Il più grave scontro di confine degli  ultimi 45 anni tra Cina e India ha rappresentato questa settimana il culmine raggiunto finora da un conflitto che affonda le radici nelle dinamiche geo-strategiche in corso nel continente asiatico, sulla spinta delle ambizioni dei due paesi e, ancor più, delle manovre americane nel tentativo di contenimento della crescita cinese.

I venti soldati morti denunciati dal governo di Nuova Delhi e un numero imprecisato di possibili vittime tra le fila dell’Esercito del Popolo sono un bilancio pesantissimo che testimonia il livello di esplosività raggiunto dalle dispute lungo la cosiddetta “Linea Attuale di Controllo”, cioè il confine sino-indiano lungo oltre 3.500 chilometri e conteso in più punti.

La gravità di quanto accaduto nella serata di lunedì è accentuata dal fatto che le delegazioni militari dei due paesi stavano negoziando un’intesa per allentare le tensioni, riesplose da alcune settimane. Anzi, le due parti sembravano aver raggiunto un punto d’incontro, proprio poco prima degli eventi registrati nella Galwan Valley, situata nella regione himalayana del Ladakh orientale.

La contesa sarebbe avvenuta senza che sia stato sparato un colpo. I militari indiani e cinesi coinvolti si sono affrontati lanciando pietre e utilizzando bastoni. Inizialmente, i vertici delle forze armate indiane avevano parlato di tre morti, di cui due soldati e un ufficiale, ma nella serata di martedì il bilancio è stato aggiornato con altre 17 vittime, ferite in precedenza ed esposte a temperature sotto lo zero. Nonostante le tensioni alle stelle, le stesse autorità indiane sempre martedì hanno alla fine confermato che la situazione è tornata a una relativa normalità.

I due governi si sono prevedibilmente scambiati accuse reciproche circa le responsabilità dell’accaduto. Il ministero degli Esteri indiano ha spiegato che l’incidente sarebbe da ricondurre al “tentativo cinese di cambiare unilateralmente lo status quo” lungo il confine, forse attraverso la costruzione di un punto di osservazione o di qualche altra struttura militare in una zona controllata da Delhi. Per Pechino, al contrario, sarebbero stati gli indiani a “lanciare un attacco provocatorio” e a sconfinare in territorio cinese.

La vallata himalayana al centro di questi ultimi scontri era già stata motivo di contesa durante la guerra del 1962 tra Cina e India. Dai primi di maggio di quest’anno, gli attriti sono tornati a manifestarsi pericolosamente dopo un faccia a faccia tra militari di pattuglia dei due paesi nella località di Pangong Tso.

Per quanto riguarda gli ultimi sviluppi, alcune ricostruzioni ipotizzano che Pechino abbia posizionato un numero consistente di militari, equipaggiati di armamenti pesanti, in un tratto di terra a ridosso del confine dove in precedenza non c’era traccia di presenza cinese. Questa mossa sarebbe stata la risposta alla costruzione di infrastrutture da parte indiana, tra cui edifici fortificati e strade probabilmente anche in una zona di pertinenza cinese, che permetterebbero a Delhi di ottenere un vantaggio strategico cruciale nell’area contesa.

Scaramucce di varia intensità sono piuttosto frequenti, ma si risolvono quasi sempre con accordi verbali raggiunti dagli ufficiali indiani e cinesi. Prima di questa settimana, le ultime vittime indiane erano state registrate nel 1975, mentre per trovare un bilancio così grave è necessario risalire al 1967.

La diversa qualità degli eventi di lunedì renderanno difficile un ritorno senza scosse alla situazione precedente. Episodi di questo genere servono soprattutto al governo di estrema destra di Nuova Delhi per alimentare i sentimenti nazionalisti, utili al perseguimento di obiettivi strategici ben precisi, da collegare alle ambizioni da grande potenza della classe dirigente indiana e all’allineamento in atto alle posizioni anti-cinesi di Washington.

