Da qualche settimana stanno circolando sulla stampa internazionale voci insistenti di una possibile frattura nelle relazioni tra il presidente russo, Vladimir Putin, e il suo alleato siriano, Bashar al-Assad, nonostante gli sforzi comuni nel combattere la guerra in corso nel paese mediorientale. Le indiscrezioni che attribuiscono a Mosca una certa impazienza nei confronti di Damasco sono state alimentate da articoli e analisi della situazione in Siria apparsi su alcuni media ritenuti vicini al Cremlino. La realtà potrebbe essere tuttavia più complicata e le divergenze tra i due alleati, se pure esistono, non devono essere sopravvalutate.

L’accelerazione impressa nel fine settimana all’offensiva contro la Cina da parte del governo americano ha scatenato la prevedibile durissima reazione di Pechino e segnato probabilmente un punto di svolta nel confronto tra le prime due potenze economiche del pianeta. Le nuove misure punitive nei confronti di Huawei rischiano però anche di trasformarsi in un boomerang per Washington, da dove, tuttavia, sembrano esserci sempre meno limiti o auto-restrizioni nel mettere in atto iniziative disperate, teoricamente volte a impedire il consolidarsi di minacce alla posizione internazionale degli Stati Uniti.

Un attacco terroristico di una violenza inaudita anche per gli standard afgani ha seminato questa settimana il terrore a Kabul e assestato un colpo forse letale alle residue speranze di una soluzione diplomatica del conflitto nel paese centro-asiatico. Anche se il blitz nel reparto maternità di un ospedale della capitale non è stato per ora rivendicato da nessun gruppo armato, il governo-fantoccio del presidente Ashraf Ghani ha subito reagito con l’ordine di riprendere le operazioni militari contro i Talebani, allontanando ancora di più l’ipotesi dei negoziati promossa da Washington.

Gli attentati contro forze governative o civili sono stati in realtà almeno quattro negli ultimi giorni, ma il più raccapricciante è stato quello in una struttura sanitaria di Kabul che ospita un reparto maternità gestito da Medici Senza Frontiere. Martedì mattina è stato preso d’assalto da guerriglieri armati che, prima di essere uccisi dalle forze di sicurezza afgane, hanno massacrato 24 persone, tra cui 16 donne e due neonati. Almeno sei bambini appena venuti alla luce hanno perso la madre nell’attacco.

L’insediamento del nuovo governo di Israele nella giornata di giovedì, al termine di un lunghissimo periodo di stallo politico, inaugurerà un esecutivo dalla composizione insolita e con un obiettivo a breve scadenza difficilmente equivocabile. Nonostante la pandemia in atto, non si tratta della lotta al Coronavirus, ma piuttosto dell’annessione di almeno una parte del territorio palestinese della Cisgiordania, dove sorgono decine di insediamenti israeliani illegali.

Il gabinetto guidato ancora una volta da Netanyahu è il risultato del clamoroso voltafaccia del suo ormai ex rivale numero uno, l’ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz. Alla guida della coalizione di centro-sinistra “Blu e Bianca”, quest’ultimo era andato vicino a sconfiggere il Likud di Netanyahu nelle tre elezioni tenute in Israele nell’ultimo anno e mezzo, ma non era mai riuscito a mettere assieme in parlamento (“Knesset”) una maggioranza sufficiente a governare.

Proprio mentre una serie di eventi sembrava dover accelerare il conflitto tra Stati Uniti e Iran, l’improvviso emergere di un possibile scambio di detenuti tra i due paesi potrebbe far coagulare i vari segnali di una molto relativa distensione arrivati nei giorni scorsi e scongiurare almeno per i prossimi mesi un nuovo fronte di guerra in Medio Oriente. La cautela deve essere comunque estrema. Infatti, gli inviti del governo di Teheran a liberare un certo numero di detenuti da entrambe le parti non hanno per il momento trovato risposta dalla Casa Bianca.

