Quella che si è aperta lunedì a Charlotte, in North Carolina, con la nomina ufficiale di Donald Trump a un secondo mandato alla guida degli Stati Uniti è una convention repubblicana quasi del tutto inedita. Le ragioni non dipendono solo dalla ridottissima presenza di partecipanti in loco per via dell’emergenza Coronavirus, ma anche e soprattutto dallo spazio che stanno trovando e troveranno fino a giovedì le posizioni ultra-reazionarie, se non apertamente fasciste, dei partecipanti, a cominciare dal presidente in carica.

Facendo seguito alle pressanti richieste della Cancelliera Merkel, é giunto in Germania,  inscatolato come fosse una barra di plutonio, il blogger antiputiniano Naval’nyj. La prima constatazione è che, a differenza di quanto affermato dalla sua portavoce, non risulta essere in pericolo di vita. L’ oppositore di Putin si trova quindi ora nel paese che, con teutonico tempismo, aveva già richiesto a Mosca di poterlo curare quando la notizia circa il suo ipotetico avvelenamento non era ancora stata confermata. Lo scopo del trasbordo in Germania del presunto avvelenato era però funzionale all’operazione di propaganda occidentale: stabilire che Naval’nyj è un oppositore di Putin; che questo gli sia costato il tentativo di assassinarlo; che sia stato Putin a ordinarlo.

Definire Naval’nyj “oppositore di Putin” appare però una esagerazione della propaganda antirussa. Il blogger, che pure non fa mistero delle sue critiche al Cremlino, sebbene abbia manifestato decisamente la volontà di scendere in politica, nella realtà non è mai riuscito nemmeno a raccogliere le firme per presentare una sua lista. Eppure, Stefen Sieber, portavoce della Cancelliera Merkel, chiede che le autorità russe “chiariscano questi fatti approfonditamente, alla luce del ruolo rilevante che ricopre nell’opposizione russa”. Strano che chi non gode di nessuno spazio politico diventi d’improvviso “figura rilevante dell’opposizione” e, ancor più buffo, che il paese che suicida in carcere i suoi prigionieri politici chieda ad altri di rispettare gli oppositori. Allo scarso senso delle proporzioni nel suggerire surrettiziamente un pari livello tra Naval’nyj e Putin, si aggiunge un ancor più marcato sprezzo del ridicolo nell’assegnare al blogger  il ruolo di “figura rilevante dell’opposizione”.

A Berlino non si dubita che il blogger sia stato avvelenato. Per analisi e perizie mediche? No, politiche. Infatti, senza esibire nessuna documentazione che conforti la tesi dell’avvelenamento e che smentisca le autorità sanitarie russe (che lo avevano escluso dopo avergli effettuato le analisi del sangue) si assicura che Naval’nyj è stato avvelenato. Con cosa? La sostanza non si conosce, dicono i medici della clinica universitaria berlinese, che però sono certi si tratti di “un agente nervino, visto che è stato già usato in passato contro uomini invisi a Putin”. Così ci informa La Repubblica, offrendo un mix straordinario di inchiesta giornalistica e perizia medica all’altezza della sua fama.

Dunque lo schema è il seguente: visto che il colpevole deve risultare Putin, Naval’nyj deve essere stato avvelenato. Perché con il veleno? Perché da anni si spaccia la Russia come avvelenatore di oppositori in Europa e dunque la storia deve avere una sua coerenza con quelle passate. Domanda: ma se Putin avesse voluto disfarsi del blogger, non poteva colpirlo in modo diverso, così da sviare l’attenzione sul Cremlino? Ci sono mille modi per eliminare qualcuno senza che si possano individuare i colpevoli o risalire ai mandanti. Risposta: certo, ma da Berlino si insiste sul binomio veleno-FSB, perché la modalità deve risultare fortemente collegabile ai precedenti presunti avvelenamenti, altrimenti tutta la costruzione politico-propagandistica diventa inutile.

Sono infatti diverse le analogie di questa storia con altre operazioni organizzate dai servizi segreti britannici e tedeschi ed addebitate ai russi, come ad esempio quella della presunta morte per avvelenamento dell’ex agente del FSB, Serghej Skripal, avvenuta nel 2018 a Londra. Nell’occasione, l’imbastitura della vicenda fu del britannico MI-6, infastidito seriamente dal fatto che l’ex agente russo avesse dapprima riparato a Londra e poi, dopo essere diventato un collaboratore proprio del MI-6, attraverso la figlia avesse ripreso i rapporti con la Russia. La figlia, peraltro, godeva di libertà assoluta di andare e venire da Mosca, il che difficilmente viene permesso a persone sospettate di intelligenza con il nemico; nemmeno se fanno parte dell’entourage di un agente ostile viene permessa loro libertà di movimento interno al paese, meno che mai di espatrio e rimpatrio. Della vera sorte di Skripal si sa poco, ma gli spioni di sua maestà coprirono al meglio la verità dei fatti sostituendola con la versione propagandistica politica degli stessi.