Per l’analista indiano Shishir Upadhyaya, ad ogni modo, la ragione più profonda dell’inasprimento del confronto è il riassestamento degli equilibri di potere tra le due potenze nucleari asiatiche e, in particolare, “l’espansione delle ambizioni marittime cinesi nell’oceano Indiano, in grado potenzialmente di indebolire o annullare il vantaggio strategico” di Delhi in queste acque. In conseguenza di ciò, l’India continua a partecipare a iniziative anti-cinesi, come la partnership quadrilaterale che include Stati Uniti, Giappone e Australia, alimentando ancora di più le tensioni con Pechino, col rischio di vedere esplodere pericolose crisi anche in altre aree calde del confronto.

Il ruolo americano risulta inoltre centrale in queste dinamiche. Il deterioramento del clima in Asia centro-meridionale è d’altra parte e in primo luogo la diretta conseguenza del riassetto strategico di Washington in quest’area del pianeta per contrastare la sfida cinese. Nei piani USA, l’India svolge un ruolo determinante fin dai tempi dell’amministrazione di George W. Bush.

Le élites indiane restano peraltro divise sull’opportunità di puntare interamente su Washington per promuovere i propri interessi, a fronte delle opportunità economico-commerciali prospettate dalla Cina, ma l’approdo alla guida del paese dell’attuale primo ministro, Narendra Modi, ha segnato un’accelerazione dell’allineamento con gli Stati Uniti. Ciò ha fatto per contro dell’India un elemento centrale della controffensiva cinese, con i risultati che si sono potuti osservare questa settimana lungo la linea di confine nella regione himalayana.

In questo quadro, la proposta fatta a maggio dal presidente americano Trump di mediare tra India e Cina per sbloccare lo stallo di confine non solo è stata respinta, soprattutto da Pechino, ma è stata valutata correttamente dalla leadership cinese come un nuovo tentativo di intromissione di Washington per favorire il governo di Delhi.

La lettura di Pechino degli eventi di lunedì appare particolarmente significativa. Il sito di news del governo cinese Global Times ha spiegato come l’India stia ostentando un’attitudine aggressiva sulle questione di confine in primo luogo perché “ritiene che la Cina non desideri incrinare i rapporti con Delhi per via delle crescenti pressioni strategiche degli USA”. In altri termini, la Cina tenderebbe a evitare una risposta forte alle presunte provocazioni indiane per non ritrovarsi ancora più isolata di fronte all’offensiva congiunta di Washington e Delhi.

Per la leadership cinese questa attitudine indiana è del tutto erronea, così come lo è un’altra considerazione che, sempre secondo Pechino, sarebbe alla base delle decisioni dell’amministrazione Modi nella regione di Ladakh. Vale a dire l’illusione che le forze armate indiane siano superiori a quelle cinesi, soprattutto grazie al sostegno americano, assicurato dai vari accordi in ambito militare, tecnologico e logistico sottoscritti da Delhi e Washington negli ultimi anni.

Visto il livello di rischio che comporterebbe un’escalation dello scontro, è opinione comune che Cina e India finiranno per risolvere pacificamente, almeno per il momento, la disputa di confine più recente. Le forze in gioco sono però tali da rendere estremamente improbabile una risoluzione definitiva del conflitto tra i due paesi, i cui interessi si scontrano anzi su molteplici fronti, dal Pakistan al Mar Cinese Meridionale, dalle Maldive allo Sri Lanka. Il fattore di gran lunga più esplosivo resta comunque l’inevitabile intreccio della rivalità sino-indiana con le manovre in Asia di Washington e la competizione strategica tra Stati Uniti e Cina che sta segnando sempre più il panorama internazionale degli ultimi anni.

Dopo quattro mesi di negoziati, i due partiti che si sono tradizionalmente divisi il potere nella Repubblica d’Irlanda hanno raggiunto un faticoso accordo per provare a far nascere un nuovo inedito governo con la partecipazione dei Verdi. Fianna Fáil e Fine Gael non hanno mai fatto parte di uno stesso esecutivo in tutta loro storia, nonostante gli orientamenti conservatori che accomunano entrambi. La forte crescita del Sinn Féin nelle elezioni di febbraio e la crisi scatenata dall’epidemia di Coronavirus hanno però costretto i due principali partiti irlandesi a prendere una decisione che, almeno in prospettiva, potrebbe avere effetti dirompenti sugli equilibri politici di questo paese.

