- Dettagli
- Scritto da Mario Lombardo
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
L’annuncio del riuscito lancio in orbita del primo satellite militare iraniano ha provocato questa settimana una prevedibile risposta minacciosa da parte dell’amministrazione Trump, facendo nuovamente aumentare il rischio di un disastroso conflitto armato in Medio Oriente nel pieno dell’emergenza Coronavirus. Il satellite “Noor” (“Luce”) mercoledì ha sorvolato la terra a un’altitudine di 425 km e, secondo i media della Repubblica Islamica, avrebbe inviato segnali regolarmente ricevuti dai Guardiani della Rivoluzione che hanno condotto lo storico esperimento.
Teheran aveva tentato più volte in passato un’operazione di questo genere, ma mai nessuna si era conclusa con un successo. Le stesse fonti iraniane hanno spiegato che l’operazione ha importanti implicazioni nell’ambito militare e dell’intelligence, mentre il governo USA non ha perso tempo nel far notare che la presenza di satelliti in orbita potrebbe consentire alla Repubblica Islamica di perfezionare la produzione di missili a lungo raggio, secondo Washington potenzialmente anche con testate nucleari.
La questione dello sviluppo dei missili balistici a lungo raggio è con ogni probabilità al centro dell’impegno iraniano. La retorica americana è però fuorviante, sia per quanto riguarda la presunta minaccia di un futuro attacco missilistico contro gli Stati Uniti sia nei riferimenti all’illegalità di simili test in base a quanto stabilito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nel primo caso, è evidente l’intento difensivo dei piani militari di Teheran. Per averne conferma è sufficiente scorrere le iniziative degli USA e dei loro alleati negli ultimi decenni contro questo paese oppure consultare semplicemente una mappa del Medio Oriente con il posizionamento delle basi militari statunitensi.
In merito all’ONU, Washington continua invece a citare una risoluzione del 2015 a cui anche il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha accennato nella giornata di mercoledì per ricordare il presunto bando internazionale allo sviluppo della tecnologia balistica iraniana. In realtà, come hanno fatto notare svariati esperti di diritto internazionale, il linguaggio della risoluzione non impone alcun divieto alla Repubblica Islamica, ma esprime un semplice “invito” non vincolante. Inoltre, la risoluzione citata era collegata all’implementazione dell’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 (JCPOA), da cui la stessa amministrazione Trump è uscita unilateralmente nel maggio di due anni fa.
Il vero problema americano riguardo i missili balistici iraniani è a ben vedere un altro. Se Teheran dovesse disporre in maniera definitiva di questa tecnologia militare, gli Stati Uniti vedrebbero cioè ridursi ulteriormente gli spazi per un’aggressione, visto che la risposta dell’Iran risulterebbe ancora più devastante di quella che sarebbe oggi in grado di organizzare.
Le ansie di Washington sono d’altra parte evidenti dalla replica di Trump alla notizia del lancio del satellite iraniano. Su Twitter, il presidente ha fatto sapere di avere dato ordine alla Marina militare di “distruggere” qualsiasi imbarcazione della Repubblica Islamica che intenda avvicinarsi minacciosamente alle navi da guerra americane nel Golfo Persico. Questa misura potrebbe essere la conseguenza anche dell’incidente denunciato dal governo USA settimana scorsa, quando una dozzina di mezzi navali dei Guardiani della Rivoluzione si sarebbero accostati pericolosamente a quelli americani che pattugliavano le acque del Golfo.
Il tweet di Trump è sembrato a molti l’ennesima ostentazione di forza priva di sostanza, visto che anche il Pentagono ha assicurato che le direttive militari in merito all’Iran non sono cambiate di una virgola. Una certa preoccupazione deve tuttavia circolare a Washington, a testimonianza che forse la minaccia della Casa Bianca possa essere più concreta di quanto appaia.
