando pericolosamente al punto di rottura dopo che le proteste di piazza iniziate lo scorso autunno avevano portato alle dimissioni dell’ex primo ministro, Adel Abdul Mahdi. I due successivi candidati alla sua successione non erano poi riusciti a trovare una maggioranza in parlamento, mentre il terzo tentativo dell’ex capo dell’intelligence irachena, Mustafa al-Kadhimi, è andato a buon fine.
Il successo di Kadhimi è dipeso in buona parte dal via libera di Washington e Teheran. I due governi con la maggiore influenza sull’Iraq hanno anche in questo caso messo da parte le differenze per promuovere una soluzione accettabile a entrambi per non destabilizzare l’Iraq e posticipare una possibile resa dei conti nel paese che fu di Saddam Hussein. L’attitudine pragmatica dell’ex numero uno dei servizi segreti di Baghdad ha senza dubbio aiutato a trovare un punto d’incontro, ma le trattative hanno potuto dare frutti solo dopo un’attenta spartizione del potere. Il ministero dell’Interno e quello delle Finanze, ad esempio, sono stati assegnati rispettivamente a un politico vicino all’Iran e a uno filo-occidentale.
Sempre riguardo all’Iraq, dopo minacce e intimidazioni, il dipartimento di Stato USA ha recentemente prolungato l’esenzione temporanea dalle sanzioni americane, permettendo a Baghdad di continuare a importare energia elettrica dall’Iran. Oltretutto, la proroga non è stata mensile, come accaduto finora, ma sarà della durata di 120 giorni.
Un altro evento dei giorni scorsi su cui si continua a discutere è l’annuncio del Pentagono di voler ritirare dall’Arabia Saudita due batterie di missili Patriot e altrettanti reparti aerei, dispiegati precisamente per proteggere le installazioni petrolifere dell’alleato da possibili attacchi iraniani. Alla base della mossa americana potrebbero esserci in primo luogo le tensioni con Riyadh sulla quotazione del greggio, alla luce delle sofferenze dei produttori di petrolio negli Stati Uniti, anche se in molti hanno intravisto un messaggio indiretto alla Repubblica Islamica.
L’ottimismo, come sempre accade in merito alle relazioni USA-Iran, rischia ad ogni modo di essere prematuro. Qualche ulteriore indicazione si avrà probabilmente con l’eventuale risposta americana alla proposta iraniana di scambiare i detenuti. A pesare come un macigno su quella che comunque sarebbe tutt’al più una tregua ci sono d’altra parte svariati fattori.
Il primo è costituito dalle manovre di Israele e dagli ambienti filo-israeliani negli Stati Uniti. Le ripetute incursioni illegali di Tel Aviv in territorio siriano per colpire obiettivi della Repubblica Islamica non contribuiscono di certo ad allentare le tensioni. Non solo, la propaganda alimentata da Israele continua poi a muoversi in molte direzioni. Lunedì, il New York Times ha ad esempio raccontato di un avvertimento del governo israeliano sulle presunte attività di hackeraggio dell’Iran che potrebbero prendere di mira anche le compagnie farmaceutiche americane impegnate nello studio di un vaccino contro il COVID-19.
Sempre in sospeso c’è infine la disputa più esplosiva, cioè il tentativo dell’amministrazione Trump di fare approvare al Consiglio di Sicurezza ONU l’estensione dell’embargo sulle armi ai danni dell’Iran, collegato a sua volta alle manovre per “rientrare” nell’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA) e reimporre tutte le sanzioni internazionali contro Teheran che grazie a esso erano state sospese. Se la Casa Bianca dovesse insistere su questo punto, sarà una conferma del muro contro muro con Teheran. Qualche spiraglio di distensione potrebbe emergere al contrario se la questione sarà lasciata cadere, vista anche l’indisponibilità ad assecondare gli Stati Uniti non solo di Russia e Cina, ma anche, almeno per il momento, degli alleati europei.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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Le direzioni e le redazioni delle testate giornalistiche Altrenotizie, l'antidiplomatico, Faro di Roma e del sito d'informazione Patria Grande rispondono ad un articolo costruito su ricostruzioni inventate e politicamente indirizzate uscito su Il Fatto quotidiano.it
Gentile Direttore,
è con profondo dispiacere che abbiamo visto pubblicato sulla sua testata un articolo a firma di Monica Pelliccia sul Nicaragua. L’articolo, forse confezionato a Managua, è una sommatoria senza limiti e decenza di palesi inesattezze.