Le proteste contro la brutalità della polizia negli Stati Uniti hanno preso nuovo vigore nel fine settimana in conseguenza di un altro assassinio di un americano di colore, accaduto questa volta ad Atlanta, in Georgia. Nel contempo, le dimostrazioni stanno stimolando un acceso dibattito nel paese e dando vita a svariate proposte di riforma delle forze di sicurezza. La mobilitazione popolare senza precedenti negli ultimi decenni continua tuttavia a non avere un chiaro obiettivo politico e rischia di svanire, se non sotto i colpi della repressione auspicata dall’amministrazione Trump, nelle paludi della “battaglia” esclusivamente razziale promossa dagli ambienti più o meno legati al Partito Democratico.

Già le manifestazioni che si erano allargate a macchia d’olio dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis il 25 maggio scorso avevano messo all’ordine del giorno la necessità di intervenire a livello federale e locale per limitare le violenze delle forze di polizia. Al Congresso di Washington, la maggioranza democratica nella Camera dei Rappresentanti aveva presentato un disegno di legge che, sia pure tutt’altro che radicale e con poche possibilità di essere appoggiato dai repubblicani, rappresenta un segnale di risposta della classe politica USA alle richieste provenienti dai dimostranti.

Negli ultimi giorni si sono mossi in maniera più incisiva anche sindaci, consigli comunali e governatori con azioni legislative che potrebbero ricevere un impulso dai fatti di Atlanta di venerdì scorso. In California, ad esempio, sono state proibite dal governatore democratico Gavin Newsom le manovre più estreme a cui ricorrono spesso gli agenti di polizia per immobilizzare i sospettati e che rischiano di provocare il soffocamento.

Nello stato di New York, invece, il governatore Andrew Cuomo, anch’egli democratico, ha firmato una nuova legge che proibisce questo stesso strumento a disposizione delle forze dell’ordine, mentre diventerà meno complicata la pubblicazione dei precedenti disciplinari degli agenti di polizia. A Washington, infine, il consiglio comunale ha approvato una misura per ora provvisoria che limita le protezioni di cui godono i poliziotti coinvolti in procedimenti penali.

La misura più significativa è stata registrata a Minneapolis, dove venerdì il consiglio comunale ha votato all’unanimità una risoluzione che promuove la stesura di un piano per individuare un nuovo sistema di gestione della sicurezza dopo che alcuni giorni prima era stato sciolto clamorosamente il dipartimento di Polizia della città. I membri del consiglio della metropoli del Minnesota e lo stesso sindaco democratico, Jacob Frey, hanno insistito prevedibilmente sul fattore “razziale” nel denunciare il sistema da riformare e nel prospettare quello che dovrebbe nascere.

I due argomenti preferiti che sarebbero emersi dalle proteste di queste settimane sono in effetti lo smembramento delle forze di polizia, per essere sostituite da progetti partecipativi delle varie comunità locali dai contorni non del tutto chiari, e la riduzione dei fondi destinati alla polizia così da mettere a disposizione maggiori risorse per programmi sociali. Se la prima ipotesi ha trovato pochi sostenitori negli ambienti ufficiali, ad eccezione della città di Minneapolis, la seconda risulta decisamente popolare anche tra molti politici, soprattutto democratici.

Ciò che sembra fare la differenza tra gli eventi attuali e quelli molto simili, anche se di portata minore, degli anni scorsi scaturiti da episodi di violenza delle forze di polizia è appunto il sostegno garantito alle proteste dal Partito Democratico americano, così come, entro certi limiti, da alcune grandi banche e corporations. I vertici militari, inoltre, hanno espresso più volte la loro opposizione a un intervento dell’esercito per reprimere le proteste, contraddicendo apertamente le indicazioni della Casa Bianca.

