La decisione del giudice britannico di attribuire le 31 tonnellate d’oro custodite nella Banca d’Inghilterra dal go verno venezuelano all’autoproclamato “presidente” per burla del Venezuela Guaidò, non è ovviamente uno scherzo, anche se ne ha tutta l’apparenza. Si tratta innanzitutto di un gravissimo atto di furto, pirateria e brigantaggio internazionale. Un richiamo diretto alla “gloriosa” tradizione britannica della guerra da corsa, quando Sir Francis Drake ed altri scorrazzavano per i mari al servizio di Sua Maestà la Regina Elisabetta.

Le crescenti pressioni internazionali degli ultimi giorni e la natura esplosiva del provvedimento in fase di preparazione hanno spinto il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, quanto meno a rimandare la prevista annessione unilaterale di una parte del territorio occupato della Cisgiordania. La decisione è stata presa probabilmente anche in seguito al mancato via libera degli Stati Uniti, dovuto alle divisioni interne all’amministrazione Trump su un provvedimento che rischia di trasformarsi in un boomerang sia per Washington che per Tel Aviv.

L’ultima gigantesca fake news anti-russa, pubblicata nel fine settimana dal New York Times, continua a rimbalzare sui media americani e a dominare il dibattito politico di Washington nonostante l’assurdità delle accuse rivolte al Cremlino e la totale assenza di prove del comportamento attribuito a Mosca. L’intelligence militare russa, com’è ormai noto, avrebbe offerto incentivi in denaro ai Talebani per spingerli a uccidere militari che fanno parte del contingente americano di occupazione dell’Afghanistan.

I tre autori del pezzo, uscito venerdì scorso sulla versione on-line del quotidiano newyorchese e il giorno successivo su quella cartacea, si sono basati come sempre per la loro “esclusiva” sulle imbeccate di anonimi “funzionari” governativi e dei servizi segreti USA, le cui confidenze vengono puntualmente spacciate come fatti incontrovertibili da quello che dovrebbe essere il più autorevole giornale americano.

La notizia aveva il preciso scopo immediato di scatenare un polverone di polemiche contro il presidente Trump e ravvivare, come accade a intervalli regolari, la campagna di demonizzazione contro la Russia di Putin. Sulla questione della “taglia” messa dai russi sulla testa dei soldati americani si sono così scatenati nel fine settimana tutti i network d’oltreoceano, nessuno dei quali ha sollevato anche un solo dubbio sulla veridicità del rapporto del Times.

Seguendo un copione ben collaudato, lunedì la palla è passata alla politica. I leader democratici al Congresso hanno per primi ripreso le accuse contro la Casa Bianca e il suo inquilino, bollato come un burattino di Putin, per poi chiedere chiarezza sia al presidente sia ai servizi segreti USA, soprattutto sul possibile fatto che Trump fosse stato informato per iscritto già nel mese di febbraio circa il pericolo che incombeva sui militari americani a causa delle manovre di Mosca.

La messinscena è stata corredata dal solito coro di insulti e accuse nei confronti di Putin, a cui si è presto unita buona parte dei membri repubblicani del Congresso. Tra i più coloriti nell’esprimere la propria indignazione per un’operazione che con ogni probabilità non è mai avvenuta è stato il senatore repubblicano dell’Oklahoma, James Inhofe, il quale ha ricordato come sia risaputo “da tempo che Putin è un criminale e un assassino”.

Ancora, briefing tra il Congresso e la Casa Bianca sono stati convocati con urgenza. Lunedì è stato ragguagliato sullo scandalo del momento un gruppo di parlamentari repubblicani, mentre martedì è toccato ai democratici. Trump e la sua portavoce, Kaleigh McEnany, hanno dato invece una spiegazione perfettamente coerente con la natura inconsistente della vicenda, cioè che il presidente non era stato messo al corrente dei presunti fatti denunciati dal Times perché l’informazione riguardante le ricompense offerte dai russi ai Talebani non risultava credibile.

