La tendenza alla guerra appare sempre più irrefrenabile, principalmente per effetto del declino della potenza statunitense che, sempre più in crisi da vari punti di vista, economicamente indebolita, socialmente disgregata, culturalmente devastata, cerca rifugio nel terreno militare, l’unico nel quale continui a mantenere una certa, seppure sempre più relativa, superiorità.

L’assassinio del generale Suleimani costituisce senza dubbio una manifestazione di questa tendenza, ed al tempo stesso una violazione evidente del diritto internazionale, un atto di terrorismo di Stato e un crimine gravissimo contro la pace.

Il presidente turco Erdogan ha annunciato l’inizio del dispiegamento di truppe del proprio paese in Libia a sostegno del Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite. La decisione, com’è noto, arriva in seguito alla stipula di un’intesa tra lo stesso Erdogan e il primo ministro libico, Fayez al-Sarraj, e rischia di infiammare ancora di più un quadro diplomatico e militare già caldissimo in cui si confrontano le principali potenze regionali e non solo.

Gli scenari che si stanno delineando nel paese nord-africano evidenziano il chiaro fallimento degli sforzi diplomatici, in particolare dell’Unione Europea, e il rapido precipitare della situazione verso un conflitto di vasta portata. L’intervento della Turchia ha a sua volta avuto un’accelerazione in parallelo al rilancio dell’offensiva contro Tripoli delle forze del cosiddetto Esercito Nazionale Libico (LNA), guidato dal generale Khalifa Haftar.

È difficile valutare se l’assassinio mirato del generale iraniano Qasem Soleimani a Baghdad sia da considerarsi un atto più sconsiderato o più criminale da parte degli Stati Uniti. Quel che è certo è che l’operazione, autorizzata direttamente dal presidente Trump, alza ulteriormente il livello di criminalità della condotta internazionale di Washington e, nel contempo, fa aumentare in maniera vertiginosa il rischio di una conflagrazione senza precedenti nella regione mediorientale. Assieme a Soleimani, il blitz americano ha ucciso il vice-comandante delle Unità di Mobilitazione Popolare, Abu Mahdi al-Muhandis, le forze sciite irachene.