Gli stessi orientamenti sono in parte visibili a proposito della “comune” auto-gestita creata in alcuni quartieri della città di Seattle, nello stato di Washington. Il presidente Trump ha scritto un tweet minaccioso nei giorni scorsi intimando alle autorità locali di mettere fine all’esperimento, ma fino ad ora sembra esserci poco interesse a intervenire, sia da parte del sindaco sia del governatore, entrambi democratici. Questa sorta di protezione per il momento garantita agli attivisti della cosiddetta Capitol Hill Autonomous Zone (CHAZ) è dovuta in larga misura al fatto che a svolgere un ruolo di spicco in essa è il gruppo Black Lives Matter (BLM), protagonista assoluto, almeno per i media ufficiali, delle manifestazioni in atto.

Quest’ultimo fattore offre lo spunto per qualche considerazione interessante sugli attuali scenari americani. L’aspetto più importante e, probabilmente, meno confortante è che determinate forze legate al “sistema” stanno cercando di incanalare le dimostrazioni contro la brutalità della Polizia USA verso un epilogo inoffensivo, principalmente attraverso iniziative di legge o proposte di “riforma” in larga misura di facciata.

Simili sforzi sono da ricondurre al Partito Democratico e a organizzazioni della società civile che a esso fanno riferimento, come la stessa Black Lives Matter. In questo senso, il tentativo di cavalcare le proteste serve anche a proseguire la lotta contro l’amministrazione Trump, dopo i fallimenti del “Russiagate” e del procedimento di impeachment, in modo da trasformare la mobilitazione in corso in uno strumento elettorale per portare Joe Biden alla Casa Bianca.

La genuinità degli scrupoli del Partito Democratico per la battaglia contro i metodi violenti della polizia è facilmente immaginabile se si pensa che, durante i due mandati di Obama alla Casa Bianca e con una maggioranza democratica al Congresso, le forze dell’ordine negli Stati Uniti hanno ucciso in media più di mille persone ogni anno. Allo stesso tempo, l’ultima amministrazione democratica guidata da un presidente di colore aveva rafforzato i programmi che prevedono il trasferimento di equipaggiamenti militari ai dipartimenti di polizia americani e quasi sempre preso le parti degli agenti accusati di omicidi e violenze nelle rare occasioni in cui questi ultimi erano oggetto di incriminazioni.

Questa realtà è confermata dal fatto che Black Lives Matter è un prodotto dell’establishment liberal e attinge da contributi non esattamente disinteressati di entità riconducibili a Wall Street o ad altri grandi interessi economici legati al sistema di potere, come la Ford Foundation. L’obiettivo è quello di evitare una mobilitazione unitaria contro il sistema e le forze di Polizia come strumento della classe che detiene il potere negli Stati Uniti. Analizzando i dati, d’altra parte, emerge come gli afro-americani siano proporzionalmente la minoranza che registra il maggior numero di morti per mano della polizia, ma in senso assoluto sono i bianchi le vittime più numerose. Anche alle manifestazioni, secondo alcune indagini, sarebbero sempre i bianchi a partecipare in numero più consistente.

A far parte e a trovare interesse nelle manifestazioni allargatesi in fretta in queste settimane sono quindi, come minimo, centinaia di migliaia di americani delle classi più oppresse e senza distinzione di razza, finalmente in grado di intravedere un’alternativa al vicolo cieco di una politica bloccata e dai caratteri oligarchici.

La vera sfida non sembra essere perciò tanto o non solo tra i dimostranti e le autorità, quanto tra la massa scesa nelle strade di centinaia di città americane, che nutre speranze di cambiamento soprattutto in ambito economico e sociale, e quei gruppi organizzati che perseguono un disegno politico limitatissimo e riconducibile ai soli termini razziali del problema.

Gli eventi di questi giorni segnano in ogni caso una salutare inversione di tendenza rispetto alla deriva reazionaria che ha segnato il clima politico americano degli ultimi decenni. Il predominio di ambienti che rappresentano solo un’altra faccia della classe dirigente rischia tuttavia di neutralizzare il potenziale rivoluzionario o, per lo meno, le speranze di cambiamento in senso progressista e di favorire un colpo di mano delle forze di estrema destra, fomentate ogni singolo giorno dal presidente Trump e dalla sua amministrazione.

