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I punti su cui la conferenza di Berlino per la Libia avrebbe trovato un accordo nel pomeriggio di domenica saranno estremamente difficili da implementare sul campo alla luce della situazione attuale nel paese dell’Africa settentrionale. Il rispetto della fragilissima tregua, negoziata in precedenza a Mosca, e dell’embargo internazionale sulle armi sono obiettivi difficilmente perseguibili in presenza di equilibri così sbilanciati a favore di una delle due parti in conflitto. Allo stesso modo, le potenze che si sono precipitate nella capitale tedesca continuano ad avere come scopo delle proprie iniziative non tanto la pacificazione di un paese che hanno contribuito a distruggere, quanto la salvaguardia e la promozione dei loro interessi strategici, non necessariamente coincidenti con quelli degli alleati che dovrebbero garantire il successo della diplomazia.
Il dato più rilevante della vicenda libica è rappresentato precisamente dallo scontro tra le due parti che si confrontano sul terreno e tra i rispettivi sponsor. Da ciò deriva anche la relativa impotenza degli attori europei, tutti più o meno con mire strategiche sulla Libia, ma in buona parte emarginati dalle manovre di Russia e Turchia, così come di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, questi ultimi impegnati a sostenere militarmente e finanziariamente il generale Khalifa Haftar e il suo Esercito Nazionale Libico (LNA).
La convocazione del forum di Berlino, in programma da tempo e più volte rimandato, è il tentativo perciò soprattutto dell’Europa di tornare a controllare gli eventi libici, visto il peso di ciò che accade a Tripoli nei calcoli di molti paesi, a cominciare dall’Italia. Le difficoltà nel pacificare la situazione con un processo che porti all’unificazione del paese che fu di Gheddafi sono apparse evidenti prima e dopo la conferenza.
Il generale Haftar ha infatti deciso la chiusura di due importanti pozzi petroliferi del paese. La mossa ha fatto precipitare la produzione libica di greggio da 1,2 milioni di barili al giorno ad appena 72 mila, con conseguenze potenzialmente pesantissime sulle casse del Governo di Accordo Nazionale di Tripoli (GNA), riconosciuto dalle Nazioni Unite ma capace di controllare solo una parte ridottissima di territorio al di fuori della capitale.
Quella delle forze fedeli a Haftar è una decisione che serve a esercitare pressioni sia sul governo di Sarraj a Tripoli sia sui “mediatori” internazionali che sostengono quest’ultimo (Italia, Turchia, Qatar). Senza un’intesa che soddisfi l’LNA e i suoi sponsor, in altre parole, potrebbe non esserci alcuna stabilizzazione della situazione in Libia.
Va ricordato inoltre che dietro a Haftar ci sono regimi che intendono liquidare gli ambienti islamisti che animano le milizie su cui si basa la limitatissima autorità di Sarraj e del GNA. La spartizione del potere con il governo riconosciuto dall’ONU risulta dunque un’opzione difficile da digerire per coloro che hanno investito su un Haftar vicino a mettere le mani su Tripoli. In questo quadro, le rassicurazioni espresse da molti a Berlino, dal ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas al segretario di Stato USA Mike Pompeo, circa il raggiungimento di un accordo che, tra l’altro, porterà a breve a sbloccare l’esportazione di petrolio sono da prendere quanto meno con le molle.
Secondo quanto stabilito a Berlino, la tregua ufficialmente già in vigore dovrebbe essere garantita da una “commissione speciale” formata da cinque ufficiali militari di ciascuna delle due fazioni che si contendono il potere in Libia. Anche questa condizione non sarà facile da soddisfare, nonostante il segretario generale dell’ONU Guterres abbia sostenuto che la commissione dovrebbe riunirsi già tra qualche giorno a Ginevra. Sarraj e Haftar, d’altra parte, non si sono nemmeno incontrati nella capitale tedesca e i contatti tra i due sono avvenuti grazie alla mediazione dei diplomatici dei paesi presenti.
La conferenza di domenica e i risultati che ha prodotto rappresentano comunque soltanto una prima fase dei piani europei per la Libia. Malgrado lo scetticismo ostentato da alcuni governi, è evidente che siano in atto manovre per un intervento militare di ampia portata, il cui scopo formale sarebbe ovviamente quello di stabilizzare la situazione e pacificare il paese africano.