Nel fine settimana, il sito di informazione iraniano Khabar Online ha riportato le aperture verso gli USA da parte di un portavoce del governo iraniano. Ali Rabiei ha affermato che la Repubblica Islamica è pronta a discutere con Washington uno scambio senza nessuna condizione preliminare e, a differenza di quanto accaduto in circostanze simili in passato, senza la mediazione di paesi terzi.

La proposta dell’Iran mette la palla nel campo americano, esercitando una qualche pressione sull’amministrazione Trump per non sprecare i risultati tutt’altro che sgraditi a entrambi i paesi ottenuti la settimana scorsa con la formazione di un nuovo governo in Iraq dopo mesi di stallo politico. L’iniziativa diplomatica iraniana è inoltre doppiamente stimolante per gli Stati Uniti, poiché fa aperto riferimento al pericolo di contagio da Coronavirus nelle rispettive carceri.

Da valutare è anche l’interesse del presidente Trump per possibili colpi diplomatici non troppo difficili da mettere a segno, come appunto lo scambio di prigionieri, e in grado di promuovere l’immagine della sua amministrazione, soprattutto in un momento di gravissima crisi a causa della gestione disastrosa dell’epidemia in corso. I cittadini americani sotto custodia delle autorità iraniane sarebbero cinque, mentre quelli della Repubblica Islamica nelle carceri USA una ventina.

L’ex diplomatica americana ed esperta di questioni iraniane, Hillary Mann Leverett, ha ricordato in un’intervista ad Al Jazeera che negli Stati Uniti è detenuto un professore iraniano contagiato dal Coronavirus. Quest’ultimo non è stato rilasciato nonostante le accuse a suo carico sarebbero già cadute. Un veterano della Marina militare USA, Michael White, in carcere in Iran sarebbe invece uscito di prigione per questioni mediche, anche se gli viene tuttora impedito di lasciare il paese mediorientale.

La stessa Hillary Mann Leverett ha affermato di credere che ci possa essere un qualche fermento “dietro le quinte” e che i rischi derivanti dal Covid-19 non rappresentino l’unico motivo delle possibili trattative in corso tra Washington e Teheran. Nella migliore delle ipotesi, in gioco potrebbe esserci una qualche tregua dettata dal fatto che l’amministrazione Trump non può permettersi un’escalation fuori controllo del conflitto con l’Iran a pochi mesi dalle elezioni e in presenza di una rovinosa crisi economica e sanitaria.

Anche a Teheran sembra possibile che a prevalere sarà la prudenza dopo le tensione delle scorse settimane. A fine aprile, soprattutto, il lancio in orbita per la prima volta con successo di un satellite militare aveva incontrato la risposta minacciosa della Casa Bianca e del dipartimento di Stato americano. Inquietante era stato anche un tweet di Trump nel quale affermava di avere dato ordine alla Marina militare di “distruggere” qualsiasi imbarcazione della Repubblica Islamica che intendeva avvicinarsi minacciosamente alle navi da guerra americane nel Golfo Persico.

La Repubblica Islamica, malgrado il pesante bilancio dell’epidemia di Coronavirus, ha visto negli ultimi mesi un sostanziale rafforzamento della propria posizione nella regione e ha tutto l’interesse a congelare lo scontro con Washington fino al voto di novembre. Come ha fatto notare più di un commentatore, inoltre, su questo atteggiamento non è da escludere che possa avere influito anche l’identico calcolo fatto dalla Russia, di cui l’Iran è un partner strategico in Medio Oriente.

Significativamente, questi ultimi sviluppi arrivano a pochi giorni da una disputa politica a Washington che ha avuto a prima vista un esito sfavorevole alla diplomazia. Giovedì scorso, Trump aveva messo il veto a un provvedimento del Congresso, approvato con l’appoggio di un numero importante di repubblicani, che intendeva limitare i poteri del presidente nel prendere iniziative militari contro l’Iran. Se la decisione lascia a Trump mano libera in questo senso, peraltro senza cambiare di nulla la deriva autoritaria degli ultimi due decenni, il caso non comporta necessariamente un maggiore rischio di guerra, avendo forse più a che fare con gli equilibri di potere tra l’esecutivo e il Congresso.