Il progetto del governo conservatore di Boris Johnson per fare del Regno Unito post-Brexit una potenza in grado di muoversi in maniera indipendente ed esclusivamente secondo i propri interessi sugli scenari internazionali continua a dover fare i conti con una serie di ostacoli e complicazioni che rischiano di aprire più di un fronte di crisi sul piano interno. La questione più calda a questo proposito riguarda i rapporti con la Cina, da qualche tempo in fase calante sulla spinta delle pressioni provenienti da Washington.

Hong Kong e Huawei sono in questo frangente le ragioni principali delle frizioni crescenti tra Regno Unito e Cina, non a caso le stesse, assieme alla gestione dell’epidemia di Coronavirus, su cui si concentra l’offensiva contro Pechino dell’amministrazione Trump. Quello a cui si sta assistendo è d’altra parte l’approdo del governo di Londra sulle posizioni degli Stati Uniti in merito alla Cina, anche se il processo in atto continua a essere fonte di conflitto tra la classe dirigente d’oltremanica.

Ai tempi del governo di David Cameron, le relazioni tra il Regno Unito e la Cina sembravano avere imboccato una parabola ascendente, come dimostrava tra l’altro la partecipazione di Londra nel 2015 alla fondazione della Banca internazionale di investimenti (“Asian Infrastructure Investment Bank”) promossa da Pechino, nonostante l’opposizione degli USA. Il raffreddamento delle relazioni sarebbe seguito a breve, ma la leadership di Theresa May era stata comunque segnata solo in maniera relativa da ripensamenti e passi indietro, come l’aggiunta di alcune restrizioni a un accordo per la costruzione di nuove centrali nucleari in territorio britannico con tecnologia cinese.

L’accelerazione impressa da Johnson è coincisa alla fine con l’intensificarsi della rivalità tra Stati Uniti e Cina, manifestandosi con iniziative recenti difficilmente equivocabili. Dopo l’approvazione da parte dell’organo legislativo cinese di una controversa legge sull’ordine pubblico e la “sicurezza nazionale” per il territorio autonomo di Hong Kong, Johnson si è subito allineato alle durissime critiche di Washington, per poi avanzare l’ultra-provocatoria proposta di offrire la cittadinanza britannica a tre milioni di abitanti della ex colonia.

La presa di posizione del premier conservatore anticipa l’appoggio di Londra alle sanzioni che la Casa Bianca intende imporre ai leader cinesi coinvolti nella stesura e nell’applicazione della nuova legge per Hong Kong. L’aspetto più interessante è legato comunque al fatto che l’intransigenza ostentata dal Regno Unito rischia di essere controproducente e di avere pesanti ripercussioni economiche, come ha fatto subito notare lo stesso governo di Pechino. In linea di massima, tutte le decisioni prese e prospettate da Londra riguardo i rapporti con la seconda potenza economica del pianeta potrebbero avere implicazioni di questo genere e provocare la rottura di quell’intreccio di interessi che da qualche anno ha fatto del Regno Unito la prima destinazione degli investimenti cinesi in Europa.

Le contraddizioni sono forse ancora più evidenti nel caso di Huawei e del lancio della rete 5G. Il contributo del colosso cinese delle telecomunicazioni in questo ambito è al momento cruciale per il Regno Unito, ma anche qui delle forze formidabili, guidate principalmente da Washington, hanno innescato un evidente ripensamento. Già a gennaio, il governo Johnson si era parzialmente piegato alle pressioni, classificando Huawei come fornitore “ad alto rischio” per il 5G. La compagnia di Shenzhen aveva visto così ridursi la propria partecipazione alla rete di nuova generazione in Gran Bretagna ed esclusa dai settori più delicati dal punto di vista strategico.

Queste concessioni agli ambienti anti-cinesi più radicali hanno tuttavia incoraggiato le richieste di un’esclusione tout court di Huawei, non solo dai progetti 5G ma da tutto il sistema britannico delle telecomunicazioni. Alcuni parlamentari conservatori hanno minacciato un’aperta rivolta se il governo non fisserà a breve una data vincolante per la rinuncia alla strumentazione di Huawei utilizzata nell’intera rete di comunicazione del Regno Unito. Simili richieste sono quasi sempre espresse con isterici toni anti-comunisti e feroci denunce rivolte alla Cina relativamente a pratiche anti-democratiche e violazioni dei diritti umani, in molti casi più adatte a definire il comportamento del governo di Londra che non quello di Pechino.

