Centinaia di migliaia di cittadini in piazza contro il Presidente Trump e la sua amministrazione sono certamente una novità importante e non frequente nel quadro politico statunitense. L’ira e lo sdegno di massa per l’ennesimo assassinio di un afroamericano innocente, George Floyd, ha riportato l’attenzione sull’agire delle forze dell’ordine statunitensi, storicamente intrise di razzismo. Il sostegno totale dell’amministrazione Trump agli assassini di Floyd non stupisce: che la conventicola nazi-evangelica della Casa Bianca avesse nel razzismo un suo cemento ideale non era certo un mistero.

Quello che però rende le mobilitazioni di questi giorni una questione decisamente diversa da altre in passato non è solo l’estensione territoriale e i numeri di chi vi partecipa e nemmeno lo scontato quanto strumentale sostegno dei democratici, che ovviamente vedono la possibilità di costruirci un vantaggio elettorale. La vera novità è piuttosto la posizione espressa dai vertici militari degli USA ed espressa pubblicamente dal Segretario alla Difesa, Mark Esper. Un rifiuto rotondo e senz’appello alla richiesta di Trump di utilizzo delle Forze Armate per compiti di ordine pubblico. Non solo perché le manifestazioni esprimono un livello di conflittualità ma non di minaccia alla sicurezza nazionale, ma proprio per l’opzione politica che fa da sfondo alla richiesta presidenziale.

Le parole del Segretario alla Difesa non hanno ricevuto commenti o richieste di dimissioni da parte di Trump, che sa benissimo come non sia nemmeno ipotizzabile che il Segretario alla Difesa abbia reso pubblico il suo profondo dissenso senza essersi consultato con lo Stato Maggiore. L’importanza assoluta delle sue parole è proprio qui. E anche l’ex capo di stato maggiore, Mattis, e numerosi alti ufficiali si sono pronunciati contro il tentativo di Trump - definito " uomo divisivo" - di portare i militari nell’arena di uno scontro che è tutto politico.

La presa di distanza segna un capitolo nuovo negli equilibri interni al deep-state. E’ un fatto inoppugnabile che il Pentagono abbia sostenuto Trump sin dall’inizio del suo mandato, erigendosi a difesa del Tycoon che rischiava di soccombere sotto il tiro incrociato di FBI e Congresso. Il posizionamento dei militari è stato determinante per evitare che Trump finisse il mandato senza nemmeno averlo iniziato e proseguisse poi. Se adesso i vertici del Pentagono smentiscono il loro Comandante in Capo, se rendono pubblico il dissenso dal Presidente, se ritengono sia opportuno smarcare i militari dalla Casa Bianca, è perché sono ormai convinti che il Presidente abbia esaurito il suo mandato, tanto politicamente come umanamente. La pessima gestione dell’emergenza sanitaria e l’isteria razzista di questi giorni hanno convinto i militari che ormai Trump non rappresenta più una possibile soluzione ma un ulteriore, grave problema.

La rottura tra Pentagono e Casa Bianca non si limita alla diversa interpretazione costituzionale sull’utilizzo dei militari in funzione interna. Ad approfondire ulteriormente il dissenso politico con Trump, il Segretario alla Difesa ha affermato che l’agente assassino di Floyd e i suoi compari in uniforme dovrebbero essere arrestati, giudicati e condannati, con ciò implicitamente riconoscendo la giustezza di fondo delle proteste ed indicando una risposta politica per cercare una via d’uscita dalla crisi. Che poi questo sarebbe sufficiente a rimandare a casa i manifestanti è tutto da dimostrare, visto che sono molteplici e trasversali le ragioni ed i sentimenti di chi è in piazza.

C’è, naturalmente, la protesta per l’ennesimo assassinio che s’inserisce nella consueta linea di brutalità dai tratti criminali della polizia, che dal 1980 ad oggi ha prodotto 230.000 vittime uccise senza motivo da uomini in uniforme. Altro che i vincoli rigidi nel comportamento poliziesco che ci vengono raccontati dalla falsa narrazione delle serie televisive come eroi solitari nella guerra al crimine. Nella realtà più che eroi sono aguzzini: abusi, violenze gratuite e razzismo sono il pane quotidiano della cronaca dell’ordine pubblico statunitense.