E’ nostra intenzione confutare tali inesattezze, anche solo per non lasciare immune la responsabilità deontologica che dovrebbe assumere chi firma. Non saremo brevissimi, giusto le righe sufficienti a smentire quanto va smentito.
“Il Nicaragua è l’unico paese centroamericano dove non sono mai state prese misure di contenimento per il virus”. Falso. Sono state adottate tutte le misure dettate dall’OMS, prova ne siano i report più che positivi dell’OPS (organizzazione panamericana della sanità) che definiscono “corretto” l’agire del governo. La differenza tra il Nicaragua e gli altri paesi centroamericani è che il governo non ha chiuso tutto, limitandosi ad adottare misure di contenimento, esattamente come hanno fatto altri paesi tra i quali la Svezia. Ovvero ha scelto di mantenere in vita un paese dove il 70% del PIL si regge sulla produzione, distribuzione e vendita dei prodotti agroalimentari e che ha la maggioranza della popolazione impegnata nella relativa filiera. Avere cibo a disposizione è sembrata l’urgenza primaria. Del resto dovrebbe essere noto alla giornalista come anche l’Italia e tutti i paesi europei non hanno bloccato la filiera agricola, pur rappresentando essa una quota di PIL di minore importanza rispetto a quella del Nicaragua. Chiudere avrebbe significato far morire di fame la popolazione, in Nicaragua come in Italia e ovunque. Perché se lo fa l’Italia va bene e se lo fa il Nicaragua no?
L’articolo prosegue con “Non ho mai visto una crisi sanitaria come questa… Jose Antonio Vasquéz, 56 anni, è un medico da oltre 30 anni e lavora nella capitale del Nicaragua, Managua. “Nel 2018 è stato arrestato dai paramilitari e torturato nella carcere El Chipote di Managua per aver curato i feriti”.
Ma quando mai? El Chipote è il carcere di Managua, dove la Croce Rossa Internazionale è entrata con numerose missioni ed ha rilevato condizioni di detenzione “nello standard raccomandato da ogni convenzione internazionale” avendo registrato “l’assoluta assenza di segni di maltrattamenti sui detenuti”.. E’ del resto noto che tutti i partecipanti al tentato colpo di stato, anche gli assassini riconfessi, sono stati amnistiati e girano liberi.
Ci permettiamo di dubitare dell’obiettività di Josè Antonio Vasquéz, ginecologo all’ospedale militare fino al 2018 e militante del partito di opposizione MRS, ex sandinisti che sono la componente più violenta dell’opposizione al governo nicaraguense. Nel corso del tentato golpe del 2018, il suo gruppo si dedicò a bruciare ambulanze e presidi sanitari. Vi alleghiamo una sua foto dove si può apprezzarne terzietà ed equidistanza di giudizio.
“Attività commerciali e frontiere sono ancora aperte” dice l’articolista. Falso anche questo: le frontiere sono aperte solo per i nicaraguensi che vogliono rientrare e gli accessi, tra i quali i cosiddetti auto esiliati che scappano dal Costa Rica per tornare in Nicaragua a curarsi. Ma non erano andati via perché c’é un pericolosissimo regime che vuole ucciderli? E allora perché ritornano? Forse che in Nicaragua si sentono sanitariamente più protetti che in Costa Rica?