La deputata democratica della Virginia, nonché ex ufficiale della Marina militare, Elaine Luria, ha ad esempio criticato il presidente per il suo intervento su Twitter che, senza una chiara e definita gestione delle regole d’ingaggio, rischia di provocare “un’escalation di tensioni non necessaria con l’Iran”, se non “un conflitto aperto”. Questa presa di posizione rivela l’inquietudine di quanti all’interno dell’apparato di potere americano temono le conseguenze di un possibile conflitto con l’Iran, in primo luogo per l’impreparazione americana in un momento di grave crisi a causa dell’epidemia di COVID-19.
Dietro alle minacce della Casa Bianca potrebbe esserci in questa circostanza qualcosa di più serio se si pensa alla situazione del tutto nuova venutasi a creare sul fronte petrolifero. Un altro ex ufficiale della Marina USA, Scott Ritter, diventato commentatore e critico delle politiche dell’imperialismo americano, ha spiegato in un articolo apparso sul sito del network russo RT che il crollo delle quotazioni del greggio di queste settimane potrebbe avere cambiato del tutto il calcolo dell’amministrazione Trump.
Fino a poco tempo fa, a rendere improbabile una guerra con l’Iran era soprattutto il timore di un rialzo incontrollato del prezzo del petrolio che sarebbe seguito alla quasi certa chiusura, decisa da Teheran, dello stretto di Hormuz, da cui transita buona parte del greggio mediorientale. Oggi, al contrario, l’implosione del mercato petrolifero, seguito al quasi azzeramento della domanda internazionale a causa del lockdown economico, ha portato le quotazioni a livelli bassissimi e, addirittura, temporaneamente in territorio negativo per quanto riguarda il riferimento del barile americano (WTI).
Questa nuova realtà minaccia di mandare in fallimento l’industria estrattiva americana, fatta di moltissime compagnie fortemente indebitate e quindi bisognose di prezzi relativamente elevati. Uno shock internazionale in grado di arrestare la produzione di petrolio in Medio Oriente darebbe perciò una spinta verso l’alto alle quotazioni e, di conseguenza, una boccata d’ossigeno ai produttori negli Stati Uniti. In sostanza, spiega Ritter su RT, Trump potrebbe essere disposto a scatenare una guerra contro l’Iran per salvare l’industria petrolifera americana, il cui tracollo rischierebbe oltretutto di trascinare con sé l’intera economia USA.
Su questi possibili scenari di guerra è evidente che agiscano anche altri fattori in grado di agire da deterrente a un’aggressione americana contro la Repubblica Islamica, dalle resistenze interne allo stesso governo di Washington ai rischi di una guerra che risulterebbe lunga, dispendiosa e strategicamente tutt’altro che vantaggiosa.
È evidente però che i piani di guerra contro l’Iran siano costantemente studiati dalla Casa Bianca ed è significativo che una nuova esplosione del militarismo USA sia all’ordine del giorno in questo periodo. La crisi sociale, politica ed economica prodotta dal Coronavirus ha d’altra parte inasprito le contraddizioni che attraversano la classe dirigente americana e moltiplicato gli sforzi per dirottarne gli effetti verso l’esterno.
Non è un caso, infatti, che la devastazione in corso sul fronte domestico abbia fatto ben poco per allentare le pressioni sui nemici di Washington, come conferma, oltre all’escalation nei confronti dell’Iran, la campagna anti-cinese per attribuire a Pechino la responsabilità della pandemia, ma anche le recentissime provocazioni delle navi da guerra americane dispiegate nel Mar Cinese Meridionale o l’intensificarsi delle minacce contro il legittimo governo venezuelano del presidente Maduro.
- Dettagli
- Scritto da Mario Lombardo
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Tra l’epidemia di Coronavirus che continua a fare un numero altissimo di vittime e le pressioni per far ripartire in fretta l’economia, tutta la classe politica degli Stati Uniti è impegnata in una campagna di propaganda, amplificata dai media ufficiali, diretta ad attribuire alla Cina le principali responsabilità della crisi in atto. L’iniziativa ha uno spirito sostanzialmente bipartisan, anche se viene usata come arma politica da democratici e repubblicani, e ha due obiettivi in particolare: occultare le colpe tutte americane nella gestione del virus e alimentare la competizione strategica con Pechino nell’ottica della rivalità tra le due principali potenze del pianeta.
- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
L’emergenza Coronavirus e la crisi economica provocata dall’interruzione di molte attività industriali e commerciali si stanno traducendo in una drammatica impennata del numero di disoccupati e di lavoratori ridotti in povertà, negli Stati Uniti come altrove. Non per tutti l’ondata della pandemia ha significato però miseria e disperazione. Anzi, gli eventi delle ultime settimane sono stati un’autentica fortuna per un club molto ristretto di privilegiati, a cominciare da Jeff Bezos, fondatore e numero uno di Amazon, nonché uomo più ricco del pianeta.
La reclusione forzata di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo ha fatto schizzare gli ordini sulla più nota piattaforma di commercio on-line, fino a registrare una media di acquisti pari a circa 11 mila dollari al secondo. Questo vero e proprio boom, di cui sta beneficiando non solo Amazon, dall’inizio dell’anno ha fatto aumentare del 20% il prezzo delle azioni di una compagnia che ha oggi un valore di mercato di oltre 1.100 miliardi di dollari, praticamente uguale al PIL dell’Indonesia, cioè un paese di quasi 270 milioni di abitanti. Nello stesso arco di tempo, l’indice “S&P 500” della borsa americana ha al contrario segnato una flessione del 12%.
Per Bezos, questa nuova realtà ha significato un’aggiunta di altri 24 miliardi di dollari a una ricchezza personale che già ammontava a 138 miliardi. Altri 8,2 miliardi sono poi finiti nelle tasche della sua ex moglie, MacKenzie Scott Bezos, la quale, grazie a una quota del 4% di Amazon ottenuta dal recente accordo di separazione, può vantare un patrimonio di oltre 45 miliardi di dollari che le vale la 18esima posizione nella lista dei paperoni di Fortune.
Il successo della creatura di Jeff Bezos contrasta in modo clamoroso con il rapidissimo precipitare della situazione per la gran parte degli americani. Negli Stati Uniti, a partire dalla dichiarazione dello stato di emergenza, il numero di disoccupati ha sfondato quota 22 milioni. Amazon, al contrario, dal mese di marzo ha assunto 100 mila nuovi dipendenti e prevede di impiegarne altri 75 mila a breve per rispondere all’esplosione di ordini.
Una simile quantità di denaro, generata di fatto da un’epidemia devastante, non ha prevedibilmente cambiato il modello imprenditoriale di Amazon, basato in sostanza sullo sfruttamento di una forza lavoro sottopagata e costretta a subire regole rigidissime. Al contrario, l’impatto del Coronavirus sulle modalità di lavoro nella compagnia di Bezos ne ha accentuato le aberrazioni, mettendo i dipendenti a serio rischio di contagio.
Nei magazzini di Amazon in tutto il mondo sono state numerose le manifestazioni di protesta contro le scarse misure di sicurezza adottate per l’impatto del COVID-19. Ufficialmente, sarebbero 74 gli impianti della compagnia nei quali si sono già registrati casi di contagio, anche se, a giudicare dalle segnalazioni dei lavoratori, il numero potrebbe essere almeno il doppio. Questa settimana è circolata inoltre la notizia della prima vittima di Coronavirus, un responsabile delle operazioni, deceduto il 31 marzo scorso, nella sede di Hawthorne, in California.
I vertici di Amazon hanno licenziato solo nell’ultima settimana tre dipendenti negli Stati Uniti che avevano denunciato condizioni di sicurezza inadeguate. Le ragioni dei provvedimenti includono in tutti i casi la presunta violazione delle norme di “distanziamento sociale” all’interno degli impianti, scusa utilizzata per colpire quanti intendono coinvolgere nella mobilitazione gli altri lavoratori.
L’arricchimento clamoroso di Bezos sulla pelle di una forza lavoro esposta a seri rischi sanitari e a regole sempre più autoritarie contrasta fortemente con l’immagine pubblica che il presidente di Amazon sta cercando di proiettare in questo periodo. A fine marzo, Bezos aveva ad esempio indirizzato una lettera aperta ai propri dipendenti nella quale sosteneva che, riguardo all’emergenza, questi ultimi e i massimi vertici della compagnia erano “sulla stessa barca”.