La proteste di questi giorni riguardano, prima e sopra ogni cosa, la battaglia tra razzismo e antirazzismo, ovvero tra il fascismo sociale che pulsa nelle vene USA e la resistenza di ogni minoranza marginalizzata. Nativi, afroamericani e latinos sono infatti i bersagli delle elites di un Paese che sul genocidio dei nativi è nato, sulla segregazione razziale è diventato grande e sullo sfruttamento dei latinos si è arricchito. E Trump, che con tutta la sua famiglia non ha mai nascosto la sua passione per il Ku-Klux-Klan (come si vede nella foto ndr) del razzismo è fiero rappresentante.

Ma alle proteste contro il razzismo e l’uso criminale della forza si aggiunge anche il riflesso di una crisi economica e sociale drammatica, che nel Paese che dispone della maggior quota di ricchezza del pianeta vede la percentuale record di povertà di tutto l’Occidente. E’ il modello che non funziona più e l’incapacità di fermare la discesa permanente dei livelli di sussistenza di decine di milioni di persone è lo specchio lucido di un sistema concepito per arricchire la minoranza grazie all’impoverimento della maggioranza.

C’è poi anche un capitolo specifico delle proteste che investe il ceto medio americano, quello che disertando le urne (magari anche per non votare l’invotabile Hillary) ha consentito ad uno dei peggiori americani di farsi presidente. C’è una intolleranza di fondo che non mette in discussione i postulati della dottrina economica e sociale ma che riguarda la persona Trump, uomo al di sotto di ogni minimo standard di decenza. Razzista, omofobo, ignorante, appare come la personificazione della volgarità e del cialtronismo; emerge il suo spirito da speculatore mentre non si riesce a determinare un solo punto di adesione con l’aplomb istituzionale che il ruolo richiederebbe. Le sue smorfie stupide, i suoi concetti strampalati, le bugie ripetute e l’intolleranza verso chiunque gli ponga una domanda, insieme alle sue spaventose gaffes, fanno sì che l’America che non indossa i grembiuli del Ku-Klux-Klan e che non ha come orizzonte ideale la sopraffazione del suo presidente si vergogna.

Persino nel ruolo di Comandante in Capo delle Forze Armate ha fatto ridere, quando non appena vista la manifestazione fuori dai cancelli della Casa Bianca è scappato come un coniglio nel bunker. In una America che vive del mito degli eroi vincenti contro tutto e tutti, emerge l’immagine del suo Comandante in Capo che ha paura di tutto e tutti. Adesso, vistosi negare l’intervento dei militari, ha fatto erigere a circondare la Casa Bianca un muro “provvisorio” di blocchi di cemento e recinzioni. Non deve essere un genio il suo consulente dì immagine: trasformare il luogo politico più importante del mondo in una sorta di rifugio per conigli non sembra una grande idea, così come la fuga nel bunker non offre proprio un’immagine di leader. Anche perché il bunker della Casa Bianca è destinato alla difesa del Presidente in caso di conflitto nucleare e non di qualche cartello innalzato dai manifestanti.

Fino a poche settimane fa, per alcuni commentatori la corsa di Trump verso il secondo mandato appariva in discesa mentre altri prefiguravano un ben diverso scenario. Ma se i vertici militari hanno stabilito la fine del legame con il Presidente outsider, significa che con l’approfondirsi dei livelli di povertà e disoccupazione e con la gestione imbecille dell’emergenza sanitaria, qualcosa è cambiato. Infatti, nonostante le debolezze dei democratici, la rielezione di Trump non era mai sembrata certa, sebbene i Dem, come sempre, siano corsi in soccorso dei repubblicani annunciando una candidatura centrista e opaca, certamente non in grado di mettere Trump nell’ombra.

Per quanto oggi Biden voglia apparire come feroce oppositore appare impossibile identificarlo con un ripensamento del modello. E gli scandali legati ai rapporti tra suo figlio e il governo fascista ucraino, che secondo l’accusa avrebbero determinato un colossale conflitto d’interessi nell’intervento dell’allora vicepresidente, non l’aiuta.

La sua è una candidatura destinata a sperare nel progressivo distacco dell’elettorato colpito dalla crisi e dai poteri forti intenzionati a scaricare il tycoon, piuttosto che confidare in un voto democratico che non arriverà a coinvolgere giovani e lavoratori colpiti dal modello. Perché quel grigio candidato, politicante da sempre con tutti ma mai leader politico di nessuno, alla fine rappresenta l’establishment e non le vittime dello strapotere dello stesso.