Un’analisi fattuale di questa “rivelazione” sarebbe di poca utilità, visto che essa non contiene nessun fatto concreto né alcuna prova di quanto viene sostenuto. L’articolo iniziale e i successivi di contorno sono pura propaganda, diffusa da quelli che assomigliano più a stenografi della CIA che non a giornalisti. L’operazione del Times non è nuova ma si inserisce in uno schema che viene continuamente alimentato sulle ceneri del defunto “Russiagate” con obiettivi ben precisi. Questi ultimi sono riconducibili allo sforzo del “deep state” americano per creare un clima di isteria collettiva volto a dipingere il governo di Putin come un nemico mortale degli Stati Uniti e, in ultima analisi, a preparare la popolazione a una futura guerra contro la seconda potenza nucleare del pianeta.

Nell’immediato, questi ambienti ferocemente anti-russi puntano a tenere alta la pressione sulla Casa Bianca per scoraggiare anche il minimo segnale di distensione tra Washington e Mosca. La prima conseguenza di ciò sarà probabilmente l’affondamento del piano di Trump di invitare nuovamente la Russia di Putin al prossimo G7, in modo anche da frustrare qualsiasi ipotesi di riavvicinamento strategico tra l’Occidente e Mosca nel quadro internazionale che prenderà forma dopo l’emergenza Coronavirus.

Con l’operazione orchestrata assieme al New York Times, gli oppositori dell’amministrazione Trump all’interno dell’apparato di potere americano hanno anche come obiettivo il boicottaggio del complicato processo di pace in corso in Afghanistan. L’accordo siglato tra la Casa Bianca e i Talebani a inizio anno prevede la graduale uscita di scena del contingente di occupazione USA dal paese centro-asiatico, vincolata al lancio e al successo di negoziati di pace tra i Talebani e il governo-fantoccio di Kabul.

In molti a Washington vedono però con preoccupazione un ritiro dall’Afghanistan, paese considerato cruciale nel “grande gioco” dell’integrazione euro-asiatica e alla luce della competizione strategica con Russia e Cina. Come minimo, poi, queste manovre mirano a estromettere il Cremlino dagli sforzi diplomatici in atto in Afghanistan, seminando nel governo di Kabul il dubbio dell’inaffidabilità del governo di Mosca come facilitatore della trattativa con i Talebani.

Per quanto riguarda ancora il merito delle accuse sollevate dall’articolo del Times, una riflessione superficiale sulle vicende afgane e sugli obiettivi russi basterebbe a svelare l’esclusiva per quello che realmente è, vale a dire un’operazione di propaganda. Prima ancora di ciò, lo stesso giornale di New York, così come il Washington Post, il Wall Street Journal e altri media che hanno tempestivamente “confermato” le rivelazioni iniziali, sono stati anch’essi costretti ad ammettere che non esistono prove dei pagamenti russi ai Talebani per colpire i militari americani in Afghanistan.

Inoltre, dagli stessi articoli dei giorni scorsi emerge come all’interno della comunità dell’intelligence USA ci fossero voci discordanti che giudicavano inattendibile il presunto rapporto sul piano russo. Soprattutto, le fonti principali delle accuse contro il Cremlino sarebbero militanti e criminali detenuti in Afghanistan, più o meno legati ai Talebani. Dell’affidabilità di confessioni ottenute in questo modo è quasi inutile discutere e anche l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), secondo quanto riportato dal Washington Post, si sarebbe mostrata estremamente scettica circa le informazioni ricavate da simili interrogatori. Tutte le ricostruzioni apparse sulla stampa “mainstream”, in ogni caso, sono infarcite di precisazioni (“vaghe informazioni di intelligence”, “prove non del tutto confermate”) che, a ben vedere, finiscono per smontare la tesi centrale costruita contro il Cremlino.

Il Pentagono, inoltre, tramite un portavoce ha emesso un comunicato lunedì per smentire l’esistenza di prove che confermino “le recenti accuse sollevate dalla stampa”, riferendosi in particolare a una notizia diffusa dalla Associated Press. L’agenzia di stampa americana aveva scritto che l’intelligence USA stava indagando la morte di tre militari in un attentato dell’aprile 2019 vicino alla base aerea di Bagram come un possibile episodio da collegare ai pagamenti fatti dai servizi segreti militari russi (GRU) ai Talebani.

