Più che un piano di pace o, com’è ufficialmente chiamato, una “visione per la pace”, quello presentato martedì alla Casa Bianca dall’amministrazione Trump rappresenta un tentativo cinico e brutale di ratificare unilateralmente lo status quo illegale creato da Israele in oltre mezzo secolo di crimini commessi contro la popolazione palestinese. Già defunta in partenza se considerata come un’intesa da finalizzare in maniera bilaterale, la proposta americana rompe quasi del tutto con le consuetudini tenute dai precedenti governi di Washington in questo ambito, aprendo la strada al riconoscimento di uno stato – quello di Israele – basato sull’apartheid, nonché a un meccanismo che premia l’oppressore mentre punisce la vittima.

La recente visita in Myanmar del presidente cinese, Xi Jinping, ha messo in evidenza il persistere di legami strettissimi tra i due paesi, nonostante il rimescolamento strategico che era seguito o avrebbe dovuto seguire il ritorno formale alla democrazia dell’ex Birmania. I due vicini, per meglio dire, stanno di fatto tornando alla partnership che caratterizzava i loro rapporti prima del breve idillio con l’Occidente. Un’evoluzione, quella in corso, che risponde alla necessità per il Myanmar di evitare l’isolamento internazionale e per la Cina di sfruttare le opportunità strategiche di ampio respiro offerte dall’alleato.

La questione che ha maggiormente contribuito a incrinare le relazioni tra il Myanmar e l’Occidente è la persecuzione, al limite del genocidio, della minoranza Rohingya di fede musulmana, stanziata soprattutto nelle regioni occidentali del paese del sud-est asiatico. La durissima repressione messa in atto dai militari birmani è stata il culmine di decenni di soprusi ed emarginazione e ha costretto centinaia di migliaia di Rohingya a fuggire nel vicino Bangladesh.

La condanna internazionale del comportamento del Myanmar è stata inevitabile, viste le dimensioni dei crimini ben documentati. Lo sdegno, tuttavia, si è intrecciato ad aspetti diplomatici e strategici, in particolare per quel che riguarda le reazioni degli Stati Uniti, il cui atteggiamento nei confronti delle violazioni dei diritti umani da parte di governi stranieri risulta come sempre estremamente selettivo.

Il Nicaragua, per molti aspetti, è terra magica. Il divenire quotidiano ha sempre il sapore di un evento. Colpa forse di vulcani e temperature, di passioni incandescenti, nulla è pacato. Persino il tempo ha una movenza particolare. Ci sono sere, in Nicaragua, dove quando il sole tramonta invece che la notte comincia un nuovo giorno. Una di queste fu quella del 10 Gennaio 2007. Il nuovo e di nuovo Presidente del Nicaragua, il Comandante Daniel Ortega Saavedra, in nome e per conto del suo popolo indossò la fascia presidenziale.

Del Nicaragua non offro testimonianze imparziali. Della sua storia politica e umana non sono relatore indifferente ed anzi considero l’imparzialità tra il giusto e l’ingiusto il peggio in cui possa prodursi un essere umano, così come il confondere le vittime con i carnefici, la sorte delle moltitudini con i privilegi dei pochi, la Patria con i nemici della Patria. Di quella sera conservo un ricordo speciale. Quella vinta non era stata solo una battaglia politica ed elettorale: era la fine di un tunnel durato 16 maledetti anni. A differenza che il 1979, non c’era la cacciata di un dittatore, ma andava espulsa la tirannide del neoliberismo. La piazza stracolma: decine di migliaia di persone camminarono sottobraccio con milioni di speranze. Che era necessaria, il paese era in ginocchio.

Come la maggior parte dei paesi dell'America Latina, l’Ecuador è vittima di una forte offensiva neoliberista. Essa trova terreno fertile anche a causa della debolezza della sinistra nel recuperare le basi sociali il cui sostegno fu ottenuto dai governi progressisti nel "decennio vittorioso" poiché avevano grandi radici popolari, ma ora vengono riconquistati dalla destra. Tutto ciò, ovviamente, con il supporto illimitato dei mezzi di comunicazione egemonici sottomessi ai mandati dell'impero, e come Emir Sader afferma in uno dei suoi brillanti articoli, senza pensiero critico non esiste alcuna pratica emancipatoria.

A poco meno di due settimane dall’inizio delle primarie per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, è partito nei confronti del candidato considerato più a sinistra di tutto il panorama “mainstream” di Washington un vero e proprio fuoco incrociato di attacchi politici e personali diretti ad affondare una campagna elettorale che continua a fare registrare un certo successo. Contro Bernie Sanders si sono già mobilitati alcuni dei pesi massimi degli ambienti “liberal” americani, a cominciare dal clan Clinton e da alcuni dei media più potenti legati a quel Partito Democratico per cui lo stesso senatore del Vermont è alla ricerca della nomination.


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