La convergenza più ovvia tra gli interessi di USA e Iran in questo periodo è stata comunque attorno al nuovo assetto politico iracheno. La crisi politica a Baghdad si stava avvicinando pericolosamente al punto di rottura dopo che le proteste di piazza iniziate lo scorso autunno avevano portato alle dimissioni dell’ex primo ministro, Adel Abdul Mahdi. I due successivi candidati alla sua successione non erano poi riusciti a trovare una maggioranza in parlamento, mentre il terzo tentativo dell’ex capo dell’intelligence irachena, Mustafa al-Kadhimi, è andato a buon fine.

Il successo di Kadhimi è dipeso in buona parte dal via libera di Washington e Teheran. I due governi con la maggiore influenza sull’Iraq hanno anche in questo caso messo da parte le differenze per promuovere una soluzione accettabile a entrambi per non destabilizzare l’Iraq e posticipare una possibile resa dei conti nel paese che fu di Saddam Hussein. L’attitudine pragmatica dell’ex numero uno dei servizi segreti di Baghdad ha senza dubbio aiutato a trovare un punto d’incontro, ma le trattative hanno potuto dare frutti solo dopo un’attenta spartizione del potere. Il ministero dell’Interno e quello delle Finanze, ad esempio, sono stati assegnati rispettivamente a un politico vicino all’Iran e a uno filo-occidentale.

Sempre riguardo all’Iraq, dopo minacce e intimidazioni, il dipartimento di Stato USA ha recentemente prolungato l’esenzione temporanea dalle sanzioni americane, permettendo a Baghdad di continuare a importare energia elettrica dall’Iran. Oltretutto, la proroga non è stata mensile, come accaduto finora, ma sarà della durata di 120 giorni.

Un altro evento dei giorni scorsi su cui si continua a discutere è l’annuncio del Pentagono di voler ritirare dall’Arabia Saudita due batterie di missili Patriot e altrettanti reparti aerei, dispiegati precisamente per proteggere le installazioni petrolifere dell’alleato da possibili attacchi iraniani. Alla base della mossa americana potrebbero esserci in primo luogo le tensioni con Riyadh sulla quotazione del greggio, alla luce delle sofferenze dei produttori di petrolio negli Stati Uniti, anche se in molti hanno intravisto un messaggio indiretto alla Repubblica Islamica.

L’ottimismo, come sempre accade in merito alle relazioni USA-Iran, rischia ad ogni modo di essere prematuro. Qualche ulteriore indicazione si avrà probabilmente con l’eventuale risposta americana alla proposta iraniana di scambiare i detenuti. A pesare come un macigno su quella che comunque sarebbe tutt’al più una tregua ci sono d’altra parte svariati fattori.

Il primo è costituito dalle manovre di Israele e dagli ambienti filo-israeliani negli Stati Uniti. Le ripetute incursioni illegali di Tel Aviv in territorio siriano per colpire obiettivi della Repubblica Islamica non contribuiscono di certo ad allentare le tensioni. Non solo, la propaganda alimentata da Israele continua poi a muoversi in molte direzioni. Lunedì, il New York Times ha ad esempio raccontato di un avvertimento del governo israeliano sulle presunte attività di hackeraggio dell’Iran che potrebbero prendere di mira anche le compagnie farmaceutiche americane impegnate nello studio di un vaccino contro il COVID-19.

Sempre in sospeso c’è infine la disputa più esplosiva, cioè il tentativo dell’amministrazione Trump di fare approvare al Consiglio di Sicurezza ONU l’estensione dell’embargo sulle armi ai danni dell’Iran, collegato a sua volta alle manovre per “rientrare” nell’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA) e reimporre tutte le sanzioni internazionali contro Teheran che grazie a esso erano state sospese. Se la Casa Bianca dovesse insistere su questo punto, sarà una conferma del muro contro muro con Teheran. Qualche spiraglio di distensione potrebbe emergere al contrario se la questione sarà lasciata cadere, vista anche l’indisponibilità ad assecondare gli Stati Uniti non solo di Russia e Cina, ma anche, almeno per il momento, degli alleati europei.


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