Una decisione presa questa settimana dal presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha confermato come molti paesi alleati degli Stati Uniti continuino ad attraversare un periodo di turbolenza strategica principalmente a causa delle tensioni crescenti tra Washington e Pechino. Il governo di Manila ha effettuato cioè una nuova giravolta, sospendendo un processo innescato meno di quattro mesi fa che avrebbe costretto i militari americani ad abbandonare il territorio del paese-arcipelago.

Al cento della vicenda c’è il cosiddetto “Visiting Forces Agreement” (VFA), ovvero l’accordo bilaterale del 1998 che aveva fissato le basi legali della presenza di soldati americani nelle Filippine, sia pure su base formalmente temporanea e “a rotazione”. Questo accordo era stato stipulato tra i due storici alleati per annullare di fatto gli effetti della precedente decisione delle Filippine di chiudere tutte le basi militari permanenti dell’ex potenza coloniale in conseguenza dell’ondata di anti-americanismo che aveva attraversato il paese all’inizio degli anni Novanta. A livello ufficiale, il VFA serviva invece ad assicurare l’implementazione del Trattato di Mutua Difesa, sottoscritto tra i due paesi nel 1951.

Duterte aveva annunciato la cessazione del VFA nel mese di febbraio, subito dopo la decisione del governo di Washington di cancellare il visto d’ingresso negli Stati Uniti di alcuni funzionari e politici filippini accusati di violazione dei diritti umani, tra cui il senatore Ronald dela Rosa, stretto alleato del presidente. L’iniziativa non era comunque una risposta istintiva alla provocazione americana, ma il culmine del rimescolamento strategico perseguito da Duterte fin dalla sua elezione nel 2016 e che ha portato a un certo allentamento delle tensioni tra le Filippine e la Cina.

La fine del VFA avrebbe dovuto diventare effettiva il 9 agosto prossimo, al termine del periodo di 180 giorni previsto a partire dalla notifica ufficiale di uno dei due paesi firmatari. È facilmente ipotizzabile che su Duterte ci siano state pressioni enormi per convincerlo a tornare sui propri passi. Questo accordo è d’altra parte un elemento cruciale nei piani americani di contrasto e contenimento della Cina, visto che assicura una presenza militare massiccia e continuativa in un paese collocato in maniera strategica in caso di conflitto con Pechino.

Il VFA permette anche agli Stati Uniti di programmare esercitazioni militari e altre attività marittime congiunte con le forze armate filippine, considerate come una provocazione dal governo cinese. L’importanza del trattato bilaterale ha quindi con ogni probabilità fatto scattare l’allarme a Washington nel momento in cui Duterte ne aveva deciso la revoca.

Le pressioni statunitensi si sono poi sommate a quelle provenienti dall’interno della classe dirigente filippina, dove in molti non solo all’opposizione ma anche nello stesso governo del presidente continuano a chiedere il mantenimento di una politica estera allineata alle posizioni del principale alleato di Manila. A riprova di ciò, recentemente il ministro della Difesa, Delfin Lorenzana, aveva affermato in un’audizione al Senato che il VFA restava un elemento centrale per la sicurezza delle Filippine, a suo dire indispensabile soprattutto per ottenere assistenza immediata in caso di calamità naturali.

Altri politici vicini a Duterte avevano poi appoggiato una richiesta dei senatori dell’opposizione per costringere il presidente a sottoporre la sospensione del VFA al giudizio del Parlamento. Per ottenere ciò, alcuni senatori a inizio marzo si erano anche rivolti alla Corte Suprema, il cui parere non è però ancora stato espresso. Duterte era ben consapevole di queste resistenze e aveva allora optato per l’abrogazione del trattato tramite decreto presidenziale, assumendosi il rischio di una lunga contesa legale.

Molti commentatori in questi giorni hanno ricondotto la decisione di Duterte alle recenti manovre di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, dove i due paesi sono coinvolti in contese territoriali, spesso alimentate da Washington, che negli ultimi anni sono state motivo di pericolosi scontri. Nella lettera con cui il ministro degli Esteri filippino, Teodoro Locsin, ha informato l’ambasciata americana della decisione di Duterte di tenere in vita il VFA si fa riferimento infatti agli ultimi “sviluppi politici e d’altro genere nella regione”.