La ragione pratica dello stop alla partecipazione di Huawei al lancio della rete 5G sarebbe il possibile accesso della compagnia cinese a informazioni e strutture sensibili o collegabili alla sicurezza nazionale del Regno Unito. Le stesse autorità americane caratterizzano in questo modo i rischi che correrebbero i propri alleati nell’affidare lo sviluppo del 5G a Huawei, poiché a loro dire questa compagnia sarebbe in qualche modo controllata dal governo di Pechino o comunque vincolata alle direttive dei vertici della Repubblica Popolare.

In realtà, la guerra contro Huawei, oltre a tradire le ansie degli Stati Uniti per il primato tecnologico di Pechino nella rete di nuova generazione, nasconde il timore che la macchina della sorveglianza globale americana perda buona parte delle proprie capacità di penetrazione nelle reti dei paesi, compresi quelli alleati, che utilizzano apparecchiature cinesi.

Il governo di Londra starebbe così sondando il terreno per reperire fornitori alternativi a Huawei, come le scandinave Ericsson e Nokia o la sudcoreana Samsung. La stampa britannica ha anche parlato di progetti promossi da commissioni del parlamento per identificare e promuovere produzioni domestiche di equipaggiamenti da utilizzare nel settore delle telecomunicazioni.

La strada che va in questa direzione è però tutta in salita e comporta un possibile pericoloso ritardo nell’implementazione di una rete che risulterà determinante in molti settori. Per questa ragione, non sono poche le voci che mettono in guardia il governo Johnson da scelte estreme per assecondare le pressioni americane. I vertici di Vodafone, ad esempio, questa settimana hanno avvertito che “la leadership britannica nell’ambito del 5G andrà persa se gli operatori di telefonia mobile fossero costretti a spendere tempo e denaro per sostituire le apparecchiature esistenti”, fornite da Huawei.

L’impegno che implicherebbe uno stravolgimento delle infrastrutture della rete britannica è ritenuto eccessivo e insostenibile da molti in Gran Bretagna e a questi settori più cauti dell’economia e della politica fanno riferimento coloro che hanno minimizzato i rischi di una presenza importante di Huawei nella realtà del 5G d’oltremanica. Di estremo rilievo in questo senso è stato un recente intervento del direttore del GCHQ (“Government Communications Headquarters”), cioè l’agenzia governativa che si occupa di sorvegliare le comunicazioni elettroniche e che corrisponde alla NSA americana.

Jeremy Fleming ha affermato in sostanza che l’affidamento a Huawei del controllo di una parte determinante della rete 5G non rappresenterebbe un rischio per il suo paese, per poi respingere gli allarmi arrivati nelle ultime settimane per la sicurezza dei cosiddetti “Cinque Occhi”, l’alleanza informale tra Regno Unito, USA, Canada, Australia e Nuova Zelanda che prevede lo scambio di informazioni relative alle comunicazioni elettroniche. La presa di posizione del numero uno del GCHQ era arrivata in risposta al rapporto di un “think tank” britannico che invitava appunto i governi dei “Cinque Occhi” a ridurre la propria dipendenza dalla Cina per equipaggiamenti destinati alle infrastrutture più critiche per la sicurezza nazionale.

Le opzioni di fronte a Boris Johnson e al suo governo appaiono dunque problematiche, anche perché implicano un ridimensionamento delle ambizioni per il futuro del Regno Unito. A ben vedere, il complicarsi delle prospettive di Londra, una volta finalizzata la Brexit, è dovuto alle contraddizioni insite nel progetto politico di quanti si sono battuti per l’uscita dall’Unione Europea.