Nel caso di Naval’nyj al momento ci si trova dinnanzi a due tesi contrapposte: quella dei medici russi, che hanno assicurato sull’assenza di sostanze velenose nel sangue e che hanno autorizzato il trasferimento in Germania, e quella dei medici tedeschi che invece - pur senza rivelare quali sostanze sarebbero state utilizzate dai sicari - si dicono certi che Navalnyj sia stato avvelenato.

Come tentare di far luce? Per antica consuetudine, quando ci si trova di fronte ad intrighi internazionali, la strada dei soldi e quella del cui prodest restano autostrade maestre per chi vuole scavare oltre le verità di comodo. Sarebbe bene dunque provare a leggere con queste logiche anche la storia di Naval’nyj, e allora non si può fare a meno di chiedersi chi e che cosa guadagnano da questa finta spy-story i diversi protagonisti, a meno di ritenere corretta la caricatura dell’Occidente democratico e dell’orso russo plutocratico. Sarebbe un pregiudizio senza orgoglio.

Nessuno confonde Vladimir Putin con le dame di San Vincenzo e meno che mai si scambia il FSB con una congrega di missionari. Ma perché il Presidente russo, da tutto l’Occidente definito come dittatore spietato, potentissimo e senza scrupoli, che tiene completamente in mano il suo immenso paese, sarebbe impensierito da tal Naval’nyj? Non si vede come mai Vladimir Putin avrebbe dovuto uccidere Naval’nyj, il cui peso politico è del tutto ininfluente in Russia. Perché questo “oppositore” sarebbe divenuto così pericoloso per il Cremlino al punto di doverlo eliminare? Per quale motivo avrebbe dovuto temere un blogger a cui solo i servizi e le ambasciate europee a Mosca prestano attenzione? E perché si sarebbe proceduto all’eliminazione con una modalità simile a quella che i servizi occidentali identificano con il modus operandi dei servizi segreti russi? Quasi a voler lasciare una carta d’identità, insomma.

Si possono indicare limiti e difetti nell’agire dei Servizi Segreti civili e militari russi, ma tra questi non figurano stupidaggine ed autolesionismo. Anzi, abbondano semmai intuito politico e capacità di muoversi negli scacchieri più difficili e complessi.

Sempre utilizzando l’analisi del cui prodest appare poi strano che una simile iniziativa, destinata a creare un ulteriore scontro con la UE, avvenga proprio nel momento in cui Bruxelles è impegnata allo spasimo nel tentativo di colpo di Stato in Bielorussia, che per ragioni geografiche e geopolitiche è strettamente connessa alla sicurezza russa. Addirittura suicida politicamente da parte di Mosca sarebbe ritenere che non diventi una ulteriore arma per i sobillatori di Minsk ed una ottima scusa per altre nuove sanzioni  economiche contro Mosca.

E allora, di colpo a Mosca tutti scemi? Insomma, sono diversi gli interrogativi che oggettivamente si pongono e i dubbi che in ogni spy-story emergono: sicuri che dietro questa operazione ci sia la Russia? Che in questa spy-story Mosca sia il carnefice e non la vittima? Vedremo gli sviluppi delle prossime ore e le conseguenze politiche che produrrà al netto delle verità dimostrabili o solo enunciabili. La sensazione di trappola politica si vede da lontano e da vicino. A condizione di togliersi il paraocchi.  

La crisi che sta vivendo la Bielorussia a partire dalle controverse elezioni del 9 agosto scorso sembra essere sempre più vicina a sfuggire di mano al presidente, Alexander Lukashenko. Le frustrazioni diffuse tra la popolazione del paese dell’ex URSS appaiono più che legittime e in grado di mobilitare, in maniera cruciale, ampie fasce di lavoratori dell’industria locale, in gran parte ancora in mano pubblica. Il controllo delle proteste, tuttavia, è stato quasi subito assunto dall’opposizione anti-russa e filo-occidentale, facendo dello stallo in corso un nuovo terreno di confronto sul piano strategico tra Mosca, da una parte, e l’Occidente e gli alleati dell’Europa orientale dall’altra.