Anche in questo caso non vengono fornite prove o indizi che giustifichino i sospetti. È probabile piuttosto che fonti governative USA abbiano passato l’informazione alla Associated Press per rimediare a uno dei tanti punti deboli della notizia originariamente pubblicata dal New York Times, cioè che Mosca poteva forse avere la responsabilità indiretta della morte di un solo militare americano in Afghanistan. Nessun commentatore o giornale ufficiale ha poi fatto notare come sia assurdo che i russi abbiano potuto pensare che esistesse la necessità di incoraggiare i Talebani ad attaccare e uccidere membri delle forze di occupazione, quando da quasi vent’anni stanno già combattendo una guerra sanguinosa che ha fatto più di 2.300 vittime tra i militari americani.

Non c’è dubbio, d’altro canto, che Mosca segua con estrema attenzione le vicende afgane, com’è ovvio che sia per ragioni geografiche e strategiche. Anzi, l’approccio della Russia ai Talebani si è evoluto nel tempo fino a considerare gli “studenti del Corano” come una forza con cui confrontarsi nel futuro assetto dell’Afghanistan. I Talebani controllano peraltro già oggi più della metà del territorio del paese asiatico. L’attitudine russa è perciò del tutto comprensibile e legittima, ma questa realtà, rafforzata dai numerosi colloqui tenuti tra i rappresentanti talebani e del Cremlino, viene sfruttata dalla stampa americana per dimostrare l’esistenza di legami criminali che hanno l’obiettivo di colpire le forze armate USA.

Va ricordato, infine, che se anche la notizia riportata dal New York Times fosse vera, le accuse rivolte contro Mosca si riferirebbero a operazioni dalla rilevanza trascurabile se paragonate ai danni causati alla Russia dagli Stati Uniti. Per restare al solo Afghanistan, la guerra fomentata da Washington negli anni Ottanta contro l’occupazione sovietica, tramite la creazione, il finanziamento e la fornitura di armi ai guerriglieri mujaheddin, provocò, secondo alcune stime, circa 15 mila vittime tra i soldati russi. In molti altri teatri di guerra, poi, il denaro, le armi e le manovre dei militari e dei servizi segreti americani hanno provocato un numero imprecisato di vittime russe, come ad esempio in Cecenia o in Siria.

Nel complesso, l’intera vicenda dimostra ancora una volta l’intenzione di una parte della classe dirigente americana di voler fare della Russia il nemico numero uno di Washington, tramite la menzogna e la costante falsificazione della realtà. Il livello di disperazione e di ottusità che questa ossessione dimostra è stato riassunto perfettamente da un comunicato del ministero degli Esteri russo nel fine settimana: “Questo piano banale illustra chiaramente le scarse abilità intellettuali dei propagandisti dell’intelligence americana, i quali, non essendo in grado di ideare qualcosa di plausibile, sono costretti a inventarsi un’assurdità” come quella pubblicata venerdì scorso dal New York Times.

La prima importante elezione conclusa nell’Unione Europea in tempo di pandemia ha emesso nel fine settimana in Polonia un verdetto decisamente pesante per il partito dell’estrema destra populista al potere, Diritto e Giustizia (PiS). Il presidente uscente, Andrzej Duda, il 12 luglio prossimo sarà infatti costretto ad affrontare un delicatissimo ballottaggio con il sindaco di Varsavia, Rafal Trzaskowski, del partito moderato europeista Piattaforma Civica.

La tenuta del governo polacco appare sempre più precaria in un clima segnato dalle pesanti conseguenze economiche del Coronavirus e della chiusura forzata imposta dalle autorità a partire dal mese di marzo. Qui, l’epidemia ha avuto finora un impatto minore rispetto ad altri paesi europei, quanto meno dal punto di vista statistico, ma anche i casi relativamente contenuti hanno prodotto una situazione di crisi nel settore sanitario. Questi scenari, assieme al possibile contrarsi del PIL tra il 7,4% e il 9,5% entro fine anno, hanno fatto crollare rapidamente i livelli di gradimento del PiS e del governo del primo ministro, Mateusz Morawiecki.