La speranza era quella di liberarsi dai vincoli di Bruxelles, in modo da avere mano libera nel raggiungimento di accordi di libero scambio con qualsiasi paese, a cominciare dalla Cina, e nel rafforzare la partnership a tutto campo con gli Stati Uniti. Queste dinamiche avrebbero dovuto sia compensare la perdita di una parte del mercato europeo sia agire da leva per ottenere un accordo post-Brexit più vantaggioso con l’UE. Queste manovre si sono tuttavia scontrate con una realtà globale sempre più segnata dalla rivalità tra Washington e Pechino, che sta rendendo di fatto impossibile per Londra, così come per molti altri paesi alleati degli Stati Uniti, mantenere un atteggiamento equidistante tra le due potenze.

Costretto a fare una scelta, il primo ministro britannico ha finito per muoversi cautamente contro la Cina. Ma, alla luce del clima venutosi ormai a creare, le pressioni da destra per intensificare le politiche anti-cinesi si sono moltiplicate e, inevitabilmente, sono iniziate ad arrivare anche le reazioni di Pechino. Il risultato potrebbe essere così l’aggravarsi della crisi politica e dell’isolamento internazionale del Regno Unito, costretto a rinunciare al miraggio di un futuro da grande potenza strategicamente indipendente e a dover scegliere invece tra la partnership con i padroni di Washington e le opportunità economiche e commerciali offerte dalla Cina.

Le storiche immagini che nel 2018 e per pochi mesi nel 2019 sembravano prefigurare un disgelo definitivo tra la Corea del Nord e i suoi nemici appaiono sempre più come un lontano ricordo che sembra testimoniare di un processo diplomatico ormai sull’orlo del baratro. Non solo i negoziati tra Pyongyang e Washington continuano a rimanere ingolfati, ma anche il più promettente dialogo tra le due Coree rischia di vedere crollare tutti i progressi degli ultimi mesi, come dimostra il ritorno proprio in questi giorni a una retorica bellicosa da parte del regime di Kim Jong-un.

La Corea del Nord ha fatto sapere martedì che intende “tagliare tutte le linee di comunicazione” con il Sud in conseguenza dell’incapacità del governo alleato degli Stati Uniti di impedire le attività propagandistiche degli esuli nordcoreani. Lungo il 38esimo parallelo, la tensione era tornata a salire la scorsa settimana, quando gruppi di rifugiati dalla Nordcorea avevano ripreso il lancio di palloni con volantini di propaganda anti-regime dalle zone di confine, nonostante il governo di Seoul scoraggi ufficialmente questo genere di iniziative.

Pyongyang considera questi gesti come un’aperta provocazione e da svariati giorni esprime durissime proteste contro la Corea del Sud, per non parlare dei feroci insulti rivolti contro gli attivisti nordcoreani fuggiti oltreconfine. Il governo sudcoreano del presidente Moon Jae-in ha chiesto lo stop a queste attività e il partito di maggioranza ha presentato in parlamento una proposta di legge per vietare il lancio di materiale propagandistico in Corea del Nord.

A livello politico, l’opposizione sudcoreana ha però tutto l’interesse a boicottare il processo diplomatico e, comunque, i tentativi del governo di abbassare le tensioni non hanno prodotto effetti significativi. Secondo un annuncio fatto dall’agenzia di stampa ufficiale KCNA, la Corea del Nord ha così “raggiunto la conclusione che è inutile discutere faccia a faccia con le autorità sudcoreane”, non essendoci motivo di parlare con un governo che “ha soltanto alimentato il disappunto” del regime.

La già citata sospensione delle “linee di comunicazione” con Seoul fa riferimento a una serie di iniziative concordate tra i due paesi nel corso dei negoziati inter-coreani degli ultimi due anni, culminati negli incontri tra i rispettivi leader e, in particolare, nella visita del presidente sudcoreano Moon a Pyongyang nel settembre del 2018.

La decisione resa nota martedì sarebbe il frutto di un vertice tra i responsabili della gestione dei rapporti con il Sud, a cui hanno preso parte, tra gli altri, la sorella del “leader supremo”, Kim Yo-jong, e il vice-presidente del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori, Kim Yong-chol. A fare le spese dell’escalation in corso sono anche la linea telefonica diretta tra i vertici del partito unico nordcoreano e l’ufficio del presidente sudcoreano, così come la “linea di contatto” creata lungo il confine e quella che coinvolge i militari dei due paesi.