In un’intervista al giornale tedesco Der Spiegel, lo stesso numero uno della politica estera UE, Josep Borrell, aveva definito “cruciale la ferma difesa dei nostri interessi”. Perciò, “se ci fosse una tregua in Libia, l’Unione Europea dovrà essere preparata a implementarla e a monitorarla”, se necessario “anche con soldati” facenti parte di “una missione UE”. La stessa posizione interventista l’ha espressa il ministro degli Esteri italiano Di Maio, anch’egli ipotizzando un’autorizzazione delle Nazioni Unite.
Se si andasse in questa direzione, è facilmente prevedibile che dietro a parole come “pace” e “stabilizzazione” tornerebbe a esserci la difesa diretta degli interessi occidentali in Libia per mezzo della forza. La ragione principale che spinge i governi europei verso l’invio di un possibile contingente militare a Tripoli è la competizione con quegli attori – dalla Russia alla Turchia, dall’Egitto all’Arabia Saudita – che negli ultimi mesi hanno esercitato in modo più o meno efficace la loro influenza sugli scenari libici.
A complicare il quadro sono anche le mire divergenti di paesi alleati, basti pensare a Italia e Francia, schierati rispettivamente a fianco del GNA di Sarraj e delle forze di Haftar, nonostante la posizione ufficialmente più sfumata di Parigi. Nel complesso, l’interesse per la Libia oggi nel caos resta lo stesso che aveva scatenato la finta rivolta contro Gheddafi nel 2011.
Il quotidiano tedesco Tagesspiegel ha riassunto con efficacia in un recente commento le motivazioni alla base delle manovre che riguardano la Libia. “L’importanza strategica di questo paese”, cioè, “è la ragione per cui così tanti soggetti vogliono essere coinvolti, anche se l’investimento di denaro, di soldati o mercenari in una guerra civile dall’esito incerto non appare a prima vista invitante”. D’altra parte, spiega la testata, “la Libia possiede il petrolio” e “chiunque controlla la Libia controlla quella che oggi è la rotta migratoria più importante verso l’Europa, diventando un partner indispensabile per l’UE”.
Più in generale, gli sforzi per trovare una soluzione alla crisi libica rientrano nel quadro della corsa al continente africano riesplosa negli ultimi anni e che proprio da Tripoli era partita all’inizio del decennio appena concluso. Alcuni paesi europei hanno già una presenza consolidata nell’area adiacente alla Libia, quella del Sahel, dove soprattutto Francia e, in misura minore, Germania hanno dispiegato contingenti militari.
La ragione ufficiale di questo impegno è ancora una volta quella della lotta al fondamentalismo islamista e la necessità di stabilizzare i paesi che ospitano i soldati europei, sconvolti proprio dalle conseguenze del caos libico. In realtà, come per la Libia, i motivi sono da ricercare nella competizione per le risorse di queste aree del continente africano e che coinvolgono praticamente tutte le potenze regionali e internazionali, dalla Cina alla Russia fino alla Turchia e agli Stati Uniti.
In ultima analisi, ad ogni modo, se la stabilizzazione della Libia dovesse almeno temporaneamente tenere grazie al cessate in fuoco in vigore, ciò sarà dovuto più alla collaborazione tra Mosca e Ankara che agli sforzi europei. Se l’intervento della Turchia a fianco del governo Sarraj, con un annesso controverso accordo energetico nel Mediterraneo orientale, ha da un lato fatto aumentare il rischio di un allargamento del conflitto, dall’altro può avere agito da deterrente, spingendo gli sponsor di Haftar, almeno per il momento, a prendere del tempo per evitare il precipitare della situazione.
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- Scritto da Rosella Franconi
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Il 15 gennaio di ogni anno si festeggia a Cuba il giorno della scienza cubana. Una ricorrenza che ha origine dalla frase iconica e visionaria pronunciata da Fidel Castro sul “futuro di uomini di scienza e di pensiero” il 15 gennaio 1960 (appena un anno dopo il trionfo della Rivoluzione e un anno prima della campagna di alfabetizzazione, quando l'isola aveva il 25% di analfabeti). Il resto del mondo avrebbe molto da imparare da quel processo in continua evoluzione rappresentato dalla Rivoluzione cubana.
La scienza è certamente uno degli indicatori dello sviluppo di Cuba, un fiore all’occhiello di una Rivoluzione che ha dovuto misurare le sue ambizioni con un blocco economico, commerciale e finanziario inumano ed anacronistico in vigore dal 1961 ad opera degli Stati Uniti. Un blocco che, con la presidenza Trump, è stato ulteriormente accentuato e che ha esteso i suoi effetti extraterritoriali, con il complice accennato borbottio di europei, canadesi e giapponesi.
