Una gravissima esplosione avvenuta nella giornata di domenica ha causato danni molto estesi all’impianto nucleare civile iraniano situato nella località di Natanz. Anche se non ci sono rivendicazioni ufficiali per l’operazione, tutti gli indizi sembrano portare a Israele. L’attentato, di fatto di natura terroristica, dimostra ancora una volta come l’unica “democrazia” mediorientale promuova i propri obiettivi di politica estera attraverso la violenza deliberata. In questo caso, l’attacco punta a boicottare o, quanto meno, a complicare ancora di più i negoziati in corso a Vienna per la riattivazione del trattato sul nucleare della Repubblica Islamica (JCPOA).

Non è bastato il comportamento predatorio in Siria, né quello in Libia, né la repressione violenta del dissenso in patria. Non è bastata la persecuzione dei curdi, né la violazione dei diritti umani dei profughi siriani, afgani e iracheni (che imprigiona su nostro pagamento, per evitare che arrivino in Europa). Non è bastato nemmeno il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Ci è voluto il “sofagate” per bollare Recep Tayyip Erdogan come “dittatore”.

I colloqui sul nucleare iraniano iniziati mercoledì a Vienna sono il primo segnale concreto dall’inizio della presidenza Biden delle intenzioni di risolvere la crisi tra Washington e Teheran riesplosa durante l’amministrazione Trump. Qualche timidissimo motivo di ottimismo è emerso al termine del primo round di incontri, anche se restano ostacoli non indifferenti sulla strada verso la definitiva riattivazione dell’accordo del 2015 (JCPOA). A fare la differenza sarà la volontà politica del governo americano di cancellare il cumulo di sanzioni imposte negli ultimi anni contro la Repubblica Islamica.

Da almeno un paio di mesi a questa parte stanno arrivando segnali preoccupanti dalle regioni dell’Ucraina orientale che sembrano indicare un’imminente riesplosione del conflitto tra le forze di Kiev, appoggiate dall’Occidente, e i separatisti filo-russi del Donbass. Su entrambi i fronti sono in corso massicci spostamenti di truppe e armamenti, così come si stanno moltiplicando gli scontri a fuoco che hanno già lasciato decine di vittime sul campo. Prevedibilmente, il governo ucraino e la NATO continuano a parlare di “provocazioni” russe e di preparativi per un’offensiva pilotata da Mosca, anche se in realtà le responsabilità per il precipitare della situazione sono tutte di Kiev e dell’Occidente.

Le voci di un possibile golpe o tentativo di destabilizzazione della Giordania hanno nei giorni scorsi portato alla luce la situazione di crisi in cui versa il regime della monarchia Hashemita, tradizionalmente considerato un’oasi di stabilità nella regione mediorientale. Il complotto presumibilmente in atto era stato denunciato domenica dal vice-primo ministro e ministro degli Esteri, Ayman al-Safadi, in una conferenza stampa trasmessa in diretta TV. Al centro delle trame ci sarebbe stato l’ex principe ereditario, Hamza, fratellastro dell’attuale sovrano, Abdallah II, in combutta con non meglio definite “forze straniere” e domestiche.


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