Nel fine settimana, un’altra massiccia manifestazione è andata in scena nella capitale bielorussa, Minsk, dove i dimostranti che chiedono le dimissioni di Lukashenko e nuove elezioni sono arrivati fino alla residenza ufficiale del presidente, in carica da oltre un quarto di secolo. Secondo una stima della Reuters, domenica i manifestanti potevano essere fino a 200 mila, mentre per la televisione pubblica bielorussa appena 20 mila.

La scelta della candidata alla vice-presidenza da parte di Joe Biden è ricaduta prevedibilmente su una delle principali personalità politiche di colore del Partito Democratico. Con la senatrice della California, Kamala Harris, l’ex vice di Obama ha sostanzialmente confermato le due direttive lungo le quali si svilupperà la sua campagna per cercare di battere Trump da qui a novembre: rimettere al centro dell’azione politica gli interessi del “Deep State” minacciato dall’attuale amministrazione e promuovere politiche identitarie e razziali per dare una patina di finto progressismo alla candidatura del “ticket” democratico.

55 anni con padre giamaicano e madre Tamil, Kamala Harris era stata fino alla fine del 2019 essa stessa una dei candidati alla nomination del Partito Democratico, ostentando spesso feroci attacchi verbali contro Joe Biden. Nella sua carriera politica e in quella ancora più lunga da procuratore nel suo stato di origine non vi è nulla di realmente progressista, se non occasionalmente nella retorica. Ciononostante, il solo fatto di appartenere a una minoranza etnica rappresenterebbe per i democratici e i media ufficiali a essi vicini un evento di portata storica e potenzialmente in grado di aprire un percorso riformista per la società USA.

La scelta della senatrice Harris ha in parte a che fare con le dinamiche elettorali all’interno del Partito Democratico, ancora una volta da collegare all’autentica ossessione per il fattore razziale degli ambienti “liberal” d’oltreoceano. Dopo le prime pesantissime sconfitte nelle primarie a inizio anno, Biden era riuscito a rimettere in piedi la propria campagna per la Casa Bianca e a fermare la corsa di Bernie Sanders grazie soprattutto alla mobilitazione dell’establishment democratico di colore. L’ex vice-presidente aveva così conquistato la South Carolina con il contributo decisivo dell’elettorato afro-americano, verso cui la selezione nella giornata di martedì di Kamala Harris è un evidente segnale per ottenerne l’appoggio anche a novembre.

Ancora di più, come accennato in precedenza, la presenza della senatrice californiana nel “ticket” democratico serve a fare appello a quella fetta di potenziali elettori democratici della classe media più sensibili alle questioni di identità razziale che di classe. Inoltre, la candidatura di una donna di colore, cioè una novità assoluta per gli Stati Uniti, strizza l’occhio a coloro che sono scesi nelle strade di centinaia di città americane dopo l’omicidio di George Floyd nel mese di maggio per protestare contro la brutalità della polizia.

Per l’età e le precarie condizioni soprattutto di salute mentale del candidato democratico alla Casa Bianca, nella prossima amministrazione la Harris potrebbe finire per ricoprire un ruolo decisamente più rilevante rispetto a quello solitamente riservato al vice-presidente. La carica per cui sarà candidata potrebbe poi con ogni probabilità servire come trampolino di lancio per una corsa alla presidenza tra quattro o otto anni, portando a compimento una transizione “moderata” nella leadership democratica, tuttora in mano a una vera e propria gerontocrazia.

Al di là delle apparenze, la traiettoria politica di Kamala Harris è perfettamente in linea con quella del 77enne Joe Biden, di fatto uno dei politici democratici con il curriculum più reazionario degli ultimi quattro decenni. La Harris è una frequentatrice degli ambienti di potere più esclusivi della California settentrionale, dove aveva iniziato a farsi largo nei primi anni Novanta del secolo scorso. Anche grazie al suo matrimonio con il noto avvocato di corporations e dell’industria dell’intrattenimento di Hollywood, Douglas Emhoff, la candidata democratica è posizionata inoltre saldamente tra lo 0,1% degli americani più facoltosi.

Prima come vice-procuratore distrettuale della contea di Alameda, che include la metropoli di Oakland nella “Bay Area”, e poi procuratore a San Francisco, la futura senatrice si è sempre distinta per la difesa di iniziative “law and order”. Nel 2004 si candidò con successo per diventare procuratore generale della California, conducendo una campagna multi-milionaria contro il detentore della carica, Terence Hallinan, notoriamente collegato agli ambienti radicali e del sindacato dello stato.