È un dato di fatto che gli indicatori di salute a Cuba, tra i migliori al mondo, sono stati raggiunti in un tempo breve, con risorse materiali limitate e in un contesto di ostilità e aggressività economica esterna (Lage A, Science and challenges for Cuban public health in the 21st century. MEDICC Rev, 2019;21:7–14). Nel 1960, l’aspettativa di vita era 63 anni e la mortalità infantile stimata in 34.8/1000 nati. I dati relativi al 2017 registrano un’aspettativa di vita alla nascita di più di 79 anni (7 in più della media globale, 3 in più dell’America Latina), una mortalità infantile di 4/1000 nati (più bassa che negli USA) e un medico ogni 122 abitanti, uno dei rapporti medico/abitante più alti nel mondo.
Non basta: “Save the Children” già nel 2010 definì Cuba il luogo migliore dove essere madre; nel 2015 l’OMS definì Cuba il primo paese al mondo ad aver eliminato la trasmissione madre-figlio di HIV e sifilide (si tenga conto anche che da poche settimane viene distribuito il vaccino sperimentale cubano anti-HIV, che promette risultati di assoluto livello ndr) elogiando come esempio per tutto il mondo il sistema sanitario cubano basato sulla medicina preventiva; nel febbraio 2019, Bloomberg ha incluso Cuba tra i 30 paesi più sani al mondo (più in alto di tutta l’America Latina ma anche degli USA). E la lista potrebbe non finire qui.
Cuba rappresenta quindi un’eccezione alla classica correlazione tra indicatori di salute e PIL. La dissociazione di questi due fattori appare ancora più evidente durante il “Periodo Speciale”, iniziato nel 1991 con la scomparsa della URSS (e che ha segnato la “vittoria” del capitalismo neo-liberale sui progetti socialisti e la confusione mondiale delle sinistre) quando il PIL si è ridotto del 35-40%. I modelli convenzionali avevano predetto che gli indicatori di salute si sarebbero deteriorati (cosa che di fatto avvenne nei paesi dell’Est e in Russia). Eppure, a Cuba ciò non avvenne. Quello che è accaduto dopo la rivoluzione del ‘59 rappresenta perciò un fenomeno fuori dagli schemi che merita di essere approfondito.
C’è un aspetto di Cuba ancora poco conosciuto (e volutamente oscurato dalla propaganda internazionale), quello della creazione di un sistema sanitario e scientifico al livello dei Paesi avanzati. La giovanissima dirigenza rivoluzionaria aveva molto chiaro che per affrancare il Paese dalla condizione di subalternità e dipendenza era necessario sviluppare autonomamente le competenze scientifiche e tecniche più avanzate, per adattarle alle esigenze dell’isola e sviluppare un servizio sanitario universale e gratuito per il benessere della popolazione.
L’audace discorso di Fidel (ispirato dal pensiero di José Marti “Per essere liberi bisogna essere colti”) del 1960, “Il futuro di Cuba non può essere che un futuro di uomini di scienza”, condiviso integralmente dal Che e gli altri dirigenti, diede un segnale a tutta l’intellighenzia che non aveva abbandonato l’isola e compattò in questa impresa l’intera popolazione che percepì chiaramente di essere destinataria dei progressi del Paese, malgrado la crisi inevitabile di molti settori.
Dopo che la capillare campagna di alfabetizzazione sradicò l’analfabetismo e l’istruzione fu resa gratuita a tutti i livelli, in una situazione di assedio da parte degli USA, ebbe così inizio questo processo e la coesione del Paese, sostenuta dalla caparbietà di Fidel, consentì che fosse realizzato in pieno.
Da subito Cuba si è distinta nell’intero campo socialista per la libertà che si assunse in tante scelte decisive, preferendo le vie più pratiche ed efficaci per realizzare i propri obiettivi. Per lo sviluppo della ricerca scientifica nei campi più avanzati infatti i cubani, mentre si appoggiavano all’URSS e ad altri Paesi comunisti, si avvalsero fin dai primi anni ‘60 anche del supporto diretto di numerosi scienziati dei Paesi capitalisti, i quali introdussero corsi universitari avanzati, le prime attività di ricerca e tecnologie sulle quali l’URSS si trovava più arretrata, come nel campo della genetica moderna.