Parlando mercoledì ai giornalisti, lo stesso ministro è stato anche più esplicito, quando ha sostenuto che la mossa di questa settimana per mantenere la presenza di militari USA nelle Filippine è da collegare alla “escalation di tensioni tra le [due] superpotenze”. Per il ministro della Difesa Lorenzana, invece, il presidente avrebbe valutato “inopportuno” cancellare l’accordo con gli USA nel pieno dell’epidemia di Coronavirus.

In effetti, nelle ultime settimane si sono verificati alcuni fatti che devono avere creato una certa ansia a Manila. Ad aprile era circolata ad esempio la notizia che il governo Duterte nel mese di febbraio era ricorso ai canali diplomatici per protestare contro Pechino, dopo che una nave militare cinese aveva puntato le proprie armi contro un’imbarcazione filippina nelle isole Spratly, rivendicate da entrambi i paesi. I diplomatici filippini avevano anche espresso solidarietà al Vietnam dopo l’affondamento da parte cinese di un peschereccio di questo paese.

La questione più preoccupante per Manila e Washington può essere in ogni caso la possibile decisione della Cina di dichiarare una Zona di Identificazione di Difesa Aerea (ADIZ) nel Mar Cinese Meridionale che vada a sovrapporsi alla Zona Economica Esclusiva delle Filippine. Questa misura limiterebbe i movimenti aerei in una regione già caldissima, con conseguenze difficili da calcolare. Per questo motivo, Pechino ha finora esitato a muoversi in questa direzione, ma è possibile che il recente consolidamento delle posizioni militari cinesi nell’area contesa renda a breve fattibile e, soprattutto, difendibile l’istituzione di un’ADIZ.

La salvaguardia del VFA da parte di Duterte permette senza dubbio alla Casa Bianca di tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, il futuro della partnership strategica tra USA e Filippine non può essere dato per scontato. Ulteriori scosse sono anzi probabili, in particolare se si tiene conto del peso che avranno in ambito economico e commerciale i richiami cinesi per Manila nella fase post-Coronavirus.

Se i tempi di preavviso necessari per affondare il trattato del 1998 rendono improbabile un nuovo voltafaccia da parte di Duterte prima della fine del suo mandato nel 2022, lo stesso presidente non ha mancato di mettere sull’attenti gli alleati americani. Infatti, giovedì il portavoce di Duterte ha chiarito la posizione ufficiale del presidente, per il quale il processo di revoca del VFA, con la conseguente fine della presenza militare americana sul territorio delle Filippine, sarebbe solo sospeso, visto che resta uno degli obiettivi primari della politica estera dell’attuale amministrazione.

Dopo la provocazione del presidente Trump a Washington, dove è apparso in pubblico con una bibbia in mano, le proteste in corso negli Stati Uniti sono proseguite in maniera quasi del tutto pacifica. L’assenza di quelli che la stampa ufficiale ha definito “saccheggi” e “distruzione” in centinaia di città USA ha confermato il carattere autentico delle manifestazioni scaturite dall’assassinio di George Floyd, rendendo ancora più grave e inquietante la risposta delle autorità locali e il tentativo di mobilitazione dell’esercito con compiti di repressione da parte dell’inquilino della Casa Bianca.

Il diffondersi del virus Covid-19 in tutto il pianeta ha obbligato ogni nazione a prendere misure cautelative. Sono state diverse da Paese a Paese, perché diverso è stato l’impatto della pandemia e perché diversa è la realtà socioeconomica di ognuna. Sul piano politico interno, si è registrata generalmente una riduzione della conflittualità politica; c’è stata una risposta in buona sostanza unitaria tra governi ed opposizioni, dato che tutte le forze politiche hanno ritenuto di dover puntare tutte le energie nella difesa nazionale dall’emergenza sanitaria. Ovunque è stato così. Ma non in Nicaragua.

Le minacce della Casa Bianca e del dipartimento di Stato americano non sono alla fine servite a impedire l’approvazione nella giornata di giovedì della nuova legge sulla “sicurezza nazionale” per Hong Kong da parte dell’annuale assemblea legislativa cinese. La decisione presa dal Congresso Popolare era stata anticipata da un annuncio clamoroso a Washington, dove l’amministrazione Trump aveva stabilito che l’ex colonia britannica non dispone ormai più di un livello significativo di autonomia da Pechino. Questa dichiarazione rappresenta una nuova escalation dello scontro tra le prime due potenze del pianeta e apre la strada alla possibile revoca dello status privilegiato assegnato alla città asiatica per oltre due decenni dal governo degli Stati Uniti.


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