L’irritazione di Pyongyang e la natura potenzialmente preoccupante dei provvedimenti risultano evidenti dalla definizione utilizzata per la Corea del Sud. L’organo di stampa nordcoreano ha avvertito cioè che l’attitudine nei confronti di Seoul diventerà quella più adeguata ad affrontare un “nemico” e per implementare “questa transizione” saranno discussi e adottati dei “piani graduali”.

La rabbia di Kim deriva in primo luogo dal fatto che gli accordi firmati con Moon nell’aprile del 2018 e nel settembre dello stesso anno per favorire il disgelo includevano la promessa di Seoul di mettere fine ad attività provocatorie proprio come l’invio di materiale propagandistico contro il regime dalle aree di confine. Come già accaduto in relazione ai colloqui con gli Stati Uniti, Pyongyang esprime un profondo risentimento per quello che ritiene essere, per molti versi correttamente, un mancato rispetto degli impegni presi dalla controparte, nonostante le aperture e le concessioni che il regime avrebbe invece fatto.

Su un piano più generale, il deteriorarsi delle relazioni tra le due Coree è il riflesso dello stallo prolungato dei colloqui di pace tra Pyongyang e Washington. Gli sforzi del presidente sudcoreano Moon per promuovere la distensione con Kim e innescare in questo modo una qualche scintilla in grado di portare a progressi concreti tra Corea del Nord e Stati Uniti sono in larga misura naufragati. L’incapacità di superare le costrizioni dell’alleanza con Washington e limitazioni oggettive alla propria libertà di azione hanno in sostanza finito col paralizzare anche il dialogo tra Seoul e Pyongyang, per quanto ben avviato sembrava essere solo fino a qualche mese fa.

La leadership nordcoreana ha preso così atto del progressivo riallineamento di Moon alle posizioni intransigenti americane, che vorrebbero una denuclearizzazione del regime come condizione preliminare a qualsiasi accordo di pace o concessione significativa. Il governo della Corea del Sud è rimasto intrappolato in una situazione con poche o nessuna via d’uscita diplomatica, subendo le conseguenze delle frustrazioni di Kim, a sua volta costretto a prendere atto del fallimento del tentativo di fare pressioni su Seoul per arrivare al vero obiettivo delle manovre in atto, vale a dire un trattato di pace con Washington che possa garantire la sopravvivenza del regime.

Il venir meno dell’impulso alla pacificazione a Seoul è da ricondurre almeno in parte anche agli effetti sull’economia dell’emergenza Coronavirus. L’inevitabile rallentamento del motore sudcoreano ha fatto schizzare i livelli di disoccupazione e minacciato di riaccendere le tensioni sociali, traducendosi in un incupimento del clima domestico che ha spento gli entusiasmi per una possibile riconciliazione con Pyongyang.

Se l’atmosfera generale appare dunque grigia e per nulla promettente, è come al solito difficile valutare le sfumature tattiche delle decisioni nordcoreane, quanto meno in rapporto alle azioni che saranno messe in atto nell’immediato. Minacce e iniziative apparentemente clamorose non sono una novità per Kim e i suoi predecessori, spesso con poche altre carte a disposizione per esercitare pressioni o semplicemente per mandare messaggi ai propri nemici. Non è da escludere perciò, come ha sostenuto più di un osservatore ricordando episodi del recente passato, che le misure appena decise potranno essere ritirate se arrivassero risposte positive da Seoul.

Il destino della penisola di Corea e le prospettive di pace dipendono in ogni caso e in gran parte non dalle scelte di Seoul e Pyongyang, ma da quelle che verranno fatte a Washington. Gli Stati Uniti, tuttavia, continuano a non avere un piano coerente e percorribile per la Corea del Nord, restando imprigionati in un “gioco a somma zero” che vede il regime di Kim solo come un’altra arma da usare contro la Cina e da tenere irrealisticamente fuori dai processi di integrazione che stanno attraversando il continente asiatico.


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