“Le cifre ufficiali non raccontano la realtà che vediamo ogni giorno. Non si fanno tamponi ai malati. Nelle ultime due settimane, i pazienti che sono stati trattati come casi di coronavirus e poi sono morti vengono registrati con altre cause di decesso, rimanendo fuori dalle statistiche”, racconta Vasquéz. La redattrice però si guarda bene dal chiedergli prove di quello che va dicendo. Non solo per la gravità ma anche per la veridicità, dato che se questo fosse vero, anche in minima parte, familiari, amici e colleghi delle centinaia di vittime si farebbero carico di denunciarlo. Pensate che in un mondo come quello di oggi, interconnesso e comunicante, possono occultarsi centinaia di morti in ospedali pubblici? E quale sarebbe l’interesse a negare il numero delle vittime?
Proseguiamo. “L’80 per cento dei 160 respiratori presenti negli ospedali è in uso”. Falso anche questo. I respiratori sono 499, distribuiti nei 77 ospedali del Paese.
”Quelli che sono in servizio devono comprare a loro spese le visiere e il gel disinfettante e ogni giorno aumenta il numero degli operatori che si ammalano”. Non è vero. . Il governo ha avuto grazie all’aiuto di Taiwan e dell’OMS forniture di attrezzature mediche che si sono aggiunte a quelle già a disposizione e che sono più che sufficienti anche qualora l’espansione del virus dovesse incontrare il picco. La verità è che il Nicaragua è, ad oggi, il paese occidentale con il minor numero di contagiati e vittime, mentre il Vietnam lo è nel panorama orientale. Il motivo è che, così come Cuba e Venezuela e diversamente dagli altri paesi americani, il modello sandinista di salute (come di previdenza ed assistenza) è egualitario, gratuito, comunitario.
Alcuni dati? In 13 anni di governo sandinista sono stati costruiti 18 ospedali perfettamente equipaggiati che portano a 77 il numero complessivo ed altri 8 sono in costruzione. Sono 143 i poliambulatori, 1343 i presidi medici e 5806 le case destinate all’accoglienza, strutture comunitarie dove si realizza una prima accoglienza per stabilire dove indirizzare il paziente. Sono stati costruiti 70 centri per la terapia del dolore, 178 case per assistenza alle donne in gravidanza e 91 strutture per i soggetti diversamente abili. Edificati ed equipaggiati cinque centri specializzati ed un laboratorio di citogenetica e di diagnosi prenatale, ed è in funzione un laboratorio di ingegneria biomolecolare (solo il Messico ne ha un altro nell’area) frutto della cooperazione con la Russia. Sono state acquistate 404 ambulanze di cui sei acquatiche ed è a disposizione di tutti i pazienti oncologici l’acceleratore lineare, unico in tutto il Centro America. La popolazione nicaraguense è vaccinata al 100% e pochi giorni fa è terminata una nuova campagna di vaccinazione obbligatoria che ha visto medici e infermieri andare nelle case, nei posti di lavoro e persino per le strade a vaccinare la popolazione. Obiettivo raggiunto al 100%, lì non abitano “no vax” e simili. Sono i medici che vanno nelle famiglie e non solo i pazienti dai medici. Un modello alternativo a quello della salute privata che si fonda sulla prevenzione e sulla comunicazione che andrebbe indagato e imitato, non infamato.
E’ in corso una campagna mediatica basata su falsità che vede medici e finti medici con camice postare video dove si narrano numeri e racconti completamente inventati, mentre circola in Rete anche la trascrizione di telefonate tra oppositori che organizzano un video dove qualcuno si getta in terra e tossisce, poi sviene fino a quando il video non finisce. In ogni paese del mondo l’opposizione, di fronte ad una pandemia, depone le armi dello scontro ideologico e politico e si mette al servizio della popolazione. In Nicaragua no, dal momento che, come sostiene Oscar Renè Vargas, suo esponente, “la generazione di panico, caos e sfiducia nelle autorità pubbliche può spingere la popolazione a ridurre il consenso verso il governo”. Sono affermazioni più volte diffuse senza il minimo ritegno e senso del ridicolo dagli stessi che nel 2018 chiedevano il sacrificio di un milione di morti pur di abbattere il governo (Edgar Tijerino, maggio 2018), che raccontavano della “portaerei americana nelle coste del Nicaragua”, del “bombardamento governativo sulla città di Masaya” e “dell’aereo russo che portava a Cuba la famiglia di Daniel Ortega” (Miguel Mora, 100% noticias, aprile 2018).