Qui giocarono un ruolo fondamentale un gran numero di giovani biologi italiani i quali nei primi anni ‘70 impartirono a Cuba corsi di genetica molecolare e di altre branche della biologia moderna, e formarono la generazione dei biologi cubani che dopo il 1980 sviluppò un florido settore di biotecnologie, proprio quando questo campo nasceva a livello mondiale. Proprio il 31 dicembre scorso abbiamo pianto la scomparsa di Paolo Amati, che di queste insostituibili collaborazioni fu l’alfiere: vogliamo ricordarlo con le parole che ci disse: “Dai cubani ho imparato molto”!
L’industria biotecnologica cubana, fondata su una struttura più efficiente ed alternativa a quella capital-intensive dominante, a dispetto del bloqueo, raggiunse già negli anni ‘80 livelli di eccellenza mondiale: fondata sul ciclo completo ricerca-test clinici-produzione-commercializzazione-esportazione, in stretto collegamento con il sistema sanitario e gli ospedali, ha messo a punto vaccini e terapie per le principali patologie della popolazione, promuovendo la “diplomazia medica” e una cooperazione sud-sud con i paesi in via di sviluppo. Cooperazione che da qualche tempo è sotto attacco da parte degli USA: come esempio, basti ricordare i 3 milioni di dollari stanziati dall’ l’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (USAID) e destinati a progetti contro le brigate mediche di Cuba all’estero.
La gravissima crisi che investì Cuba con il crollo dell’Unione Sovietica portò una, pur indesiderata, conferma della scelta di fondo degli anni ‘60: non solo il sistema scientifico cubano, malgrado l’inevitabile crisi di molti settori, resistette nella sostanza al tremendo colpo, ma Fidel rinnovò la scelta che era stata decisiva negli anni ‘60, intensificando il finanziamento dell’industria biotecnologica. E anche questa volta la scelta si è rivelata vincente! Il settore biomedico è il secondo per ingresso di valuta pregiata di cui Cuba ha disperato bisogno, dopo il turismo, che attraversa una crisi dopo l’inasprimento del bloqueo.
L’articolo 21 della nuova Costituzione cubana (approvata nel 2019 dopo referendum popolare) recita: “lo Stato promuove lo sviluppo scientifico, tecnologico e l’innovazione come elementi imprescindibili per lo sviluppo economico e sociale… favorisce l’introduzione sistematica dei suoi risultati nei processi produttivi dei servizi attraverso il quadro istituzionale e normativo corrispondente...”.
La scienza ed il metodo scientifico, già posti precocemente alla base della costruzione della conoscenza, entrano ora ufficialmente a far parte delle forze produttive: è il “futuro di uomini di scienza e di pensiero”, quello che Fidel Castro aveva previsto.
Articolo scritto con la collaborazione di Angelo Baracca
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- Scritto da Carlo Musilli
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La settimana scorsa i maggiori Paesi europei hanno subìto un’umiliazione che ha del surreale. Secondo indiscrezioni del Washington Post non smentite da nessuno – e anzi poi confermata da Berlino – gli Stati Uniti hanno minacciato l’Ue d’imporre nuovi dazi del 25% sulle importazioni di auto europee negli Usa se Francia, Germania e Gran Bretagna non avessero appoggiato Washington nella campagna contro l’Iran.
L’intimidazione è andata a buon fine. Il 14 gennaio i tre firmatari europei dell’accordo sul nucleare con Teheran hanno attivato il meccanismo di regolamento delle controversie previsto dall’intesa, dando il via a una procedura che potrebbe portare al varo di sanzioni da parte del Consiglio di sicurezza Onu contro il Paese mediorientale. Com’è ovvio, nel comunicato congiunto di Londra, Parigi e Berlino non si accenna alle pressioni della Casa Bianca, che sarebbero rimaste segrete senza lo scoop del grande giornale americano.
Ora, al di là dei preconcetti ideologici, per apprezzare la surrealtà di questa situazione basta ricostruire la sequenza dei fatti, spesso distorta a beneficio della propaganda.