Bezos ha anche cercato di ripulire la propria immagine con iniziative di beneficenza. In realtà, a tutt’oggi sembra che sia stata fatta da parte sua una sola donazione da 100 milioni di dollari a favore di un’organizzazione che provvede alla distribuzione di cibo. La cifra, evidentemente, rappresenta una frazione infinitesimale del suo patrimonio. D’altra parte, sempre nel mese di marzo, Bezos aveva creato un fondo di sostegno per i propri dipendenti colpiti dal Coronavirus, sollecitando addirittura donazioni pubbliche dopo avere contribuito di tasca propria con appena 25 milioni di dollari.
Il caso di Amazon e di Jeff Bezos non è ovviamente un’eccezione, bensì la regola in un sistema che sfrutta qualsiasi evento, anche il più letale come una pandemia, per dirottare verso il vertice della piramide sociale ricchezze sottratte al resto della comunità. Un folto numero di corporations e di top manager americani hanno incassato abbondantemente in queste settimane di crisi, grazie soprattutto a due fattori. Il primo è appunto lo sfruttamento di segmenti di mercato esplosi in parallelo al lockdown, come le vendite on-line, mentre l’altro è l’infusione di denaro virtualmente senza limite da parte del governo per evitare il tracollo dell’economia.
Solo nella prima settimana di aprile, i nomi più noti dell’industria e della finanza USA hanno visto così lievitare i propri patrimoni. Secondo dati compilati da Forbes, Bezos ha intascato quasi 7 miliardi di dollari, Mark Zuckerberg (Facebook) 6,2 miliardi, Warren Buffett 5 miliardi, Elon Musk (Tesla) 4,2 miliardi, Larry Ellison (Oracle) 4 miliardi, Larry Page (Google) e Bill Gates 3,6 miliardi ciascuno. Lo stesso Elon Musk dall’inizio dell’anno ha aggiunto 10 miliardi di dollari alle sue ricchezze, mentre i tre membri della famiglia Walton, proprietari del gigante della vendita al dettaglio Walmart, presente anche nel settore dell’e-commerce, si sono appropriati complessivamente di quasi 8 miliardi.
Affari d’oro stanno facendo anche le compagnie private che operano nel settore sanitario. Il fondatore della società di software per videoconferenze Zoom, Eric Yuan, ha da parte sua più che raddoppiato il suo patrimonio nell’ultimo periodo, salito a 7,4 miliardi di dollari. A 5,1 miliardi è arrivato invece Reed Hastings, “CEO” di Netflix, i cui programmi offerti in streaming stanno raggiungendo un numero enorme di persone in tutto il mondo costrette a rimanere in casa.
Altri settori ancora hanno goduto degli interventi di “salvataggio” decisi dal governo e dal Congresso di Washington. Disney, nonostante abbia momentaneamente sospeso dal lavoro oltre 40 mila dipendenti, ha visto salire del 20% il valore delle proprie azioni nel mese di marzo in seguito allo stanziamento di fondi federali che, per l’industria alberghiera e dell’intrattenimento, ammontano complessivamente a 250 miliardi di dollari.
Le compagnie aeree, tra le più penalizzate dall’emergenza in atto, hanno a loro volta ottenuto un totale di 50 miliardi tra prestiti agevolati e denaro a fondo perduto. Le condizioni imposte a queste e alle altre corporations “assistite” dal denaro pubblico sono in gran parte irrisorie e, quando anche comportano il divieto di licenziamenti, risultano soltanto provvisorie. Per quanto riguarda ancora le compagnie aeree, va ricordato che le quattro che dominano il mercato americano – American, Delta, Southwest e United – negli ultimi cinque anni avevano sprecato un totale di 45 miliardi di dollari nel pagamento di dividendi agli azionisti e nel riacquisto delle proprie azioni. Una pratica, quest’ultima, che serve principalmente a far schizzare verso l’alto il valore delle azioni di una determinata compagnia.