Sul piano giuridico, aver ordinato l’assassinio di Qesam Soulemani pone il Presidente Trump nel non invidiabile ruolo di criminale internazionale, dal momento che far uccidere il numero 3 di un Paese con il quale non si è in guerra, equivale ad una azione di terrorismo puro e semplice.
Sessantadue anni, dal 1998 Soleimani era il numero uno delle “Forze Quds”, reparto d’élite dei Guardiani della Rivoluzione operante prevalentemente all’estero, ed è stato regista di tutte le operazioni militari persiane nell’intero Medio Oriente ed Asia Minore. Autorevolezza personale e sapienza militare, Soleimani è stato una figura di primissimo piano per la rivoluzione iraniana.
Carismatioa in patria, ha accompagnato la crescita dello stato sciita nel puzzle musulmano: dal Libano alla Siria, allo Yemen, Soleimani è stato per Teheran scudo e avanguardia militare e, nello stesso tempo, tessitore politico di primissimo livello. E' stato artefice, insieme a russi, Hezbollah ed esercito siriano, della sconfitta dello stato islamico e della cacciata dei mercenari dalla Siria. Nel dialogo tra Russia, Iran e Turchia, che tentano di superare gli equilibri a guida israelo-saudita-statunitense nel governo della regione, Soleimani è stato riferimento importantissimo.
L’assassinio era stato in qualche modo annunciato dagli Stati Uniti, con voci di un’operazione imminente che circolavano da qualche giorno sui media israeliani e non solo. Il generale persiano era l’obiettivo principale dell’offensiva contro Teheran, perché considerato in Occidente - e soprattutto negli Stati Uniti – artefice principale della strategia di espansione iraniana in Medio Oriente. La retorica del Pentagono e della Casa Bianca indicava a sua volta un’iniziativa clamorosa in fase di studio contro l’Iran, malgrado la regola non scritta nei rapporti internazionali che evita di prendere di mira i vertici militari o dell’intelligence anche di paesi nemici. Trump ha rotto questa consuetudine e, da ora, nessuno dei vertici delle diverse intelligence coinvolte potrà ritenersi al sicuro.
La provocazione con cui l’amministrazione Trump ha deciso di aprire il nuovo decennio rappresenta dunque un atto irresponsabile che dimostra come potenti forze all’interno del governo e dell’apparato militare degli Stati Uniti, così come tra i loro alleati, intendano andare verso un confronto militare diretto con l’Iran.
La volontà politica di attaccare Teheran, del resto, era stata già chiara quando Trump decise di ritirare la firma statunitense dall’accordo 5+1 sul nucleare iraniano e già nell’occasione si capì come il egli fosse completamente ostaggio di Ryad e Tel Aviv. Cancellare gli accordi sul nucleare, imporre embarghi e sanzioni, serve soprattutto ad impedire il rafforzamento dell’economia iraniana e, ancor più, garantire la predominanza del petrolio saudita privo di concorrenza da parte di un paese ostile. Impedire che l’Irak possa  muovere verso una intesa con l’Iran serve a chiudere il cerchio a favore di Ryad. Ed ora, che all'accerchiamento economico e politico si aggiunge anche l’assassinio mirato di un uomo come Soleimani, sembra proprio che il progetto israelo-saudita di creare una nuova, spaventosa guerra mediorientale, stia andando in porto.
Ma la strategia irachena degli USA per colpire la Repubblica Islamica rischia seriamente di ritorcersi contro la stessa Casa Bianca. Proprio nel teatro iracheno, infatti, l’assassinio di Soleimani potrebbe fare esplodere definitivamente le frustrazioni diffuse tra la società e una parte significativa della classe dirigente irachena, con conseguenze tutt’altro che favorevoli per Washington. Il risultato finale potrebbe essere una mobilitazione del paese mediorientale contro la stessa presenza militare americana. Dopo la morte di Soleimani, infatti, il premier Mahdi ha definito il raid niente meno che una “aggressione” contro l’Iraq e una “seria violazione” delle condizioni che regolano la presenza USA nel suo paese.
Il Parlamento di Baghdad è stato inoltre convocato d’urgenza e non è da escludere che possa deliberare l’espulsione del contingente militare USA dal paese, dato che la classe dirigente irachena teme fortemente l’eventualità sempre più probabile di un conflitto USA-Iran combattuto entro i propri confini. E seppure le decisioni del governo di Baghdad hanno poche possibilità di essere concretizzate nei confronti degli Stati Uniti, è altrettanto vero che il radicalizzarsi dell’ostilità verso Washington renderebbe inevitabile il ricorso a una sorta di nuova complicatissima occupazione per potere utilizzare l’Iraq come base di una guerra contro la Repubblica Islamica.
La questione cruciale sarà comunque la reazione iraniana all’assassinio di Soleimani. Tutte le più alte cariche del paese hanno annunciato misure durissime e proporzionate al crimine commesso dagli USA. E l’Iran non può essere sottovalutato, non è un paese qualunque. Non lo è sotto il profilo storico, politico, militare, religioso. E’ una potenza che non resterà con le mani in mano di fronte ad un attacco proditorio ai suoi più alti livelli. Dunque, deciderà il come e il quando, ma che si vendicherà si può esser certi.
L’inevitabilità di una ritorsione adeguata da parte dell’Iran prospetta poi un’ulteriore risposta degli Stati Uniti, facendo aumentare il rischio di un’escalation fuori controllo. A livello teorico, la Casa Bianca dovrebbe essere frenata dalle conseguenze disastrose di un conflitto che, come aveva dimostrato l’attacco degli Houthi a settembre contro le raffinerie saudite, potrebbe paralizzare le esportazioni petrolifere dal Medio Oriente e mettere perciò in ginocchio le monarchie del Golfo Persico alleate di Washington. Sarà bene ricordare come attraverso lo stretto di Hormutz, in territorio iraniano, passi la maggior quota di petrolio destinato al fabbisogno dell’Occidente.
In vista dell’appuntamento elettorale di novembre, inoltre, l’esplosione di una guerra con l’Iran rappresenterebbe un fardello gigantesco per Trump e le sue prospettive di successo. La possibile violazione di una delle regole fondamentali della politica USA, cioè appunto quella di evitare l’innesco di conflitti in un anno elettorale, dimostra tuttavia come l’operazione contro Soleimani risponda a esigenze di natura geo-strategica ritenute vitali dal “deep state” americano, oppure sia in primo luogo una risposta a sollecitazioni esterne provenienti da Riyadh e Tel Aviv, spesso decisive nell’orientare le scelte di politica estera della Casa Bianca al di là delle implicazioni domestiche.
Quest’ultima ipotesi appare realistica se si considera la responsabilità assunta in prima persona dal presidente Trump per l’assassinio del generale iraniano e, di conseguenza, forse non condivisa almeno da una parte dell’apparato militare e della “sicurezza nazionale” USA. Se è al momento difficile stabilire quali siano le forze dietro il blitz di venerdì a Baghdad, già i prossimi giorni potrebbero mostrare invece come Trump, arrivato alla Casa Bianca con la promessa di chiudere tutte le guerre in cui sono impegnati gli Stati Uniti, rischi di diventare il presidente che ha scatenato il conflitto più rovinoso per il suo paese, per il Medio Oriente e, forse, per l’intero pianeta.