La candidatura alla Casa Bianca dell’ex vice-presidente democratico Joe Biden sembra essere entrata in una fase ascendente grazie al precipitare del gradimento di Donald Trump a fronte soprattutto dei gravissimi problemi economici e sanitari che stanno attraversando gli Stati Uniti. Altri due fattori ancora più importanti, e tipicamente decisivi per garantirsi il successo alle urne nel sistema politico americano, sono però all’opera per lanciare il 77enne Biden verso la presidenza, vale a dire l’impennata dei finanziamenti elettorali e il sostegno dell’apparato di potere governativo, altrimenti noto come “Deep State”.

Sul fronte denaro, una serie di circostanze sta cambiando rapidamente gli equilibri tra i due partiti. Mentre Trump e il Partito Repubblicano fino al mese di aprile avevano un vantaggio in termini di fondi a disposizione di quasi 200 milioni di dollari, più recentemente Biden e i democratici hanno iniziato a incassare cifre enormi dai propri finanziatori. A maggio, anzi, per la prima volta il Comitato Nazionale Democratico e il suo candidato alla presidenza hanno registrato entrate superiori a quelle dei rivali (80,8 milioni di dollari contro 74). Secondo fonti interne al Partito Democratico, a giugno il totale mensile dei finanziamenti elettorali potrebbe addirittura sfondare quota 100 milioni.

L’inversione di tendenza rispetto alle primarie, quando le entrate di Biden apparivano tutto fuorché entusiasmanti, è senza dubbio da collegare alle cambiate condizioni politiche, elettorali e sociali negli USA, in primo luogo a causa dell’emergenza Coronavirus. Il New York Times ha spiegato che la rapida conclusione della stagione delle primarie a causa dell’epidemia ha determinato il precoce coalizzarsi del partito attorno al candidato in pectore, evitando la dispersione di risorse tra gli altri aspiranti alla Casa Bianca.

Inoltre, la drammatica circolazione del virus ha in pratica azzerato le attività elettorali e ridotto al minimo le spese logistiche e quelle destinate ai membri dello staff di Biden. Questi elementi hanno consentito un sensibile risparmio e un conseguente accumulo di risorse da investire da qui a novembre. Soprattutto, la crescente repulsione nei confronti di Trump ha spinto molti americani a donare all’unica alternativa su piazza, nonostante lo scarso entusiasmo generato dall’ex vice-presidente democratico.

La macchina elettorale di Biden e del partito ha visto così allargarsi il bacino dei donatori negli ultimi mesi, fino a contare, per il mese di maggio, su oltre 900 mila contributi in denaro. A risultare decisivi non sono state tuttavia le donazioni di poche decine di dollari sborsate da una moltitudine di piccoli finanziatori, come era accaduto fino a qualche mese fa per la candidatura di Bernie Sanders. Al contrario, l’accelerazione delle entrate per Biden è stata in gran parte prodotta dall’intervento dei grandi finanziatori, cioè uno dei principali punti di riferimento del Partito Democratico.

Senza la possibilità di organizzare cene e ricevimenti esclusivi, durante i quali ricchissimi donatori staccano assegni a parecchi zeri spesso alla presenza del proprio candidato, in queste settimane si è ripiegato su eventi virtuali che hanno permesso ugualmente di raccogliere una valanga di denaro. Un veterano sostenitore del Partito Democratico ha spiegato che un evento di questo genere a favore di Biden ha fruttato venerdì scorso più di due milioni di dollari. L’importo minimo per partecipare tramite il software Zoom era in questo caso di 50 mila dollari. Nel solo mese di giugno, appena sei eventi virtuali riservati ai grandi donatori democratici hanno portato nelle casse della campagna di Biden quasi 22 milioni di dollari.

Aperto invece a tutti gli elettori è stato il comizio on-line di martedì a cui hanno preso parte Biden e l’ex presidente Obama. In poco più di un’ora, 175 mila persone hanno donato 7.6 milioni all’ex vice-presidente. L’intervento di Obama rientra nella strategia del partito per cercare di mobilitare soprattutto i giovani americani, non esattamente eccitati dalla candidatura di Biden, e gli elettori che cercano un’alternativa progressista all’attuale amministrazione. Il timore dei leader democratici è per una possibile ripetizione dei fatti del novembre 2016, quando i sondaggi favorevoli e l’enorme quantità di denaro su cui poteva contare Hillary Clinton, anch’essa legata a doppio filo come Biden all’establishment di Washington, non furono sufficienti a evitarle la sconfitta.