Il trattato internazionale sul nucleare iraniano, supervisionato dall’Onu, entra in vigore alla fine del 2015, quando alla Casa Bianca c’è ancora Barack Obama. Poco meno di tre anni dopo, nell’agosto del 2018, l’accordo viene stracciato da Donald Trump, che fa ripartire le sanzioni unilaterali contro Teheran (il presidente francese Emmanuel Macron tenta di dissuaderlo, ma viene ignorato). Nonostante questo, per i successivi 16 mesi l’Iran non vìola comunque nessuna delle regole previste dal trattato e non arricchisce l’uranio. Il governo del moderato Hassan Rohani spera che l’Europa realizzi un sistema chiamato Instex, il cui obiettivo è aggirare le sanzioni statunitensi. Instez però non entra in funzione, anche perché nel frattempo gli Usa minacciano di ritorsioni qualsiasi azienda europea decida di utilizzarlo.
Dopo di che, a dicembre del 2019 gli Stati Uniti - con un’operazione incontestabilmente illegale dal punto di vista del diritto internazionale - uccidono il numero due dell’Iran, il generale Qasem Soleimani. A quel punto Teheran, asfissiata dalle sanzioni e sotto attacco militare, annuncia che non rispetterà più l’accordo del 2015 per quanto riguarda il numero di centrifughe impiegate per l’arricchimento dell’uranio, pur rimanendo disponibile a ricevere le ispezioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica.
Quindi, ricapitoliamo: gli Stati Uniti ricattano l’Europa per imporle di sanzionare l’Iran, reo di aver violato lo stesso accordo gettato nel cestino oltre un anno prima proprio da Washington, che nel frattempo ha rivendicato un atto di terrorismo internazionale (su suolo iracheno) contro il probabile nuovo presidente di Teheran.
In questo scenario, l’Ue ha messo a nudo tutta la propria debolezza. Pur non avendo ragioni per farlo, gli europei hanno scelto di fidarsi di Trump e alla fine, di fronte al ricatto, hanno ceduto. Quanto al Presidente americano, è chiaro che il suo unico interesse in Medio Oriente sia tutelare Israele e l’Arabia Saudita, principale acquirente delle armi made in Usa. Per il numero uno della Casa Bianca, l’Europa è un alleato secondario e debole, che si può sacrificare e umiliare alla bisogna, senza alcuna remora. E l’Ue, al momento, non ha in mano nemmeno una carta per rilanciare.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Come un docile subalterno pronto a obbedire agli ordini del proprio superiore, il gruppo di paesi europei firmatari dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) si è definitivamente allineato martedì alle posizioni del governo americano. Francia, Germania e Regno Unito hanno denunciato in via ufficiale la Repubblica Islamica per avere violato l’intesa sottoscritta a Vienna nel 2015, aprendo la strada alla reimposizione delle sanzioni e al ritorno a un clima di estrema tensione nei rapporti con Teheran.
Non solo i tre governi hanno rinunciato di fatto a tenere aperto un canale di comunicazione con l’Iran, ma si sono anche nascosti dietro a una retorica fintamente benevola per confondere le acque circa la loro condotta. Nella dichiarazione congiunta, che apre una sorta di “procedura d’infrazione” del JCPOA nei confronti dell’Iran, Parigi, Berlino e Londra affermano cioè di volere salvare l’accordo stesso e di non avere intenzione di partecipare alla campagna di “massima pressione” della Casa Bianca contro Teheran. La loro presa di posizione, al contrario, rende impossibile il primo impegno e inevitabile il mancato rispetto del secondo.
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- Scritto da Michele Paris
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A poco meno di due settimane dall’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani, la credibilità delle giustificazioni offerte dall’amministrazione Trump per l’operazione portata a termine in territorio iracheno sta rapidamente crollando. I tentativi di difendere la decisione da parte del presidente e dei suoi collaboratori più stretti sono infatti sommersi da contraddizioni e menzogne, al punto da mostrare l’episodio per quello che realmente rappresenta, vale a dire un crimine deliberato che minaccia di alterare in maniera drammatica la condotta degli affari internazionali.
L’ultimo tassello nella composizione del mosaico che compone la liquidazione del numero uno delle “forze Quds” dei Guardiani della Rivoluzione iraniani lo ha fornito questa settimana un resoconto degli eventi interni alla Casa Bianca di NBC News. La ricostruzione del network USA ha chiarito come il blitz contro Soleimani fosse stato pianificato da mesi. Per questa ragione, l’assassinio non è stato, come ripetuto più volte da Washington, una misura estrema e necessaria a fermare attacchi “imminenti” contro gli interessi americani, bensì una vendetta per ben altre operazioni di cui il defunto generale era considerato l’architetto.