Il nostro stupore, dunque, sta nel verificare come Il Fatto Quotidiano si sommi - forse per distrazione - ad un modello di informazione che si fonda sulla propaganda antisocialista trasformandosi in amplificatore degli interessi statunitensi nel mondo.
Non chiediamo al Fatto di assumere una posizione di appoggio o anche solo rispetto per i paesi socialisti. Gli chiediamo però di verificare fonti e notizie e di non associarsi a cordate politiche note ed ampiamente squalificate.
La direzione e redazione di
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- Scritto da Bianca Cerri
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Jerry Bronson Givens, ex-corista di gospel, nato nel 1952, fino al 1999 aveva lavorato nel carcere di Richmond, in Virginia. Quando è arrivata la notizia della sua morte i cantori di musica sacra ma anche gli attivisti che si battono contro la pena capitale, hanno espresso grande rammarico. Givens è infatti la terza vittima del COVID-19 tra i coristi della chiesa di Cedar Street di Richmond ma aveva anche coperto il triste ruolo di carnefice ufficiale della Virginia, prima di una redenzione senza se e senza ma.
Si faceva fatica a credere che quell'uomo dall'aspetto florido e pacifico avesse sulla coscienza 67 esecuzioni. Da giovane, Givens aveva una fede incrollabile nella pena capitale, tanto da considerarla quasi una missione. D'altra parte, anche nella Bibbia interi capitoli incitano alla vendetta contro i trasgressori della legge e, el suo intimo, Givens era convinto che fosse stato Dio in persona a sceglierlo per eliminare i delinquenti dalla terra.
Chiunque abbia assistito alle esecuzioni sulla sedia elettrica - avvocati, parenti, amici, abolizionisti e persino guardie - è rimasto sconvolto. Givens invece alzava automaticamente la leva che liberava le scariche elettriche che causavano sofferenze atroci ad un essere umano rimanendo impassibile. Molti condannati che stavano per essere giustiziati piangevano ma per lui uccidere era cosa di ordinaria amministrazione che non meritava lacrime.
Neppure quando mise a morte i fratelli Briley a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro Givens lasciò trapelare la minima emozione. Ormai Lynwood e James Briley, membri di una della tante bande che in cui la violenza è un marchio distintivo, avevano esaurito gli appelli. Già da bambini avevano imparato a maneggiare armi e abbracciato uno stile di vita per il quale avrebbero pagato un prezzo altissimo.
D'altra parte, le risoluzione contro le armi sono state osteggiate da politici, legislatori e persino dai predicatori al punto che sparare in Virginia è diventato uno sport nazionale. Salvo poi ricorrere alla repressione e all'eliminazione fisica dei soggetti che gli operatori sociali non riescono a gestire.
Jerry Givens aveva 13 o 14 anni e, durante una festa da ballo tra adolescenti, aveva visto uccidere davanti ai suoi occhi una coetanea di cui era invaghito. Anche lui aveva conosciuto la violenza agli esordi della vita. A Richmond le bande erano ovunque. Ma grazie ad una borsa di studio ottenuta per meriti sportivi, Givens si era iscritto all'università deciso a farsi largo nella vita. Costretto ad abbandonare gli studi a causa di un incidente, a 22 anni si era sposato e manteneva la famiglia con lavoretti occasionali.