Quale sia in ogni caso l’aspirante alla presidenza favorito dai poteri forti all’interno dell’apparato di potere americano è facilmente immaginabile. L’avversione in questi ambienti per Trump è cresciuta a dismisura dall’inizio dell’anno. La gestione disastrosa dell’emergenza Coronavirus, così come delle proteste contro la brutalità della polizia, ha screditato ancora di più il presidente repubblicano, a cui il “Deep State” americano continua a non perdonare una politica estera confusionaria, troppo tenera nei confronti dei rivali strategici degli Stati Uniti e, in definitiva, non adeguata a garantire gli interessi dell’imperialismo a stelle e strisce nel mutato clima internazionale.

A mostrare le dinamiche in atto dietro le quinte a Washington è stata un’esclusiva pubblicata questa settimana dalla Reuters. Una ventina di ex funzionari ed esponenti di spicco dell’apparato della “sicurezza nazionale” USA, tutti affiliati al Partito Repubblicano, sarebbero cioè pronti a esprimere pubblicamente il proprio sostegno e a partecipare attivamente alla campagna di Joe Biden. Tra gli altri figurano membri delle amministrazioni Reagan, Bush senior e Bush junior. A loro dire, un secondo mandato di Trump metterebbe a serio rischio la sicurezza nazionale americana.

Negli stessi termini si era espresso giorni fa l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, John Bolton, in occasione dell’uscita del suo libro di memorie dalla Casa Bianca. Bolton non era arrivato a dichiarare di voler votare per Biden a novembre, ma auspicava una mobilitazione per evitare la rielezione del suo ex diretto superiore. Queste sezioni della classe dirigente americana, al di là dell’appartenenza politica, vedono dunque nel democratico Biden una scelta più che sicura per riassestare gli obiettivi di politica estera degli Stati Uniti.

Biden, da parte sua, non ha esitato a mostrate piena disponibilità verso questi ambienti. In risposta alla rivelazione della Reuters, uno dei suoi portavoce ha assicurato che l’ex vice-presidente intende “unire il paese e rimediare al caos provocato da Trump, costruendo la coalizione più vasta possibile che includa anche i repubblicani sconvolti da quello a cui hanno assistito negli ultimi quattro anni”.

Queste aperture confermano quali saranno i principi ispiratori di un’eventuale amministrazione Biden. Il fatto che nelle strutture di potere si stia procedendo verso un consolidamento degli equilibri a favore di quest’ultimo era apparso chiaro già all’indomani delle manifestazioni esplose dopo l’assassinio per mano della polizia a Minneapolis dell’afro-americano George Floyd. Attuali ed ex alti ufficiali militari avevano voltato le spalle al presidente proprio mentre cercava di mobilitare le forze armate per soffocare nel sangue la rivolta.

Gli appoggi e il denaro a disposizione di Biden potrebbero comunque non bastare a garantirgli la vittoria a novembre, anche perché consentono a Trump di presentarsi nuovamente come il candidato anti-establishment. La vera campagna elettorale non è nemmeno iniziata e i limiti del candidato democratico, a cominciare da quelli rappresentanti da uno stato mentale in evidente deterioramento, rischiano di farne una vittima sacrificale di Trump nei prossimi mesi. A suo vantaggio giocano ad ogni modo le condizioni dell’economia americana, assieme all’involuzione ultra-reazionaria, per non dire fascista, dell’inquilino della Casa Bianca. Se ciò basterà a fare di Trump un presidente di un singolo mandato è ancora tutto da verificare.

Quel che è certo è che per molti versi una futura amministrazione Biden sarebbe su posizioni più estreme di quella attuale, soprattutto in politica estera. In questi mesi, l’ex vice-presidente ha infatti più volte attaccato Trump da destra, accusandolo in sostanza di non avere mostrato sufficiente aggressività nella gestione delle crisi internazionali degli ultimi anni: dal tentato golpe in Venezuela allo scontro con la Corea del Nord, dal contenimento della Cina all’offensiva contro la Russia, fino al coinvolgimento nel conflitto siriano.


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