Nel pacchetto di salvataggio dell’economia USA, già sbilanciato a favore del business, i membri del Congresso hanno inserito infine una misura che prevede enormi sgravi fiscali per le grandi aziende, difficilmente giustificabili dai contraccolpi del COVID-19, visto che è consentito loro di detrarre le perdite registrate anche nel 2018 e nel 2019. Solo nel 2020, il bonus toccherà i 90 miliardi di dollari e arriverà a 170 in dieci anni. L’82% del totale sarà a beneficio di circa 43 mila contribuenti americani con redditi superiori a un milione di dollari. Appena il 3% della cifra complessiva andrà invece a quanti guadagnano meno di 100 mila dollari.
In media, secondo un’analisi di un’apposita commissione del Congresso, i redditi più alti godranno di uno sconto fiscale pari a 1,6 milioni solo per l’anno in corso. Per avere un’idea delle priorità della classe politica di Washington, nello stesso provvedimento da duemila miliardi di dollari (“CARES Act”), approvato a fine marzo, sono stati stanziati appena 100 miliardi per le strutture sanitarie in prima linea contro il Coronavirus e 150 a favore delle amministrazioni locali.
- Dettagli
- Scritto da Fabrizio Casari
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Nove casi di Corona virus, 5 di essi guariti, tre in cura ed uno deceduto. Quest’ultimo giunto dagli Stati Uniti già malato e con un quadro clinico seriamente compromesso. Questo bilancio, pur suscettibile di leggere variazioni, è straordinariamente unico nel panorama mondiale e dovrebbe fare del Nicaragua e del suo modello sanitario, improntato alla dimensione sociale egualitaria e comunitaria un caso di studio.
Il Presidente del Nicaragua, Comandante Daniel Ortega, in un intervento pubblico trasmesso ieri a reti unificate, ha spiegato il modo in cui il Nicaragua ha ingaggiato e conduce la battaglia contro la pandemia. Il governo ha assunto le linee guida internazionali ed i protocolli di vigilanza indicati dall’OMS, adattandoli però alla sua realtà sociale, economica e territoriale.
- Dettagli
- Scritto da Bianca Cerri
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Karen Batten è una signora di circa sessanta anni o poco più moglie del vice presidente degli Stati Uniti Mike Pence, ex- governatore dell'Indiana. Era già divorziata quando conobbe Pence, all'epoca laureando in legge, lavorava come maestra elementare e ogni domenica suonava la chitarra durante la messa nella chiesa di San Tommaso d'Acquino a Indianapolis. A otto mesi dal primo incontro i due ragazzi si sposarono e la fede avrebbe sempre avuto un ruolo importante nella loro unione. Per la verità ci furono un po' di baruffe all'inizio per via delle reciproche tentazioni che furono superate proprio grazie alla fede.
Lasciato il lavoro da maestra Batten si scrisse ad un corso di acquarello per ingannare la noia ed iniziò a dipingere. Vendeva le sue creazioni nelle fiere di paese organizzate nelle varie località dell'Indiana. Ma nel 2012, quando Pence fu nominato Governatore, Batten scoprì di avere anche una vena imprenditoriale e avviò una piccola impresa che chiamò “Quello è il Mio Asciugamano”, che fabbricava ciondoli utili appunto a distinguere gli asciugamani di casa uno dall'altro. Nonostante qualcuno avesse ostinatamente continuato a sostenere che Pence fosse l'uomo sbagliato, Donald Trump lo scelse come compagno di corsa alle presidenziali del 2016. La carriera di Karen Batten come manager, ritenuta poco adatta alla moglie di un uomo politico di un certo rilievo subì una brusca fine. Divenuta la seconda signora d'America dopo la vittoria elettorale tornò agli acquarelli fino a quando la sua routine, come quella di tutti, fu sconvolta dall'improvvisa devastazione portata dal COVID-19.