Per la gente di colore in Virginia la vita non è mai stata facile e, nel 1982, Givens riuscì per miracolo a farsi assumere dall'amministrazione penitenziaria come guardia. La paga era di circa 25 mila dollari annui più fringe benefits. Due anni dopo gli giunse voce che il boia ufficiale stava per andare in pensione per raggiunti limiti d'età e prese il suo posto. In realtà erano ormai più di venti anni che la sedia elettrica non funzionava in Virginia. La nuova esecuzione coincise proprio con l'arrivo di Jerry Givens. Gli addetti alle esecuzioni in genere non hanno caratteristiche speciali. Il salario è di nove mila dollari in più rispetto agli agenti di custodia. La formazione professionale di un boia dura qualche giorno. Ma Givens preferì mantenere il segreto sulle mansioni che gli erano state affidate.Non voleva che amici e parenti sapessero.
Ogni volta che c'era un'esecuzione in programma si limitava a rispettare il rituale previsto dal protocollo. Quello relativo alla sedia elettrica era assai semplice. Si riduceva in fondo ad umettare una spugna e tirare su una leva. Una tenda nascondeva i vari strumenti utili a portare a termine l'opera. Bisognava a volte ricorrere all'aiuto anche del cappellano per tenere fermi i soggetti recalcitranti. Tutto cambiò con l'avvento dell'iniezione letale che in Virginia avvenne nel 1992. All'epoca Jerry Givens aveva già diretto 37 esecuzioni sulla sedia elettrica. Non era entusiasta dell'avvento dell'iniezione letale. Ammetteva che la folgorazione era brutale ma se i circuiti funzionavano raramente si verificavano problemi. Anche i campi da Golf venivano illuminati grazie all'elettricità, diceva, ma non questo è stata criminalizzata. Il fatto che illuminare una buca e bruciare vivo un essere umano legato su una sedia non sia esattamente la stessa cosa non conta, per Givens pare lo fosse.
Con l'arrivo dell'iniezione letale parecchie cose cambiarono. La Virgina era lo Stato dove il tempo medio tra condanna ed esecuzione è molto più breve che nel resto degli Stati Uniti: non supera infatti i cinque anni contro i 20-22 di altre giurisdizioni. Ai condannati la scelta del metodo per la propria esecuzione. In Virginia, dal 1995, tutti erano convinti che il veleno fossero più “umano” per eliminare una persona. Jerry Givens si adeguò avendo già in mente un piano preciso: portare a termine cento esecuzioni prima di andare in pensione. Ma quel giorno non arrivò mai.
Il 1999 fu l'anno che cambiò drasticamente l'esistenza di Jerry Givens, accusato di riciclaggio di denaro e falsa testimonianza. Condannato a quattro anni di carcere uscì dalla sede di lavoro con le manette ai polsi e trasferito in una cella. Durante la permanenza in carcere Givens ebbe modo di riflettere a fondo sulla fragilità della vita umana. Ripensò ai suoni sinistri che facevano da colonna sonora alle esecuzioni. Da buon cristiano parlò direttamente con Dio. Le persone di fede hanno probabilmente un dialogo privilegiato con l'Altissimo tanto è vero che proprio per intercessione divina Givens riuscì a liberare dal braccio della morte Earl Washington, un uomo instabile di mente, accusato ingiustamente di omicidio.
La trasformazione di Givens da boia a inarrestabile difensore dei diritti umani diventò irrevocabile. Tornato in libertà lavorò come camionista per mantenere la famiglia. Nel frattempo, sempre più orgoglioso del suo impegno, collaborò con i gruppi che si battono per abolire la pena capitale. Ovunque andasse non perdeva mai di vista la fede. Aveva aderito a Death Penalty Action, un'organizzazione che da anni immemori cerca di mettere fine all'orrore della pena di morte.
Alla fine di marzo Givens era stato ricoverato in ospedale per una bronchite. Benché un po' malandato aveva continuato ad incitare gli americani a prendere posizione contro le esecuzioni. Dall'ospedale inviava e-mails ad abolizionisti e non e negli ultimi tempi aveva aggiunto anche un appello accorato appello per mettere fine al flagello del COVID-19. Tutto lasciava prevedere un esito felice della sua malattia. Gli sarebbe servito magari un po' di aiuto divino che però non era arrivato. Il 23 aprile un virus boia si è portato via anche la sua vita.