Il sostegno del business e degli ambienti ufficiali del potere democratico in California, incluse le potenti donne che siedono o sedevano al Congresso di Washington (Nancy Pelosi, Dianne Feinstein, Barbara Boxer), è stato decisivo nell’ascesa politica della neo-candidata alla vice-presidenza. Nel 2016 arrivò così il seggio al Senato degli Stati Uniti e i leader del partito, sempre nell’ottica della promozione di politiche identitarie, le assegnarono posizioni di rilievo in commissioni importanti, solitamente off-limits per i neo-eletti.

L’insistenza sul rilievo della scelta di una donna di colore come “running mate” serve anche a far parlare il meno possibile dei precedenti di Kamala Harris nel suo ruolo di procuratrice in California. Durante il suo mandato a San Francisco, il tasso di condanne salì in modo vertiginoso ed è ampiamente documentato il suo frequente ricorso a metodi moralmente discutibili e dalla dubbia legalità per prevalere in aula. Nel 2012, ad esempio, un tribunale californiano sentenziò che l’ufficio del procuratore, diretto da Kamala Harris, aveva violato ripetutamente i diritti degli imputati, tenendo nascoste informazioni cruciali sulla condotta di un laboratorio della polizia scientifica coinvolto in casi di corruzione e di falsificazione dei rapporti stilati per numerosi processi.

Da procuratore generale della California, infine, la Harris ha proseguito la sua battaglia contro i diritti degli accusati e in difesa dell’apparato giudiziario e del sistema ultra-vendicativo dello stato. La senatrice si era schierata ad esempio contro le sentenze di condanna del regime carcerario californiano, tristemente noto per il sovraffollamento e gli abusi inflitti ai detenuti. Stessa posizione critica la Harris avrebbe tenuto anche nei confronti di un verdetto di un tribunale distrettuale che aveva dichiarato sostanzialmente anticostituzionale la legge dello stato sulla pena di morte.

In generale, la scelta di Kamala Harris costituisce una garanzia per i grandi interessi difesi dal Partito Democratico che un’eventuale presidenza Biden metterà da parte in fretta gli eccessi e gli elementi destabilizzanti, soprattutto sul piano internazionale, che hanno caratterizzato la presidenza Trump. In parallelo, l’enfasi sul genere e sull’appartenenza razziale della possibile vice-presidente sarà l’elemento centrale, assieme al patetico allineamento della “sinistra” del partito rappresentata da Bernie Sanders, per contenere le tensioni che minacciano un’autentica esplosione sociale in un paese dalle disuguaglianze gigantesche e in profonda crisi economica.

A questo proposito, la Harris risulterà utile anche per agitare alcune proposte entrate nella piattaforma programmatica del Partito Democratico dal vago orientamento progressista. Proprio per ritagliarsi uno spazio nelle affollate primarie del partito, la senatrice della California nel 2019 aveva appoggiato qualche iniziativa avanzata dai candidati più a “sinistra”, come Sanders e Elizabeth Warren, sia pure quasi sempre in una versione più moderata.

Il sostegno alla creazione di un piano sanitario pubblico da affiancare alle assicurazioni private o l’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora ne sono un esempio, anche se entrambi inadeguati a risolvere due dei problemi più gravi della società USA e, oltretutto, con poca o nessuna possibilità di essere adottati anche in caso di un successo a valanga dei democratici nelle elezioni di novembre.

La candidatura di Kamala Harris, così come quella di Joe Biden, verrà formalizzata nel corso della convention che il Partito Democratico terrà in gran parte in maniera virtuale a partire da lunedì prossimo a Milwaukee, nello stato del Wisconsin. L’evento dovrebbe segnare anche un’accelerazione delle donazioni dei grandi finanziatori che sostengono il partito. Già nelle ultime settimane, d’altra parte, i media americani hanno dato notizia del crescente impegno soprattutto di Wall Street per Biden, a conferma che gli orientamenti della classe dirigente USA appaiono sempre più favorevoli al “ticket” presidenziale appena completato, che promette di essere tra i più reazionari della storia del Partito Democratico.

Le tremende esplosioni che hanno squarciato il porto di Beirut appaiono, man mano che i giorni passano e le parole s’intrecciano, sempre meno fatalità e sempre più volontà precisa di qualcuno. A confermare questa lettura ci sono interessi evidenti e specifiche tecniche difficili da confutare. Il racconto della fabbrica di fuochi d’artificio non ha retto; nessuno dotato di un minimo si logica e di senno installa una fabbrica di fuochi pirotecnici in un’area ad alto traffico di persone e merci. Allora,vista la scarsa credibilità di questa pista, in soccorso del depistaggio internazionale è arrivata la storia della nave ormeggiata in porto (ovviamente russa, ma solo perché non vi sono navi cinesi che operano in zona).


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