Si riteneva anzi che entrambi i Pences fossero stati contagiati dal virus. Con grande sollievo della famiglia i tamponi ebbero poi esito negativo. Recentemente il vice-presidente ha annunciato che affiderà un compito molto delicato nella lotta contro il COVID-19 alla moglie. Dal momento che negli Stati Uniti si verifica immancabilmente un'impennata di suicidi a seguito di qualunque tragedia collettiva, sarà la signora Pence a guidare la task force che veglierà sul benessere emotivo delle categorie più a rischio con particolare riguardo per i veterani e le loro famiglie.
I Pence sono degli ardenti cristiani. Per dirla con parole loro hanno "preso un impegno" con Cristo. Da ragazzo il vice presidente faceva il chierichetto e lui stesso ha dichiarato che anche i suoi cinque fratelli erano stati ministranti presso varie parrocchie. A un certo punto della sua vita adulta però si era messo alla ricerca di una nuova Chiesa assieme alla moglie ed entrambi sono passati alla Chiesa Evangelica. Una decisione privata che resterebbe tale se non riflettesse invece alcune sciagurate decisioni in materia di salute pubblica costate già troppe morti. Tanto per iniziare, anche se non riguarda la pandemia, il vice presidente ha ribaltato tutte le teorie sul fumo dichiarando pubblicamente che, nonostante l'isteria che lo circonda, il tabacco non ha mai ammazzato nessuno. Come governatore dell'Indiana aveva fatto il possibile per tagliare i fondi da destinare agli operatori sanitari che praticano aborti. In vista della Pasqua il cristiano-evangelico hardcore ha consigliato ai credenti di accedere alle chiese ma sempre senza superare le dieci persone alla volta.
Nel frattempo Karen Pence e Melanie Trump sono andate insieme nella base militare di Charleston nella Carolina del Nord per rassicurare i soldati e ricordare le misure precauzionali. In tempi di Corona virus la missione anti-suicidio può apparire assai nobile ma, come tante altre questioni, il suicidio militare non è facilmente spiegabile. E non si capisce come farà la moglie di Pence, priva di esperienza sanitaria e psicologica, a venire a capo di un tema tanto complesso. Bisogna dire che i Pence hanno già fatto alcune delle scelte più disastrose della storia degli Stati Uniti in vari ambiti e non ci sarebbe alcuna necessità del loro moralismo bigotto di fronte al corona virus. Ci fu un periodo in cui Batten girava nelle scuole facendo sottoscrivere agli studenti un documento che li impegnava all'astinenza sessuale mentre il marito,all'epoca governatore , osteggiò non solo l'aborto ma anche la distribuzione gratuita di siringhe per prevenire il diffondersi dell'HIV incurante dell'aumento di morti nella contea rurale di Scott nonostante l'allarme lanciato dalle autorità locali. Chiuse i battenti anche l'unico fornitore ufficiale di test per infezioni a trasmissione sessuale dell'Indiana meridionale.
Per gli Stati Uniti si prospettano giorni molto difficili ma la Casa Bianca non ha ancora un piano nazionale per gestire la situazione. Il presidente è però sicuro che la presenza di Pence al suo fianco sia provvidenziale perchè il suo vice sarebbe “un vero esperto in materia di salute pubblica”. Alla luce dell'alto numero di morti a New York la gente è stremata e, se non fosse per i severi ordine di restrizione, a migliaia sarebbero già scesi su Central Park per protesta.
La Protezione Civile non ha più “body bags”, sacchi muniti di zip per sistemare i corpi senza vita che andranno poi sepolti da qualche parte. Ma al diavolo i numeri, visto che è ottimista persino anche il governatore di New York che ha espresso la sua gratitudine al presidente e al suo vice per “avere risposto prontamente” all'emergenza derivata dalla diffusione del virus. Non tutti condividono un giudizio smentito dai fatti. Nel frattempo si sta diffondendo in rete un commercio macabro oltre che inutile, compresa una collanina con un ciondolo ispirato alla pallina ormai tristemente nota del corona virus. Tanto gli eventi più devastanti sono sempre serviti per lanciare sul mercato le cose più incredibili. In America i fabbricanti d'armi ad esempio hanno rimpinguato l'assortimento del settore con nuovi modelli di pistole e fucili ritenuti più necessari di acqua e cibo. Tutte cose che stridono palesemente con la creazione della task force anti-suicidio capeggiata dalla signora Pence. Inoltre è prematuro affermare che esista un nesso tra la pandemia e l'aumento dei suicidi. E' vero invece che in un momento di grande pressione come quello attuale le persone mentalmente più deboli potrebbero avere la tentazione di mettere fine alla propria vita e non sembra molto saggio armare un popolo sufficientemente armato.