 

articolo scritto in collaborazione con Michele Paris

Di lotta, di governo, di ripresa, di sfide e risultati. Il 2019 in Nicaragua è stato un anno intenso e positivo. Sebbene sporcato dalla vergognosa successione di misure unilaterali da parte degli Stati Uniti, ha visto il ritorno al pieno effetto del circuito economico del paese gravemente danneggiato dall'ondata terroristica del 2018, che ha lasciato l'eredità del danno economico e la fine di un viaggio condiviso tra tutti i settori della società.
Il 2019 ha visto il proseguire della riconciliazione con coloro che erano disposti a riconciliarsi riconoscendo la sovranità della pace; ma, allo stesso tempo, anche la riaffermazione del sandinismo e l'assoluto rispetto del dettato costituzionale. Perdonare senza dimenticare, dare il benvenuto ma vigilare, permettere ma verificare. Poiché la generosità è figlia della forza, ma la tranquillità del paese è risultato del suo controllo totale.

Una delle prime preoccupazioni degli assassini è quella di far sparire i testimoni dei loro crimini. Trattandosi di crimini politici su vasta scala, come il recente golpe in Bolivia contro Evo Morales con annessi massacri, si tratta di far sparire i giornalisti, quelli onesti ovviamente, non gli embedded che fanno finta di fare i giornalisti. Eliminandoli fisicamente.

Per questi motivi suscita molti e giustificati interrogativi la morte del giornalista argentino Sebastián Moro, che viveva a La Paz dal febbraio 2018, svolgendo un’intensa attività informativa per la stampa e le radio locali ed era anche inviato speciale del noto quotidiano argentino Pagina 12 e di molti altri organi di informazione indipendenti, comunitari ed alternativi latinoamericani.

Moro lavorava per media appartenenti alla Confederazione Sindacale Unica dei Lavoratori Contadini della Bolivia, un’importante organizzazione di massa molto attiva tra agricoltori ed indigeni. Il suo ruolo nell’informazione relativa al colpo di Stato e agli attacchi fascisti che lo hanno preceduto ha attirato su di lui l’attenzione di gruppi terroristici di estrema destra. Non è casuale che la sua ultima nota a Pagina 12, inviata il 9 novembre, riguardava proprio gli sviluppi del colpo di Stato in una giornata contrassegnata dagli ammutinamenti dei poliziotti favorevoli ai golpisti. Quello stesso giorno Moro aveva assistito alla devastazione degli uffici dove lavorava da parte delle bande fasciste che hanno costituito il detonatore del colpo di Stato.

Dopo l’invio dell’ultima corrispondenza non si sono più avute notizie di Sebastian, successivamente ritrovato, dopo l’intervento della famiglia, in stato di incoscienza all’interno dell’appartamento dove viveva e ricoverato d’urgenza in una clinica privata di La Paz. Nonostante le cure ricevute in terapia intensiva le condizioni del giornalista si sono progressivamente aggravate, fino al coma profondo e poi alla morte.

Occorre stabilire se le numerose lesioni interne ed esterne, contusioni multiple e politraumi rinvenute sul suo corpo siano effettivamente riconducibili all’incidente cardiocircolatorio, causa ufficiale della sua morte. Potrebbe invece essersi trattato di una brutale aggressione, accompagnata dalla sottrazione dei ferri del mestiere: un giubbotto con la scritta “giornalista della CSUTCB”, il registratore e il quadernetto degli appunti.

La vicenda va del resto collocata nel quadro della vera e propria caccia cruenta a giornalisti, dirigenti sociali e funzionari pubblici con relativi familiari, scatenata proprio in quei giorni dalle orde fasciste che agivano e continuano ad agire in Bolivia su ispirazione dell’amministrazione Trump e con l’aperto sostegno delle Forze armate e della Polizia.

Proprio nelle ore in cui Moro viveva la conclusione della sua operosa esistenza venivano incendiati e saccheggiati in modo sistematico gli organi informativi schierati con il legittimo governo di Evo Morales.

Il direttore generale dei mezzi informativi della CSUTCB a La Paz, José Aramayo, subiva, quello stesso giorno, un tentativo di linciaggio da parte delle squadracce cui seguiva un arresto da parte della Polizia con motivazioni pretestuose. La notte del sabato in questione vari mezzi pubblici di informazione come Red Patria Nueva, Bolivia TV, Canal Abya Yala, ed altri, venivano silenziati in modo violento da forze di Polizia e paramilitari. La famiglia ha denunciato l’accaduto alla Commissione Interamericana dei diritti umani che si è occupata, fra le altre cose, dell’attacco, tuttora in corso, alla libertà d’informazione nel Paese.

Occorre far luce su ogni aspetto della morte di Sebastian Moro, portandolo quanto prima all’attenzione delle giurisdizioni competenti. Queste ultime, compresa la Corte penale internazionale, potrebbero ben presto essere chiamate a investigare su molti dei crimini commessi dai golpisti.


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