Da quando il corona virus ha iniziato a manifestarsi alcuni ospedali erano ricorsi a tendoni mobili per tamponare le emergenze. Perchè il virus di cui stiamo parlando è una creatura diabolica che ha riempito gli ospedali fino alla capacità massima. In America un ospedale può tenere in vita la media di mille pazienti poi lo spazio si esaurisce. Ma l'arrivo del COVID ha portato ad uno stato di emergenza eccezionale. L'esperienza del passato non fa testo perchè si tratta di una sfida che la medicina si trova davanti per la prima volta.
Una sfida che riguarda tanti paesi ma che negli USA assume a volte aspetti imprevisti. Nel Bronx ad esempio anche malati gravi sono stati respinti per mancanza di letti. Generosamente la Chiesa Evangelica aveva deciso di approntare una tendopoli proprio per ricoverare pazienti a rischio di morte. L'81% dell'amministrazione Trump è composta da evangelici e Pence arde dal prendere la questione COVID nelle sue mani e in quelle di sue moglie. Duemila morti in meno di 24 ore è cosa da far impallidire persino l'11 settembre. Come era già accaduto con Dick Cheney appunto l'11 settembre Pence poteva apparire indispensabile giostrando sul virus. Billy Graham, il più popolare dei leaders della Chiesa Evangelica si era impegnato a costruire in tempi brevissimi un ospedale da campo con sessanta posti letto e il Sinai Hospital era disposto ad aiutare a condizione che non diventasse una struttura riservata ai pazienti evangelici ma servisse a salvare vite senza distinzione. Il benestare del Sinai Hospital era arrivato e Graham aveva firmato i patti. Ma quanto ci si può fidare della buona volontà di Graham, sodale di Pence e, come lui, nemico giurato di omosessuali e islamici?
Il vulnus di relazioni tra bigotti avidi di potere faceva temere il peggio e infatti, al momento di assumere operatori sanitari e medici Graham col benestare dell'alter ego politico, ha selezionato solo elementi a sua immagine e somiglianza facendo metter per iscritto a ciascuno una dichiarazione in cui s'impegneranno ad "evitare contatti sessuali, a rimanere nella stessa stanza con colleghi del sesso posto e lo stesso vale per quanto riguarda il trasporto in macchina". Inoltre dovranno ricordare ogni momento che "Gesù ha versato il proprio sangue per i peccatori e che la vita umana è sacra già dal concepimento". Infine l'invito a pregare perchè la preghiera aiuta a resistere.
Forse sarebbe stato utile aggiungere qualche parola sull'obbligo di guanti e mascherine e magari un invito a lavarsi le mani prima di avvicinarsi ai pazienti. Esentati dall'obbligo di preghiera i detenuti che avranno il compito di seppellire i morti. Con guanti, mascherina e tuta ignifuga depositeranno le bare, molte delle quali senza nome, scaricate dai mastodontici camion sul terreno fangoso della Hart Island. Non hanno mai conosciuto le persone che per un capriccio del destino accompagneranno nel luogo dove passeranno l'eternità. Per ogni giorno di lavoro avranno dieci dollari. Hart Island è da sempre l'ultima dimora degli ultimi della scala sociale. Erano lì che venivano i morti dI AIDS per separarli da tutti gli altri. Non è improbabile che vengano seppellite nello stesso posto anche le vittime del COVID. I virus non sono omofobi o classisti. Gli Stati Uniti d'America sì.